CI ASPETTA L’UOMO FORTE?
di
Franco Astengo
La
democrazia senza futuro
Di
seguito la sintesi del Rapporto Censis 2019:
“Gli
italiani non ne possono più della politica. O meglio, non vogliono più vedere i
politici: il 90% dei telespettatori, per intendersi, non li vorrebbe ‘tra i
piedi’ mentre fa zapping. Se a questa stanchezza si uniscono tutte le
incertezze sul fronte economico e sociale che caratterizzano questi tempi, ecco
farsi strada nella mente dei concittadini una soluzione: l’uomo forte, al di
sopra del Parlamento, che rassicuri.”
Fa
paura, pensando alla nostra storia, quel che emerge dall’ultimo rapporto del
Censis sulla situazione sociale del Paese. Lo stato d’animo dominante tra il
65% degli italiani è l’incertezza. La crisi economica, l’ansia per il futuro e
la sfiducia verso il prossimo hanno portato anno dopo anno a un logoramento
sfociato in parte in “stratagemmi individuali” di autodifesa, dall’altra in
“crescenti pulsioni antidemocratiche”, facendo crescere l’attesa “messianica
dell’uomo forte che tutto risolve”. Per quasi la metà degli italiani, il 48%
per la precisione, ci vorrebbe “un uomo forte al potere”.
Si
conferma così un’analisi che pure si era stati tentati di portare avanti
qualche tempo fa e che così può essere sintetizzata.
La
scena politica italiana appare percorsa, ormai da molti anni, da fenomeni
ricorrenti: all’interno di un quadro generale di “sfrangiamento” sociale e di
cessione di sovranità da parte dello Stato verso poteri lobbistici e
corporativi sia nazionali sia sovranazionali.
Nella
società l’egemonia del “consumismo individualistico” ha generato una sorta di
“individualismo competitivo” che adesso si sta trasformando per certi versi in
un pericoloso “individualismo della paura” e di conseguenza in forme massicce
di agire collettivo all’interno del quale agiscono fenomeni di vera e propria
“cattiveria” di massa che arrivano a determinare pulsioni di tipo razzista e
comunque di estremo conservatorismo. Naturalmente la risposta non può venire
dal semplicistico richiamo in piazza che si verifica sulla base di quello che è
stato definito “buonismo populista”.
Emerge,
nella situazione italiana, una “questione morale” che ormai attraversa anche i
settori che tradizionalmente hanno interpretato un ruolo di “supplenza” nella
difficoltà del sistema democratico com’è stato nel caso della Magistratura. Nasce
da questi elementi uno spostamento massiccio della pubblica opinione verso
tensioni di vero e proprio qualunquismo.
Si è trasformato radicalmente il ruolo dei
partiti e accentuata la reciprocità tra il corporativismo sociale e
l’autoreferenzialità di quello che era stato definito come “ceto politico”.
Si
è cercato di andare incontro a questo profondo cambiamento attraverso la
ricerca di forme di governo che stabilissero l’autonomia del “comando politico”
anche e soprattutto rispetto al Parlamento, esaltando la “governabilità” e
riducendo lo spazio per la rappresentanza attraverso leggi elettorali poi
clamorosamente giudicate fuori dal perimetro costituzionale da parte dell’Alta
Corte. Meccanismo che oggi si cerca colpevolmente di reiterare ancora una volta
in forma del tutto ingannevole.
All’interno
di questo quadro si è consolidata quella che è stata definita come “Costituzione
materiale”: “Costituzione materiale” che si è cercato varie volte di suffragare
attraverso proposte di modifica della Costituzione formale; tutte proposte
respinte; in due occasioni anche dal voto popolare seguito all’approvazione da
parte del Parlamento.
All’esito
di quei voti (2006 e 2016) non ha però corrisposto un’adeguata capacità di
riproposizione da parte delle forze politiche della centralità parlamentare
così come espressa negli articoli della Costituzione del ’48.
Di conseguenza è mancata una “visione” della
democrazia e si è fornito ulteriore spazio a questo processo di vera e propria
disgregazione i cui fattori, già ricordati all’inizio di questo intervento, non
sono stati arrestati e stanno provocando l’emergenza di una costante disaffezione
dell’agire nel senso dell’interesse collettivo.
Una
vera propria “disaffezione democratica” dimostrata anche dall’emergere di una
assolutamente eccessiva volatilità elettorale ormai portata al limite dello
sbandamento collettivo e da una crescita del fenomeno della personalizzazione
della politica fino al punto da rendere, come stiamo costatando, l’idea del
cosiddetto “uomo solo al comando” quasi come una sorta di “vox populi”.
In
sostanza: una società sfibrata e disorientata in cerca di un “Lord Protettore”;
così si giustificano anche i repentini mutamenti di scena verificatisi nel
corso degli anni con il passaggio del testimone da Berlusconi a Renzi, da
Grillo a Salvini (il tutto condito da mirabolanti promesse elettorali elargite
al limite del “voto di scambio”). Attenti: alla disgregazione subentra sempre la
reazione. La crisi del governo giallo verde verificatasi nella scorsa estate è
derivata proprio dall’incapacità dei suoi protagonisti di non essere riusciti a
proporre una diarchia efficiente, un nuovo bipolarismo da sistemare al posto
appunto del “rettore pro-tempore”.
Si
è molto discusso in questi mesi di similitudine tra lo stato attuale e il
fascismo: da questo punto di vista si può tentare un parallelo con l’analisi
gramsciana. Nella sua analisi del fascismo Gramsci era partito dall’esempio del
bonapartismo, pur sottolineando le differenze tra tale forma di Stato
d’eccezione e il fascismo. La comparazione con l’oggi, stando dentro al quadro
della riflessione proposta da Gramsci, può partire dalla constatazione delle
difficoltà che, per varie ragioni di carattere interno e internazionale, stanno
attraversando le classi economiche tradizionalmente dominanti e ormai incapaci
di esercitare egemonia.
A
questo punto, pur di conservare il potere socio-economico, è avvenuta
un’operazione trasformista. L’idea è quella di una cessione provvisoria e
parziale di potere verso - appunto - l’ipotesi (non ancora concretizzata) di un
“Lord Protettore” che, nel caso di Renzi, Grillo, Salvini (fatta salva
ovviamente la diversità dettata dai modi d’interpretazione della politica
spettacolo e della “democrazia recitativa”).
Un
“Capo politico” (che brutta questa espressione riesumata dal M5S) proveniente (com’era
accaduto del resto anche per Mussolini) dalla piccola borghesia. In sostanza un
tentativo di saldatura tra grande capitale e piccola borghesia corporativa e/o
assistenzialista nell’intento di salvaguardare una continuità di comando per interessi
storicamente prevalenti nella pancia della conservazione eversiva
caratteristica costante della borghesia italiana: quella borghesia italiana
tenuta buona a suo tempo dall’impasto terribile formato attorno al regime
democristiano (nei tempi però della guerra fredda e della “conventio ad
excludendum”).
Insomma:
la formazione di un nuovo blocco sociale reazionario, come del resto ben
evidenziano i dati del CENSIS e non mi si replichi che ormai queste categorie d’interpretazione
sociale non esistono più: proprio nella modernità che molti evocano queste
categorie “classiche”, si riaffermano e consolidano.
Si
realizzerà questo disegno che potremmo definire di “corporativismo populista” a
cui il PD sembra prontamente essersi adeguato seguendo la propria vocazione
“governativista” ad oltranza, senza concedere mai nulla ad un’idea di
alternativa, anzi rifuggendola di continuo?
Si
determineranno in questo modo nuovi equilibri di potere sufficientemente
stabili fondati su un nuovo equilibrio spostato pesantemente verso destra,
tanto per continuare a usare terminologie soltanto apparentemente desuete?
È
questo l’interrogativo più importante che si pone in questa fase di fronte ai
democratici. Il quadro è molto incerto, sicuramente lo scivolamento progressivo
in una sorta di regime autoritario è in atto: ed è questo il punto di
riflessione fondamentale per chi ritiene necessaria un’opposizione radicale e
intende pur nelle difficoltà del momento pensare ad un’alternativa altrettanto
netta sul piano delle opzioni politiche, della concezione della società, della
stessa prospettiva di sistema e di conformazione dell’impianto politico
complessivo. A sinistra, preso atto della radicalità delle condizioni
complessive anche sul piano internazionale (di cui, in quest’occasione si è
omessa l’analisi) si può stare soltanto in questa dimensione di alternativa.