GLI SCIOPERI DEL 1
MARZO 1944: UNA LOTTA OPERAIA
CHE HA SEGNATO LA
STORIA D’ITALIA
di Franco Astengo
Continuare a ricordare ogni anno
alla ricorrenza le giornate degli scioperi del 1 Marzo 1944 contro l’invasore
nazifascista e che segnarono un punto di svolta nella Resistenza dimostrandone
il radicamento nei settori decisivi della classe operaia delle grandi
fabbriche, non serve soltanto per una indispensabile operazione della memoria.
Significa anche riaffermare, in tempi davvero difficili per la democrazia
italiana sottoposta ad attacchi molto duri, quell’origine e quelle radici:
Resistenza e classe operaia restano come stelle polari, punti di riferimento,
per chiunque oggi intenda ancora affermare i valori della democrazia, della
libertà, del riscatto sociale, dell’eguaglianza. Da ricordare ancora, in questo
giorno così importante per la nostra memoria storica, l’efferatezza che reca
sempre con sé la guerra: un monito che vale anche per l’oggi, per i pericoli d
guerra totale che stiamo attraversando e, per quanto riguarda l’Italia, per
combattere la tragica “voglia” dei
nostri governanti di tornare a vivere
nuovamente avventure colonialiste
come accade nell’attualità per le vicende africane, dalla Libia al
Niger.
Gli scioperi
del 1 Marzo 1944 furono un atto, prima di tutto, di “fierezza operaia” anche se furono soprattutto opera di una
meticolosa organizzazione politica, e i martiri che sacrificarono la loro vita
nella deportazione che ne seguì va tenuta ancora come esempio di sacrificio e
di dedizione alla causa comune della pace e della dignità umana che bisogna
sempre mantenere nella nostra mente.
Ricordiamo
che entrarono in sciopero, nelle diverse fasi della lotta, circa mezzo milione
di operai nelle grandi fabbriche del Nord e che, tra marzo e giugno, furono
deportati a Mauthausen circa 3.000 lavoratori scelti tra i gli organizzatori
degli scioperi e tra i più attivi quadri politici presenti nelle fabbriche.
Proviamo
allora a entrare nel merito di quella giornata producendo un minimo di
ricostruzione storica:
L’Unità del
15 Marzo 1944, sotto l’occhiello : “La classe operaia all’avanguardia della
lotta di liberazione nazionale” titolava :” Lo sciopero generale dell’Italia
Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori della
Patria”.
Era quello,
in estrema sintesi, il giudizio che l’organo ufficiale del Partito Comunista
Italiano forniva allo sciopero delle grandi fabbriche, svoltosi il 1 Marzo di
quell’anno: un vero e proprio punto di svolta nella Resistenza al Centro-Nord,
di cui ricorre in questi giorni il settantunesimo anniversario, e che è
necessario ricordare non soltanto per dovere di cronaca o per ricordare quanti,
in quell’occasione, furono prelevati dalle fabbriche e portati nei campi di
sterminio, Mauthausen in particolare.
L’intervento
della Resistenza a sostegno dell’offensiva alleata del primo trimestre 1944 non
si manifestò, infatti, con l’intensificata guerra partigiana sulle montagne e
nelle città.
L’importanza
e l’efficacia di quel contributo deve essere collegato, quando si sviluppa un
tentativo di analisi storico – politica, alla vasta azione di massa condotta
dalle classi lavoratrici.
Solo in quel
modo, nella saldatura tra la lotta di montagna, quella di città e la presenza
nelle grandi fabbriche, il movimento di Resistenza avrebbe assunto un ruolo
decisivo in quella fase cruciale della guerra, alla vigilia dello sbarco in
Normandia e mentre sul fronte est le truppe sovietiche stavano calando a marce
forzate verso Occidente. Ben consapevole di questa necessità d’intreccio tra i
diversi livelli della lotta, fin dal Gennaio 1944, la direzione per l’Alta
Italia del PCI (Longo, Secchia, Li Causi, Massola, Roasio) tenne una riunione,
alla quale intervennero anche i rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano
diretto gli scioperi nel novembre - dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte,
Grassi per la Lombardia, Scappini per la Liguria) e decise di avviare
immediatamente la preparazione di uno sciopero di vaste proporzioni,
costituendo a questo fine un comitato di agitazione per il Piemonte, la
Lombardia e la Liguria.
L’iniziativa
venne poi discussa ampiamente con gli altri partiti del CLNAI, e in particolare
con il partito socialista e il partito d’azione che s’impegnarono anch’essi nel
lavoro preparatorio.
Seguirono
settimane d’intensa attività politica e organizzativa per mobilitare al massimo
le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo nelle regioni
del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in Emilia; questa
estensione del movimento impose alcuni rinvii della data d’inizio, che infine
venne fissata per il 1 Marzo 1944. In campo fascista (ovviamente la
preparazione di una iniziativa di così grande portata non poté essere condotta
in totale clandestinità) era considerata con rabbiosa inquietudine anche perché
avrebbe significato di fatto il fallimento di una grossolana manovra
propagandistica: la cosiddetta socializzazione della gestione delle imprese,
che proprio in quei giorni (il decreto legislativo nel meritò portò la data del
12 Febbraio) il governo di Salò aveva lanciato proprio nell’intento di placare
l’ostilità delle masse operaie. Quelle masse operaie che accolsero con assoluta
indifferenza il progetto di socializzazione, attorno al quale tuttavia i
fascisti continuarono a orchestrare una rumorosa campagna propagandistica,
sperando di riuscire così a richiamare prima o poi su di esso l’interesse dei
lavoratori.
Una speranza
che crollò miseramente di fronte alla prospettiva dello sciopero.
Considerata
l’impossibilità di bloccare il movimento, le autorità fasciste tentarono di
ridurne gli effetti diramando attraverso la stampa l’annuncio che alcune
fabbriche piemontesi sarebbe rimaste chiuse per 7 giorni, a cominciare dal 1
Marzo, per mancanza di energia elettrica.
L’espediente,
subito denunciato da un manifesto del comitato interregionale, non impedì che
proprio a Torino e in Piemonte si registrasse una elevata partecipazione allo
sciopero: 60 mila lavoratori in città e 150.000 in Regione si astennero dal
lavoro. Sin dal primo giorno lo scioperò si rivelò imponente e vide
complessivamente la partecipazione di circa mezzo milione di lavoratori.
A Milano
scioperarono anche le maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per
tre giorni l’organo della grande borghesia lombarda non poté uscire.
La
repressione tedesca fu dovunque feroce.
L’ambasciatore
Rahn ricevette personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per
cento degli scioperanti. E anche se il mostruoso provvedimento non fu eseguito
nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il
danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica (come spiegò lo stesso
Rahn) si calcola che circa 1.200 operai furono deportati nei campi di lavoro in
quello di sterminio di Mauthausen. I fascisti s’assunsero il ruolo servile di
esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo minacciose intimazioni agli
operai che continuavano ad astenersi dal lavoro.
A Genova, il
capo della provincia Basile (lo stesso personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe
stato al centro dei moti genovesi contro il governo Tambroni, per via della
decisione del MSI di fargli presiedere il previsto congresso nazionale di quel
Partito proprio a Genova: congresso che proprio quelle mobilitazioni di piazza
impedirono che si svolgesse aprendo la strada anche alla caduta del governo che
gli stessi missini stavano sostenendo) lanciò un “ultimo avviso”, minacciando –
appunto – la deportazione nei campi di sterminio (si trattava, secondo lui, di
mandare gli operai a “meditare sul danno arrecato alla causa della vittoria”).
Il successivo 16 Giugno 1944 in adesione a
quell’ordine 1.488 operai genovesi furono deportati dopo essere stati
rastrellati all’ingresso nelle fabbriche all’Ansaldo, all’Ilva, alla SIAC.
La sera
stessa del 1 Marzo , a Savona, 150 operai dell’Ilva e della Scarpa e Magnano
furono arrestati per essere poi avviati alla deportazione (un carico di
savonesi arrivò a Mauthausen il 26 Marzo dopo essere passato per la Casa dello
Studente e San Vittore): altri luoghi d’origine della deportazione furono
Varese (50 deportati), Prato (dove lo sciopero fu totale e generale), Bologna.
Da Torino
furono deportati 400 lavoratori (178 appartenenti alla FIAT), da Milano 500, in
particolare dall’area di Sesto San Giovanni (Breda, Falck, Marelli, Ansaldo).
Dati
sicuramente incompleti.
In realtà lo
sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà combattiva, fu un
movimento di massa che non trova riscontro nella storia della resistenza
europea.
Ai fini
bellici la sua importanza non fu minore, se si pensa che per otto giorni la
produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia invasa.
Il che equivalse per i tedeschi a una grossa sconfitta riportata sul campo di
battaglia. Complessivamente è possibile riassumere il senso complessivo di
quelle giornate (gli scioperi si conclusero come previsto dal comitato di
agitazione interregionale l’8 Marzo) rileggendo quanto scritto, all’epoca dalla
“Nostra Lotta”: “ Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 Marzo
assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga
superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva; indica la strada da
seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie,
in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione
dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i
patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e
diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta:
essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria
libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra
patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.
Gli scioperi
del 1-8 Marzo 1944 assunsero anche un significato generale di indirizzo
politico della lotta di Resistenza: il proletariato aveva assunto, in
quell’occasione, un senso di “responsabilità nazionale” che stava dentro alle
indicazioni dei partiti che componevano il CLNAI, facendo così convivere le
istanze della liberazione della classe con quelle della vittoria sul
nazifascismo e dell’avvento della democrazia.
Quello fu il
compito di sintesi dei grandi partiti della sinistra, il partito comunista e il
partito socialista: far convivere, all’interno di un progetto che era appunto quello di un vero e proprio
radicale rinnovamento della democrazia in Italia, le motivazioni di classe con
quelle antifasciste in senso strettamente politico.
Un lavoro di
indirizzo e di sintesi non facile, realizzato anche in forme contradditorie, ma
che alla fine ottenne un risultato fondamentale: ancor oggi possiamo, infatti,
affermare che alla base di quella che è stata la democrazia repubblicana
sviluppatasi nel dopoguerra in Italia e della quale sono stati pilastri
fondamentali la centralità del Parlamento, i partiti di massa, il sistema
elettorale proporzionale stanno le grandi lotte operaie durante e
successivamente al conflitto e il ruolo sostenuto nella Resistenza dalla classe
lavoratrice e dai partiti che la rappresentavano.