di
Franco Astengo
Le
vicende “Arcelor Mittal” e “Alitalia” stanno facendo riconsiderare all’attuale
governo l’idea dell’intervento pubblico in economia.
Anzi
si sta ventilando un ingresso dello Stato nei settori strategici.
Sarebbe
complicato entrare nel merito di ciò che è accaduto nel corso degli anni con la
dismissione dell’IRI, le privatizzazioni e il ridimensionamento dell’Italia
proprio nei settori strategici della produzione industriale.
Un
ridimensionamento naturalmente verificatosi anche in coincidenza con il
mutamento del quadro internazionale e l’ingresso di nuovi protagonisti molto
aggressivi ma soprattutto avvenuto per scelte profondamente sbagliate che sono
state adottate dai diversi governi che dagli anni’90 in avanti hanno retto
l’Italia. Nelle dichiarazioni di ritorno all’intervento pubblico che si leggono
in queste ore si nota però l’assenza di un richiamo a un concetto: quello di
programmazione economica.
Proprio
all’idea della programmazione economica sono dedicate queste poche pagine nel
tentativo di ricostruire un passaggio molto importante nella fase di
ricostruzione del Paese dalla tragedia della guerra e di ingresso nella
modernità.
Ci
troviamo agli albori del centro-sinistra, dopo i sussulti verificatisi con i
fatti del luglio ’60 e la caduta del governo Tambroni.
Il
processo della cosiddetta: “Pianificazione Economica”, è ideato dal Governo
presieduto da Amintore Fanfani e proposto durante il discorso programmatico
pronunciato alla Camera dei Deputati il 2 marzo 1962.
Fanfani
per la prima volta presiedeva un Governo di Centro-Sinistra, che comprendeva:
democristiani, socialdemocratici e repubblicani; mentre il Partito Socialista
Italiano si asteneva sul voto di fiducia.
Erano
gli anni che gli storici definivano come “boom economico”; quindi pianificare e
programmare economicamente lo Stato diventava una priorità per il Governo e i
partiti della nuova coalizione di Centro-Sinistra.
Il
programma economico del governo veniva presentato dal Ministro repubblicano Ugo
La Malfa, il quale sottolineava la necessità di una pianificazione economica
concordata sia con i sindacati sia con gli industriali.
Nel
1962 lo stesso La Malfa presentava il documento che prenderà il nome di “Nota
aggiuntiva alla relazione annuale di contabilità economica nazionale.”
La
Nota aggiuntiva tracciava un consuntivo dei caratteri salienti del processo di
sviluppo della fine degli anni ’50. Il rilevante sviluppo conseguito appariva
generato da un meccanismo di mercato, “(...) nel quale hanno agito potenti stimoli
e fattori di espansione”; inoltre la Nota poneva in rilievo “(…) come gli
svolgimenti del mercato, solo in parte corretti da interventi discontinui e non
sempre coordinati da una politica economica, avessero condotto ad accentuare,
anziché ridurre, il carattere dualistico che l’economia italiana presentava
sotto l’aspetto settoriale del contrasto tra lo sviluppo dell’agricoltura e lo
sviluppo degli altri settori, e sotto l’aspetto territoriale fra sviluppo delle
regioni più industrializzate del Nord e sviluppo delle altre regioni e in
particolare del Mezzogiorno”.
La
parte finale della Nota aggiuntiva del Ministro La Malfa segnalava, tra i
principali squilibri determinati dalle carenze del passato sviluppo, il persistente
squilibrio regionale; lo squilibrio settoriale fra industria da un lato e
agricoltura e alcune attività terziarie dall’altro. Per quanto concerneva il
Mezzogiorno, la Nota riconosceva che l’intervento straordinario non era stato
sufficiente: “(…) Quello che più preme rilevare è che lo sviluppo del sud Italia
e delle altre regioni in ritardo, compresa la vasta area delle regioni centro-orientali, deve divenire una delle componenti più importanti della politica di
sviluppo dell’economia nazionale”.
Fino
al 1956 lo Stato gestiva l’economia italiana attraverso lo sviluppo delle amministrazioni
parallele o parastato.
Il
Ministero delle Partecipazioni Statali fu creato nel 1956, con responsabilità
di direzione e coordinamento delle attività degli enti parastatali.
Erano
diversi gli orientamenti sul ruolo che doveva svolgere il nuovo Ministero: il
repubblicano La Malfa voleva farlo diventare la forza trainante di una
razionalizzazione capitalistica; Mattei, lo vedeva come il campione
dell’industria di Stato contro il settore privato, idea da lui sempre
sostenuta; Fanfani, più modestamente, scorgeva una nuova burocrazia
ministeriale che poteva servire alle necessità, finanziarie e clientelari della
Democrazia Cristiana.
La
legge che istituiva il Ministero delle Partecipazioni Statali veniva licenziata
dal Parlamento il 22 dicembre 1956. Venivano devoluti al nuovo Ministero, tutti
i compiti e le attribuzioni, che spettavano al dicastero delle Finanze, nel
campo che riguardava le partecipazioni alle aziende dello Stato.
L’articolo
2 della legge precisava: “(…) al predetto Ministero sono egualmente devoluti tutti
i compiti e le attribuzioni che, secondo le disposizioni vigenti, spettano al
Consiglio dei Ministri, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Comitati
di Ministri o a singoli Ministeri relativamente all’Iri, all’Eni, e a tutte le
altre imprese con partecipazione statale diretta o indiretta”.
Al
nuovo Ministero, venivano anche attribuiti i compiti che spettavano ai
Ministeri del Tesoro e dell’Industria, in ordine al Fondo di finanziamento dell’Industria
Meccanica (F.I.M.).
All’interno
del dicastero, veniva istituito un Comitato permanente, composto dai Ministri:
del Bilancio; dell’Industria e Commercio; del Lavoro e Previdenza Sociale, che
avevano il compito di esaminare annualmente i risultati degli enti controllati
dallo Stato. Il Comitato veniva presieduto dal Presidente del Consiglio dei
Ministri.
Il
3 marzo 1957 durante il Governo Segni veniva nominato il “primo” Ministro delle
Partecipazioni Statali: il democristiano Giuseppe Togni.
Il Ministro La Malfa, nel 1962 istituì una “Commissione nazionale per la programmazione economica” (Cnpe), composta da esperti e rappresentanti delle maggiori organizzazioni di lavoratori e imprenditori.
Il Ministro La Malfa, nel 1962 istituì una “Commissione nazionale per la programmazione economica” (Cnpe), composta da esperti e rappresentanti delle maggiori organizzazioni di lavoratori e imprenditori.
Il
lavoro della Commissione doveva assicurare un vero e proprio programma
destinato a guidare le azioni di politica economica; la sua composizione aveva
suscitato a Sinistra il sospetto che si trattasse di una scelta “modernamente
corporativa”, ispirata all’esperienza francese, avviata da tempo e che veniva
rilanciata con il gollismo.
La Malfa assicurava la Sinistra della fermezza
degli indirizzi che al tempo aveva già adottato nella sua Nota aggiuntiva e la
decisione di passare alla direzione programmata dell’economia con una diretta
assunzione di responsabilità da parte del Governo.
I
lavori della Commissione nazionale per la programmazione economica cominciavano
attraverso l’attivazione di una sezione di esperti; venivano riservate per
queste sedute plenarie di esperti solo la funzione di raccolta di opinioni. Del
resto all’interno del Cnpe si riflettevano tutti i contrasti politici e sociali
che emergevano nella società italiana.
Un primo rapporto del Vicepresidente della Commissione,
Pasquale Saraceno, veniva presentato al governo nell’aprile del ’63, poi in un’edizione
riveduta, nel giugno dello stesso anno. Merito
del rapporto Saraceno era di non essere stato influenzato dall’andamento
congiunturale, e di mantenere inalterata la visione dei problemi dell’economia
italiana.
La
prima parte del rapporto considerava l’eliminazione degli squilibri esistenti
nel sistema produttivo. I problemi che si presentavano erano i seguenti:
1) “le forze di lavoro di
determinate zone, in gran parte comprese nel Mezzogiorno, devono in proporzioni
eccessive ricercare all’infuori dell’area in cui risiedono le possibilità di un
utilizzo pienamente produttivo;
2) il reddito delle forze di
lavoro e, in generale, le condizioni del lavoro agricolo presentano, rispetto
al complesso degli altri settori, uno scarto eccessivo”.
Un
secondo gruppo di problemi si riferiva al fatto che le fondamentali attività
culturali, scientifiche e formative che si svolgevano nel paese, non
disponevano di strutture organizzative e non ricevevano l’ammontare di risorse
che sarebbero state necessarie per consentire a esse, uno sviluppo adeguato al
livello di reddito raggiunto nel Paese.
La
parte terza della relazione illustrava lo sviluppo dei servizi fondamentali di
pubblica utilità: energia, trasporti, comunicazioni.
La
quarta parte, riguardava, l’efficienza del sistema: più precisamente, al fatto
che alcune zone del paese non erano indotte a conseguire i massimi livelli di
produttività che sarebbero consentiti dal progresso tecnico e dalle formule
organizzative più avanzate.
L’ultima
parte della relazione, riguardava il modo di recuperare i fondi per attuare l’intero
programma; ruolo fondamentale lo giocava la Cassa per il Mezzogiorno, che aveva
il compito di vagliare e finanziare tutti i progetti di sviluppo per il
Meridione.
La
conclusione di Saraceno fu nel segno dell’ottimismo. Infatti, lo stesso
scriveva nella relazione: “(…) L’azione pubblica, doveva essere adeguata non
solo alle risorse disponibili, ma anche al ritmo con cui le misure in progetto
potranno, rovesciando una tendenza in atto, migliorare la capacità dell’azione
pubblica”.
La
linea di continuità della Nota aggiuntiva e del rapporto Saraceno, veniva
seguita dal progetto di sviluppo economico, presentato dal governo Presieduto da
Aldo Moro. Il Ministro del Bilancio, Antonio Giolitti, presentava alla
Commissione nazionale per la programmazione economica il piano del governo per
il quinquennio 1965-1969.
Il
Piano era concepito come un insieme di decisioni di politica economica da
assumersi in sede di Governo e da sottoporre al Parlamento.
La
novità del Piano Giolitti, rispetto ai precedenti documenti, risiedeva nel
tentativo di giungere al momento della definizione delle decisioni di riforma o
di investimento che dovevano incidere non nel medio periodo ma nell’immediato.
I
rapporti con il sistema delle imprese venivano affrontati sulla base di una
premessa molto chiaramente formulata: “Il problema di programmazione si compie
in un’economia mista, nella quale coesistono centri di decisione pubblici e
privati, ciascuno dei quali è dotato di una propria sfera di autonomia. Il
programma non investe ovviamente la sfera di autonomia dei vari centri se non
nella misura in cui coordinamenti e vincoli si rivelano necessari per la realizzazione
delle sue finalità.
Per le imprese pubbliche si precisava: “(…) Una
responsabilità riguardante la conformità delle loro decisioni agli obiettivi
del programma per un esame preventivo dei programmi specifici e un esame
consuntivo dei risultati”.
Il
documento continuava chiarendo, che le grandi imprese private, quelle cioè le
cui decisioni, potevano influire sensibilmente sulla destinazione e
ripartizione delle risorse, dovevano comunicare i programmi d’investimento agli
organi di programmazione, ai fini di un accertamento della loro conformità agli
obiettivi del programma.
Per
le imprese pubbliche si affermava, inoltre, la necessità di rafforzare i poteri
di decisione del governo rispetto alle imprese a partecipazione statale e
questo, doveva avvenire attribuendo al Comitato interministeriale per la
programmazione economica (Cipe) il potere di approvare i programmi annuali e
pluriennali degli enti di gestione delle partecipazioni statali.
Il
Piano Giolitti continuava facendo notare la scarsa esperienza del Ministero
delle Partecipazioni Statali di orientare i programmi delle maggiori imprese
pubbliche; si proponeva quindi, la revisione della struttura organizzativa
delle imprese a partecipazione Statale, sulla base di grandi gruppi integrati
come l’Iri e l’Eni, e inoltre veniva proposto il rafforzamento del controllo
del Governo sulle imprese a partecipazione dello Stato.
Anche
il Ministro Giolitti, nella relazione che illustrava il suo Piano, parlava di
Mezzogiorno; egli concentrava la maggior parte delle risorse dello Stato, per
garantire la massima industrializzazione nelle aree maggiormente suscettibili
di sviluppo. La maggior parte degli investimenti arrivavano al Sud del paese,
attraverso progetti finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Giolitti
inoltre scriveva nella sua relazione: “Tutte le nuove iniziative delle imprese
pubbliche, dovevano essere realizzate nell’area Meridionale. Quanto alle aree
industrializzate dell’Italia Nord-occidentale, si esprimeva la volontà di
eliminare ogni forma d’ incentivi, e di predisporre strumenti atti a impedire
l’ulteriore addensamento di attività economiche nelle zone più congestionate,
consistenti in inasprimenti tributari a carico delle imprese che ivi si
localizzeranno”.
L’economista
Manin Carabba, giudicava in questo modo il Piano Giolitti: “(…) Va riconosciuto lo
sforzo compiuto per la realizzazione di questo piano, il carattere di una
meditata valutazione dei termini in cui una strategia delle riforme di
struttura poteva inserirsi nella gestione di un’economia mista fondata
sull’autonomia delle imprese nell’ambito delle scelte del Piano.”
I comunisti discussero della linea del centro sinistra
rispetto alla programmazione economica in un convegno rimasto celebre e svolto
nel marzo 1962 presso l’Istituto Gramsci.
In quell’occasione
comparvero i primi segni di incrinatura all’interno del Partito:
successivamente alla scomparsa di Togliatti le differenze si sarebbero fatte
più nette fino al “non sono persuaso” pronunciato da Ingrao all’XI congresso
nel 1966 e alla radiazione del gruppo del Manifesto.
Un nuovo ciclo di
lotte sindacali bussava alle porte.
La compattezza della cultura marxista cominciava ad
incrinarsi, interrogata da correnti di pensiero che non vi avevano mai avuto
cittadinanza (l’esistenzialismo, i francofortesi, la psicoanalisi). In questo
contesto era maturata l’esigenza di una rinnovata riflessione sui principi
teorici, le strategie politiche, le strutture organizzative e gli stessi
referenti sociali su cui il Pci aveva fondato il proprio radicamento nel primo
quindicennio repubblicano. Di tale esigenza fu espressione il convegno del
Gramsci, segnato da un memorabile scontro tra Giorgio Amendola da una parte e
Bruno Trentin, Vittorio Foa e Lucio Magri dall’altra.
Per la cronaca, la tesi di Trentin - come di Foa e Magri -
era che le forze più dinamiche della Dc avevano un progetto di modernizzazione
economica e sociale del paese, basato su un patto neocorporativo tra grandi
imprese e movimento sindacale, con cui bisognava confrontarsi. Amendola la
liquidò seccamente, ritenendola avveniristica. Il compito del movimento
operaio, fu la sua replica, era quello di supplire alle carenze di una
borghesia assenteista, responsabile della storica arretratezza del Mezzogiorno,
e quindi di tagliare le unghie alla rendita e ai monopoli.
. Dopo quasi sessant’anni, si può dire che Amendola non
aveva torto quando sosteneva che, per vincere quella battaglia, era necessaria
la riunificazione della sinistra in una prospettiva di governo. Ma Trentin, Foa
e Magri avevano ragione quando sostenevano che il miracolo economico non poteva
più essere interpretato con le tradizionali categorie dell’extraprofitto
parassitario e del supersfruttamento operaio: cardini di un “capitalismo
straccione”, appunto, che ormai non c’era più.
Intanto
nel dicembre del 1963, si era formato il primo governo organico di centro-
sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni.
Democristiani e socialisti hanno stretto un’alleanza di governo. «l’Avanti»
titola: “Da oggi ognuno è più libero”. Ci sono grandi aspettative, la scuola,
la sanità, l’urbanistica, la programmazione economica, le “riforme di
struttura”. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su
quello moderato. Il PSI però perde parte
della sua ala sinistra che, in opposizione al governo, forma lo PSIUP. Nella Dc
prende consistenza un coagulo conservatore e a guidarlo c’è proprio il
presidente della Repubblica, Segni, che pure a Moro doveva tanto, anche
l’elezione alla presidenza. Il 26 giugno del 1964, dopo essere stato battuto su
di un voto riguardante il finanziamento della scuola privata, Moro rassegna le
dimissioni.
Segni
vorrebbe affidare il governo a un esponente della destra DC (Scelba, Pella o
Leone) o a una personalità tecnica come Merzagora; Moro, intanto, cerca di
convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo
nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l’incarico. Sul Corriere della
Sera appare questo editoriale: «Abbiamo bisogno d’un governo d’emergenza per
una situazione d’emergenza».
Ma
non ci sono alternative e nessuno pensa di sciogliere le Camere e indire
nuove elezioni. L’incarico di formare il
nuovo governo torna a Moro. Seguono tre settimane di trattative difficili tra
socialisti e democristiani. Sono le tre settimane che poi Nenni definirà quelle
del periodo del “tintinnar di sciabole”.
All’apertura
della crisi di governo, i comunisti denunciano che «gruppi apertamente
reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco
contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare
le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Segue invito alla più
grande vigilanza per le forze democratiche, le masse popolari e le
organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale
raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare
Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti. E Togliatti dice: «In Italia la via per
qualunque in- voluzione reazionaria è sbarrata; chi volesse attentare alla
nostra libertà sappia che non ci sono speranze». La manifestazione, inquadrata
da un servizio d’ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge
tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente.
Quello
denunciato da Togliatti e che Nenni aveva indicato nel corso della crisi di
governo, era il “Piano Solo”: un tentativo di colpo di Stato in Italia ideato da Giovanni De Lorenzo, comandante generale dell'Arma dei Carabinieri dell'epoca. Elaborato proprio nel corso della
crisi politica del primo governo Moro, aveva lo scopo di occupare i
centri di potere dello Stato e di imprigionare quegli oppositori politici
considerati «sovversivi» secondo le valutazioni del Sifar, il disciolto servizio di intelligence delle Forze armate italiane.
Il
18 luglio l’accordo di governo è faticosamente raggiunto. Moro è di nuovo
presidente del Consiglio. È un notevole passo indietro sui programmi del
precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell’«Avanti» e il
socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione
economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo. Il centro- sinistra è
rientrato all’ordine e il progetto di programmazione economica assume le
pallide vesti di un centro di finanziamenti clientelari a diversi livelli.
Del
“Piano Solo” si persero le tracce, ma qualche anno dopo, nel 1967, fu
giornalisticamente “svelato” su «l’Espresso» da Scalfari e Jannuzzi. Un
generale dei carabinieri, de Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che
dovrebbe custodire.
La
natura del centro sinistra nel suo profilo programmatorio-riformatore però
era ormai radicalmente mutata e la sua crisi, conclamata dal risultato
elettorale del 1968, avrebbe aperto una stagione complicata e incerta nella
storia d’Italia avviata verso una fase di democratizzazione irta di difficoltà
contrassegnate principalmente dalla stagione del terrorismo e dal fallimento
della strategia del “compromesso storico” lanciata dal PCI.