di
Filippo Ravizza
Filippo Ravizza |
[Apparso su “Notizie Nazionali” del 3 dicembre 2019]
È forte il filo conduttore
che l’attenta percezione dei sintomi sociali di Gaccione pone a rilegare in un
unico fascio concettuale questi 15 racconti brevi che sostanziano "L'incendio
di Roccabruna", la nuova interessantissima prova di bravura nella
gestione dello strumento del racconto fornita da Angelo Gaccione, uscita
quest'anno per la Di Felice Edizioni. Il filo conduttore è la capacità del
nostro autore di penetrare, fino a raggiungere le più profonde scaturigini
storiche, una ben precisa condizione esistenziale: quella di una società colta
nel suo ritardo nello sviluppo industriale e quindi ancora contadina-latifondiaria
pre-capitalistica o paleo-capitalistica, divisa ferreamente - anche se di
questa divisione ben poca è la coscienza - tra dominanti e dominati; dominanti
e dominati uniti però - proprio in forza di questa dimensione ancora
"selvaggia" - nell'essere attori di esistenze uniformate, o rese
quantomeno simili, da superstizioni ancestrali ed equilibri di sopravvivenza,
legati a brutali rapporti di forza con cui i dominanti mantengono il controllo
e il proprio potere sui dominati: braccianti o piccoli proprietari, mandriani,
calzolai, muratori, piccoli commercianti. Roccabruna è - dichiara Gaccione - un
nome inventato, ma simbolico e rappresentativo di una terra che è la terra di
origine di questo autore - che vive e lavora a Milano da più di 40 anni - la
Calabria. Attenzione però: questa collocazione geografica non credo debba
essere "circondata" da paletti e confini; la Calabria di Gaccione è
una terra che si allarga a comprendere tutte le terre dove ancora violenti e
brutali sono i rapporti sociali, in qualsiasi parte del mondo esse siano. Il
libro di cui stiamo parlando consiste in 15 tappe, 15 racconti, tasselli di un
grande affresco tragico: il quadro orrendamente bello di una serie di violenze,
sopraffazioni, abusi, inaudite crudeltà, alfa e omega forse di tutti i Sud (e
già qui azzardo una categoria mentale che può legittimamente essere respinta e
contestata, quella di "Sud" come sinonimo di arretratezza rispetto
allo stesso distorto e violento sviluppo capitalistico); tutti i Sud del mondo.
E fin qui abbiamo scritto qualche riflessione sul valore simbolico del libro.
C'è poi però il versante concreto dei racconti, dove non mancano elementi
linguistici (uso di proverbi e modi di dire apologanti) che ambientano
storico-antropologicamente e radicano lo scenario concreto in una Calabria che
spazia dal medioevo agli anni Cinquanta del secolo scorso. Un excursus storico
che investe la Calabria della emigrazione con le vicende delle mogli e delle
figlie dei migranti; le vicende dei pastori al servizio dei baroni latifondisti
(ad esempio "Il delitto di Santo Stefano", pagina 11); vite
impoverite verticalmente "A chiamarla vita quella - scrive Gaccione -
sarebbe stata un'offesa: sei mesi sull'altopiano, e sei mesi in marina, a
svernare con la mandria di don Ciccio Feraudo". I racconti quindi sono
assistiti da uno stile che coadiuva l'immaginario e la memoria del nostro
autore, radicandoli - come afferma Vincenzo Consolo nell'introduzione al libro -
"nel carattere realistico, oggettivo, storico e sociale della letteratura
meridionale e calabrese". Il banditismo, ma anche le faide decennali che
sterminavano intere famiglie, il sesso che è qui sempre stupro o, quando non lo
è, chiede, chiama mariti, o padri addirittura, alla vendetta, al lavacro
purificatore dell'onore familiare attraverso la morte della femmina che se non
è stuprata allora è diabolica scardinatrice di equilibri di potere maschile
antichissimi. Entriamo in un altro contesto a pagina 27, con il racconto
"La taglia" dove Gaccione, studioso del fenomeno del Brigantaggio
ottocentesco nel sud Italia, ci offre, attraverso le riflessioni di un capo-banda,
la sua analisi sulle cause di questo fenomeno storico "verso la fine del
Seicento - dice il nostro autore - e nella prima metà del Settecento, poi sotto
i Borboni, gli usurpatori tirarono fuori i loro artigli voraci. I ladri del
bene pubblico, i mangiatori di terra, gli affamatori dei poveri, si misero al
lavoro perché le terre fossero schiave [...] La terra passò nelle mani di
trenta famiglie o poco più; non le più laboriose, non le più bisognose, non le
più oneste, ma le più arroganti, le più ladre, le più crudeli" (pagina
28). Questo libro apre le porte ad un nuovo meridionalismo fatto di capacità
minuziosamente descrittive, atte a penetrare nella natura profonda di
situazioni oggettive, comunità nettamente e torvamente connotate da sistemi
ancestrali di vincoli. Gaccione ha la capacità di "tirar fuori" dalle
sue descrizioni, dalle sue similitudini, dalle sue sentenze accorate, le cause
profonde per cui a determinate strutture non possano che corrispondere determinate
esistenze, determinate comunità dove l'irrompere della razionalità starebbe
forse nell'insurrezione violenta e organizzata dei dominati; insurrezione per
cui però non si possono dare, in quei contesti, le condizioni. Anche per questo
"L'incendio di Roccabruna" è un libro lucido e tragico. Ma
lucidità e tragedia, si sa, sono elementi costitutivi della bellezza.
Angelo
Gaccione
L’incendio
di Roccabruna
Di
Felice Edizioni 2019
Pagg.
128, euro 12,00