ARGOMENTI PER IL REFERENDUM
di
Franco Astengo
In
Parlamento è stato raggiunto il numero di firme necessario perché si addivenga
alla celebrazione del referendum popolare abrogativo della legge che stabilisce
la riduzione nel numero dei parlamentari portandolo a 400 per i deputati e a
200 per i senatori in luogo rispettivamente di 630 e 315.
Sarà indispensabile che nel confronto elettorale
sia presente una “sinistra costituzionale” in grado di proporre una riflessione
sulla centralità del parlamento come delineata dalla Carta e sull’esigenza che
questa centralità sia sostenuta da un adeguato livello di rappresentanza
politica e territoriale.
Da questo punto di vista bisognerà far notare come
il livello dello scontro sarà della stessa qualità di quello sostenuto avverso
il disegno di deforma costituzionale del 2016.
Naturalmente
rimane tutto da vedere se si svolgerà davvero il confronto nelle urne: sono
diverse le variabili possibili prima fra tutte quella di chi potrebbe avere
interesse ad anticipare le elezioni per aver ancora a disposizione un numero
maggiore di seggi da mettere in palio consentendo ai partiti margini di manovra
più ampi sui termini delicati della composizione delle liste.
Si
ricorda comunque che lo svolgimento delle elezioni legislative generali e del
referendum confermativo è compatibile nello stesso anno, come accadde nel 2006
(in quell’anno si elesse anche il nuovo Presidente della Repubblica).
In
caso affermativo il voto dovrebbe effettuarsi in primavera e sarà una campagna
elettorale molto difficile per chi intendesse di sostenere il mantenimento dei
numeri attuali.
È
facile, infatti, individuare come rimanga molto forte, comunque, nell’opinione
pubblica il vento dell’antipolitica alimentato dall’idea della “riduzione dei
costi”, vero e proprio punto terminale di una sorta di “furia iconoclasta”
ormai in corso da molto tempo e rivolta verso il Parlamento e i suoi membri. Tutto
questo avviene, del resto, in un Paese dove il 48% delle cittadine e dei
cittadini auspica un “uomo solo al comando” dotato di poteri non intralciabili
da elezioni e parlamento: un grido che, del resto, si levò molto forte da tutte
le spiagge nell’indimenticabile estate del 2019.
Chi
intendesse sviluppare una campagna elettorale favorevole all’abrogazione della
legge di riduzione si troverebbe quindi sottoposto al rischio di ondate di
forte impopolarità, come avvenne del resto a coloro che nel 1993 difesero
l’impianto proporzionale dalla ventata maggioritaria (referendum del 18 aprile
di quell’anno con l’82% favorevole al maggioritario: i risultati di quella vera
e propria “ubriacatura collettiva” sono stati quelli che abbiamo sotto gli
occhi: difficile ingovernabilità, crescita numerica dei gruppi parlamentari,
estrema fragilità del sistema politico e sfibramento nel rapporto di
credibilità delle istituzioni rispetto all’opinione pubblica).
È
comunque il caso di aprire un ragionamento di merito.
Principiamo
dal tema più delicato: quello riguardante i costi del Parlamento e l’auspicato
contenimento. Una
riduzione che farebbe, appunto, leva su di un minor numero di persone presenti
nelle aule anziché sulla riduzione dei loro emolumenti e su di una revisione
complessiva del tema del finanziamento della politica affrontato anch’esso nel
corso degli anni con un pressapochismo derivante direttamente dall’inseguimento
acritico di ventate populiste.
In realtà la
questione del numero dei parlamentari non dovrebbe riguardare il tema dei costi
della politica, come invece agitato dalle mode propagandistiche di questi
tempi.
Vale la pena
ricordare alcune banalità: il numero dei parlamentari dovrebbe, infatti, essere
legato a due questioni assolutamente decisive per il funzionamento di una
democrazia complessa come dovrebbe essere quella italiana, quella della
presenza politica e quella della presenza territoriale.
Al riguardo
di questi temi, è bene ricordarlo, sono in essere tendenze fortemente
semplificatorie al punto da far pensare una situazione già collocata
pericolosamente “oltre” quelle tensioni presidenzialiste che pure erano
affiorate nel recente passato con l’inasprirsi del peso della personalizzazione
della politica, fenomeno veicolato da un uso esasperato della comunicazione
mediatica in maniera del tutto distorcente il messaggio generale del dibattito
pubblico.
Il
riferimento della pericolosità della situazione sul piano della tenuta
democratica è dovuto insieme, alle tensioni populiste nate dalla cosiddetta
“antipolitica” e rivelatesi sicuramente egemoni assieme alle tentazioni sovraniste
seguite: All’arresto del processo di globalizzazione seguito alla crisi dei
subprime del 2007; all’andamento e all’esito delle guerre mediorientali e nel
Nord Africa. Guerre segnate dal fallimento della linea dell’esportazione
forzata dal modello liberaldemocratico.
L’insorgere
di un’articolazione di confronto tra le grandi potenze seguente la fase contrassegnata
dagli “USA soli gendarmi del mondo” nel post caduta del muro di Berlino e dalla
teoria (sbagliata e ripudiata dallo stesso autore) della “fine della storia”.
Torniamo
però al centro del nostro discorso.
Come è già stato fatto rilevare non sarà
semplice, e all’apparenza sicuramente impopolare, sostenere il mantenimento
degli attuali numeri di composizione delle Camere rimanendo anche vigente il
bicameralismo paritario.
Pur tuttavia
è necessario farlo precisando da subito alcuni dati che ignorati potrebbero far
passare per verità dei semplici luoghi comuni.
Prima di
tutto con questa riforma l’Italia passerebbe, infatti, a uno degli ultimi posti
in Europa sul piano della rappresentanza politica in rapporto alla popolazione. La riduzione
del numero dei parlamentari così come prevista dalla legge oggi eventualmente
sottoposta al vaglio referendario, porterebbe, infatti, il rapporto tra il
singolo parlamentare e la popolazione di riferimento a 1 su 151.000. Nel Regno
Unito il rapporto è 1 su 101.000; in Olanda 1 su 114.000; in Francia 1 su 116.000;
Germania 1 su 116.000; Spagna 1 su133.000.
Sono stati
citati Paesi di consolidato assetto democratico con una presenza abbastanza
ampia sul piano del pluralismo parlamentare. Paesi che utilizzano diverse
formule elettorali, dalla proporzionale pura dell’Olanda, alla proporzionale
con sbarramento al 5% in Germania, ai relativamente piccoli collegi della Spagna
dove non si recuperano i resti utilizzando il d’Hondt, al doppio turno
francese.
Occorre
allora chiarire che affrontare il tema del numero dei parlamentari non dovrebbe
essere possibile in assenza di una valutazione complessiva circa il rapporto di
popolazione esistente all’interno del collegio e/o circoscrizione; del metodo
di elezione (lista bloccata “corta”, uninominale o lista lunga con preferenze,
esprimibili in vario modo) e la realtà del sistema politico dal punto di vista
della sua capacità di rappresentanza delle diverse “sensibilità politiche”
(usando un termine togliattiano) presenti in una dimensione consistente nel
territorio nazionale, garantendo anche la presenza delle minoranze linguistiche
ed etniche.
La questione
deve quindi essere intesa come afferente il sistema elettorale nel suo
complesso (che non riveste rango costituzionale) e non soltanto vista sotto
l’aspetto della formula di traduzione dei voti in seggi.
In questo
senso appare dunque fondamentale il disegno dei collegi: un punto sul quale, in
passato, si erano già sviluppate criticità che portarono a rappresentare
elementi dirimenti per il giudizio negativo espresso dalla Corte Costituzionale
al riguardo dei ben due leggi elettorali, entrambe bocciate dalla stessa Alta
Corte. Disegno dei
collegi che non è stato ancora eseguito.
Si ricorda,
infine, come la Costituzione preveda un sistema politico fondato sulla
“centralità” del Parlamento, cui il governo è obbligato da un voto di fiducia
espresso da entrambi i rami (come confermato dall’esito del referendum del
2016) mentre tocca al Presidente della Repubblica incaricare il Presidente del
Consiglio e a controfirmare la lista dei ministri.
Corre dunque
il rischio di una dichiarazione di incostituzionalità una composizione delle
Camere insufficiente dal punto di vista dei riferimenti di espressione
geografica, e di presenza politica.
Rami del
Parlamento magari eletti con l’adozione di una formula elettorale di tipo
maggioritario che finirebbe con lo schiacciare ancor di più il lavoro dell’aula
nel senso di una forzatura governativista (senza dimenticare che esiste anche
un problema di regolamenti d’aula e di soglie di garanzia per la presenza delle
minoranze).
La questione
quindi non è quella dei costi ma di ordinamento delle massime istituzioni
rappresentative dello Stato nell’ambito del dettato della Costituzione Repubblicana.
Si presentano evidenti riflessi sulla capacità di rappresentanza delle Camere
sia sul piano politico, sia territoriale.
Di
conseguenza il referendum riguarda il mantenimento del ruolo centrale del
Parlamento come previsto dalla Costituzione: in sostanza lo stesso “oggetto del
contendere” del referendum che si svolse nel dicembre 2016 attorno al progetto
fatto votare (con la fiducia) dal governo Renzi.
In quel
frangente all’interno di un coacervo di opzioni politiche anche contraddittorie
si espresse anche con chiarezza una sinistra costituzionale che contribuì in
misura non secondaria al successo del “NO”.
Oggi sarebbe
ancora il caso che l’area politico-culturale rappresentativa della sinistra
costituzionale si esprimesse di nuovo con la stessa chiarezza con un “NO” a
difesa dell’ordinamento repubblicano messo di nuovo in pericolo da
improvvisazioni e facilonerie demagogiche.