Piacenza 2 giugno 1943
Gerardo Sangiorgio |
Queste
riflessioni sono state mandate al nostro collaboratore Gabriele Scaramuzza dal
figlio di Gerardo Sangiorgio, accompagnate dalla lettera che qui riproduciamo. Ci
sono parse interessanti per proporle ai lettori e alle lettrici di “Odissea”.
Chiar.mo
Professore,
Le sono
sinceramente grato per la disponibilità che vorrà dedicarmi: mi permetto di
sottoporre al Suo parere le note che seguono. Si tratta di un dattiloscritto di
Gerardo Sangiorgio (22 anni di formazione cattolica e critico verso il
fascismo), mio padre, del giugno 1943, circa tre mesi prima della sua
deportazione per mano nazista. Non so se a un genere, a una scuola, a un'eco è
possibile associare queste note e se rientrano in qualche riflessione diffusa
in quegli anni. Mio padre, allora, era uno studente di Lettere classiche
all'Università di Catania, chiamato a forza a svolgere il servizio militare. Si
trovava al momento a Piacenza, perché non congedato, dopo aver contratto di una
malattia cardiaca sul fronte greco.
Sinceramente
e con gratitudine,
[Placido Sangiorgio]
Gerardo Sangiorgio |
1) La soddisfazione di un attimo
vale bene il tormento di un’ora.
(Se intensa,
la più effimera delle soddisfazioni per un ideale conseguito ripaga ad usura il
più lungo dei travagli per il suo conseguimento).
2) Facciamo un esame obiettivo
dell’uomo e vediamo come esso si renda da se stesso infelice e, ad un tempo, vi
è come fatalmente trascinato: egli è attivo, perché vuole conseguire qualche
cosa sempre maggiore di quella che possiede, pensando di arrestarsi poi a
godersela. Ma il suo animo ostinatamente inappagabile non gli lascia requie: la
cosa grande e bella che bramava, conseguitala, la sfiora appena, in questa sua
corsa, perché la trova infinitamente più piccola di come la sognava o di come
doveva essere per dargli la felicità o di come è un’altra più in alto, che il
suo spirito inappagato gli prospetta, nell’anelito a quella felicità che lo fa
attivo. – Ma la corsa è pazza ed affannosa, e la felicità rimane solo nel
miraggio, che fugge vanamente inseguito. – Così, arriva al termine ansimando, abbracciando (1)
ombre…
Gli si
potrebbe dire di appagarsi del poco, goderlo quasi covandolo. Forse lo
comprende, ma all’amor proprio non si ragiona. Infatti, è appunto questo che ci
sprona, tra una conquista e l’altra, mostrandoci la conquista maggiore di un altro;
perché ci vorrebbe tra i primi (se non i primi), mirando più che alla nostra
reale felicità all’appagamento ed al soddisfacimento di se stesso. Tante volte
tendenza alla felicità ed amor proprio vanno di pari passo, ma tante altre
volte è l’amor proprio che uccide la felicità; perché o ci svia e ci perde,
accecandoci con fittizi bagliori della pompa e della preminenza. – con nostra
incoscienza o con coscienza parziale e, solo eccezionalmente, totale – od anche
se talvolta, alla fine, ci fa conseguire ciò che è per il nostro meglio e che,
alle volte, tende anche ad accostarsi alla felicità, questo perde molto,
soprattutto perché viene a trovarsi fuori del tempo in cui il desiderio di esso
fu concepito e, dimostrandosi così cosa contingente, ci soddisfa molto di meno.
Infatti, più bello della conquista è il desiderio di essa, che a lungo andare,
perde molto del suo primitivo fascino, perché la conquista c’è costata il
sacrificio di buona parte della nostra esistenza e non è più bella come un dono
sospirata solo per poco, sia pure intensamente, e frutto solo di un piccolo
sacrificio: noi sentiamo allora il vuoto tra ciò che abbiamo perduto
(giovinezza) e ciò che abbiamo conseguito, che troviamo rimpicciolito di fronte
alla perdita di quel grande tesoro. – Intanto è trascorso il meglio della vita.
Se quello
stesso non si consegue, ci troviamo con una vita che ci sembra sempre più
inutilmente spesa e già al declino, l’ideale tramontato per sempre, e noi ci
accorgiamo allora di essere degli infelici disperati.
3) La felicità e l’infelicità, il
più delle volte, germogliano da se stesse nell’intimo dell’animo per
particolari (2) disposizioni di questo, momentanea, acquisita per sempre od
innata, mentre gli uomini si ostinano a crederle frutto della sorte. -
4) Colui che teme molto per sé, prevede tutte le cose peggiori. -
5) La speranza è un sogno che ci trasporta fuori dal reale. Essa
nasce nella miseria e crede alla volubilità casuale – dato che ignoriamo le
leggi o la volontà di un ordine superiore che le governa – delle vicende umane.
– Da ciò deriva che anche gli uomini fatalmente infelici sperano, non sapendo
che la loro infelicità è fatale, cioè ad essi immanente per tutta la vita, come
prestabilita da una legge suprema e perciò irremovibile. Non conoscendo però
questa loro predestinazione di infelicità, sperano, nel buio in cui si trovano,
che anche la loro sorte vari, come l’hanno vista variare negli altri: non sanno
che il loro destino è tutto particolare. – Ma, ad un certo momento, escono dal
sonno e rientrano nella realtà: si son voltati indietro ed hanno vista la lunga
serie dei loro grami anni; han guardato davanti ed hanno visto l’oscuro vano di
una bara. Al tempo stesso, è cessata l’illusione di un domani migliore (cioè la
speranza), ed è sottentrata la disperazione.
6) Un uomo che si presenta diverso
da tutto un complesso di altri uomini – specie se ha dello strano – è oggetto o
del massimo biasimo (il più delle volte perché non lo si comprende) o della
massima esaltazione (il più delle volte perché lo si giudica di più di quanto
in sostanza non valga) per quell’aria di mistero (3) che lo circonda, la quale ci
fa presumere che la potenza del suo talento, che noi pensiamo di non potere
arrivare a comprendere, (dal momento che lo crediamo un essere eccezionale e
riteniamo mediocre di fronte ad un tale uomo la nostra intelligenza) si spinga
molto più in là di quel tantino che in lui c’è stato dato riscontrare. (4) – E non
pensiamo invece che possa arrestarsi lì, come capita tante volte. E ciò anche
perché tutti lo hanno esaltato e ci riesce ben difficile il tenerlo più piccolo
della sua stima, corroborata spesso da persone di valore. Quindi, al di là di
ciò che in lui scopriamo da noi stessi, stendiamo un velo nero, misterioso ed
impenetrabile nei tesori che cela, ai quali però noi crediamo ciecamente,
fidando oltre modo nella intelligenza di coloro che presupponiamo li abbiano
scoperti e di cui, ancora una volta, stimiamo al sommo il giudizio, solo perché
al sommo lo abbiamo stimato. –
7)
I genitori amano di più i figli che più soffrono, specie se soffrono per
affrontare la lotta della vita. (5) Anche se in questa lotta quel figlio soccombe
per improba fortuna, lo prediligono ugualmente. – Essi sono quindi più giusti
del mondo, che guarda gli uomini come un dipinto statico ed unilaterale, li
apprezza così come li vede, senza dar valore al peso che ha nella bilancia
delle vicende degli uomini la fortuna e li giudica quindi tutti su uno stesso
piano. – I genitori invece ti apprezzano con indulgenza: il poco è molto per
loro: perché ti conoscono di più e ti amano e perché sanno, più di ogni altro,
quali sacrifici t’è costata quella strada che ti sei scavata colle unghia nel
mondo. Ti ammirano, anche se non conoscono a fondo il tuo merito e non ti
possono apprezzare, a differenza del pubblico, come un sacro prodigio,
piuttosto che come un corpo da anatomizzare. – Tu per loro diventi come il
fiore più bello della loro pianta, su cui si piegano per coprirlo con le loro
foglie, con cura gelosa. – Ti vedono ingrandito ed anche tu credi di essere più
grande, ma ti si può giustificare perché godi di alimentare in loro questa
sensazione e di renderli così felici, anche se in fondo senti di non meritare
tanta stima. Però ci tieni e ti senti spinto di più verso di essi, anche per
farti animo e per avere più forza di proseguire. Ti sembra che il loro giudizio
sia il più esatto, anche per giustificarti di fronte a te stesso di non avere
fatto tanto quanto le tue possibilità ti permettevano. Dopo un successo
pubblico, tu li cerchi, perché non sei pago che la gioia sia solo tua e non sia
invece anche di loro. È allora che tu ti senti più soddisfatto e credi di avere
avuto dai genitori il più esatto dei giudizi, quello che ti concilia con te
stesso, che ti incita e ti fa guardare con indifferenza chi ti disprezza. – Il
pubblico se ne esalta ed approva anche ciò che è indegno e meschino, solo
perché lo allieta. – Tu che lo sai, vai allora dai genitori per vedere se sei
come ti hanno sognato, se meriti stima anche per rettitudine: essi sono come il
primo tribunale, il più esatto, quasi patriarcale, sacro. Solo allora ti senti
pienamente felice del tuo successo.
Gerardo Sangiorgio |
1 Nel
dattiloscritto “abbranciando”.
2 Nel
dattiloscritto “particolare”.
3 Nel
dattiloscritto “mostero”.
4 Nel dattiloscritto
c'è una parentesi a chiusura della parola “intelligenza”, ma manca quella di
apertura. Dal senso generale del discorso ritengo che questa vada posta a “dal
momento che”, che riprende, sintetizzandolo, il pensiero precedente. Una
parentesi si chiude al verbo “riscontrare”, ma trattasi chiaramente di un
errore.
5 Nel
dattiloscritto sono presenti altre parole, cancellate col bianchetto. Si riesce
a stento a leggere “per aprirsi un varco al fine di in-”.
[Trascrizione e note di Salvatore Borzì]
[Trascrizione e note di Salvatore Borzì]