Grossman, la
libertà… e “Odissea”
di Gabriele Scaramuzza
In
occasione dell’incontro sui 15 anni di vita di “Odissea” tenuto alla Biblioteca
Vigentina di Milano il 5 marzo scorso, il filosofo Gabriele Scaramuzza ha letto
questo intervento.
V. Grossman |
Mi sto occupando di Vita e destino di Vasilij Grossman
(nella traduzione di Claudia Zonghetti, Milano, Adelphi, 2008; alle pagine di
questa edizione si riferiscono i numeri messi tra parentesi). La lettura di
questo romanzo ha ampie risonanze in me, risonanze che giungono fino a
“Odissea”. In Vita e destino, e in
generale nelle opere tutte di Grossman, assume grande rilievo la tremenda vita
sotto i totalitarismi (e al totalitarismo, come ad altri temi qui affrontati.
“Odissea” ha dato grande rilievo, fin dalla sua vita cartacea): l’orrore
dell’invasione nazista di territori sovietici, a partire dall’Ucraina (col
sistematico eccidio degli ebrei), innanzitutto. Ma anche assume un enorme
rilievo la terribile vita quotidiana sotto Stalin, fatta
di delazioni, sospetti,
diffidenze reciproche, accuse immotivate, confessioni
estorte, condanne insensate, paure, il timore assillante di essere arrestati e
condannati, a morte o ai gulag; oltre a ciò, è purtroppo vivo sotto Stalin un serpeggiante e sempre ritornante antisemitismo. E in
tutto questo
si rafforza la negazione della libertà dell’uomo, e della libertà di parola e
di stampa, un privilegio di cui malgrado tutto ancora godiamo (e “Odissea” lo
testimonia), spesso senza quasi rendercene conto.
Era soffocato del
tutto in Unione Sovietica, nello stato che si presentava come la realizzazione
del comunismo, ciò che al socialismo è essenziale: come sostiene Strum, il
protagonista del romanzo: “abbiamo parlato troppo presto di socialismo, che non
è solo metallurgia. Il socialismo è innanzitutto il diritto ad avere una
coscienza. E quando te lo tolgono, quel diritto, è un disastro. Se, invece,
troviamo la forza di agire secondo coscienza, la gioia che si prova è tale …”
(667). Ci siamo abituati a questa “gioia” (anche se non è affatto detto che
abbiamo vissuto “secondo coscienza”) e alla sottostante felicità di sentirci
liberi, tanto che essa viene oltraggiata con noncuranza, senza che nessuno ne
paghi il fio.
Così a Krymov come individuo,
uno dei protagonisti (comunista convinto, presto arrestato, torturato e
condannato nella famigerata Lubjanka, come molti altri comunisti della prima
ora) è messo in bocca (e non lo sospetteremmo proprio) uno dei passi più
stupendi del romanzo: “Il colore del cielo e delle nuvole di Stalingrado, i
bagliori del sole sull’acqua erano sensazioni fortissime. Lo riportavano alla
sua infanzia, quando la prima neve, il ticchettio della pioggia estiva o
l’arcobaleno lo colmavano di felicità. Con gli anni quello stupore sparisce in
quasi tutti gli esseri umani, che si abituano al prodigio della vita su questa
Terra” (212). Tener desto stupore (e le domande, metafisiche – perché no? - ad
esso connesse) è tra le cose cui i totalitarismi sono più avversi. Ci si
assuefà al prodigio della vita, come alla libertà di cui si gode; solo quando
ci sono tolti ne riacquisiamo il senso, insostituibile. Ciò accade nelle
sofferenze fisiche e psichiche diffuse ovunque, ma che i regimi oppressivi non
mancano di provocare, nel violento attentato alla libertà su tutti i piani che
operano, e di cui siamo vittima.
Noi abbiamo del tutto perso anche lo stupore,
felice, per il libero scambio di idee, per la libertà di stampa, l’abbiamo
deturpato quasi fosse scontato, ce ne siamo abituati; talvolta ha subito gravi
attentati da noi per fortuna finora rientrati, e abbiamo perso il sapore che
solo chi ha vissuto in epoche di negazione della libertà reca dentro di sé.
Questo sapore pervade tutte le opere di Grossman. Ci siamo dimenticati di
quanto preziosa sia la libertà di parola di cui godiamo, malgrado risorgenti
difficoltà e attacchi - di essa “Odissea” resta una testimonianza preziosa. È
per noi ovvio, qualcosa cui guardiamo come a una banalità “superata” chissà come,
troppo scontata e risaputa; laddove è stata una dura conquista, soffocata negli
anni di totalitarismi che anche noi abbiamo attraversato, e che restano in
agguato. Non lo si deve dimenticare.
Grossman è convinto che la liberà
non può mai tramontare del tutto, che torna sempre a farsi viva qualunque cosa
accada, persino in casi estremi. E cita ad esempio le resistenze, anche se per
lo più solo interiori, allo stalinismo; ma anche le aperte ribellioni del
ghetto di Varsavia o a Treblinka e Sobibor, nei gulag, a Berlino nel ’53 o nel ’56
in Ungheria (VD 195-198). La logica della verità: è “potente”, e torna sempre
far capolino: “ascoltando Mad’jarov si aveva l’impressione che prima o poi sarebbe
venuto il tempo di un’altra logica, una logica ancor più potente, la logica
della verità” (259); una libertà che trova un suo spazio eminente nella libertà
di stampa (di cui si parla a p. 261). Evidente anche nel sollievo e nel sapore
liberatorio della franchezza, della parola libera tra individui, anch’essa
conculcata in regimi oppressivi: “la felicità di parlare, di discutere senza
cautele e senza paura di ciò che lo tormentava e che, proprio perché lo
tormentava, non osava confessare a nessuno”. “Fu allora che accadde una cosa
semplice, naturale, necessaria e ambita, ma anche e soprattutto inimmaginabile:
una conversazione a cuore aperto tra due esseri umani” (371).
Certo Darenskij,
uno dei due interlocutori (l’altro è Bova), “sentiva di non aver toccato il
nocciolo della questione, ciò che avrebbe messo tutto in una luce chiara e
semplice. Ma avrebbe comunque pensato e detto ciò che di solito non pensava e
non diceva, ed era una gioia. ‘Sa cosa le dico?’ concluse, ‘Mai nella vita,
qualunque cosa mi dovesse succedere, rimpiangerò questa nostra conversazione
notturna’” (372). Nelle
parole di Čepyžin, amico fidato di Strum e mai delatore: “E credo anche che la
vita possa essere data come libertà. La vita è libertà. E la libertà è il primo
principio vitale”. “L’Universo si animerà e tutto al mondo sarà vivo, dunque
libero. La libertà, la vita, sconfiggerà la schiavitù” (658, 659) – quella
libertà che, non occorre ripeterlo, i regimi totalitari tentano di annegare.
Queste sono le utopie che reggono la
scrittura di Grossman, e le danno respiro, la giustificano. Al fondo, e lo si
vedrà benissimo nelle ultime opere, sta una fede che non esiterei a chiamare
(come altri fanno) di radici ebraiche, cui non mi
tratterrei tuttavia di aggiungere anche autenticamente cristiane (sia pur non
nell’adesione a una qualsiasi religione positiva): la bontà verso tutti, la
pietà anche per i vinti, il rifiuto dell’ingiustizia imperante (di cui
testimoniano anche gli altri libri di Grossman), malgrado una vita passata
anche nell’adesione alla visione del mondo della rivoluzione,
della cui disumanità tuttavia presto si rese conto. Malgrado
Grossman sia consapevole della disperante “legge di conservazione della
violenza” che domina la storia, egli serba la fede nell’“inevitabilità della
libertà”, e la “fiducia nella bontà come forza irrazionale, istintiva,
immotivata, capace però di riscattare la violenza e alleviare il male” (come
scrive Vittorio Strada in un bel saggio dedicato, contenuto in Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman
tra i classici del XX secolo). Oltre a quello alla libertà, il richiamo alla
bontà - così spesso devastata nei fatti e annegata oggi in un “buonismo”, già
di pessimo gusto come termine, e infaustamente derisorio - è da tenere nella più seria considerazione.