di
Fulvio Papi
Lettera
al “Movimento delle Sardine”.
In
questo saggio vorrei mettere a confronto le tesi che sono emerse dalla
conferenza sul clima di Madrid, la presa di posizione molto netta che è
derivata in ambito europeo e le analisi sociologiche che emergono dal lungo e
prezioso lavoro di Bauman.
Il
tutto dedicato alla protesta energica, preziosa, emotiva dei giovani che nelle
piazze rivendicano il diritto di vivere in un mondo accogliente e non in una
situazione ambientale che è percepita come generale degrado, il quale
compromette le condizioni di esistenza delle giovani generazioni. Le “sardine”
appunto, che oggi surrogano con efficienza, l’incredibile assenza che per decine
d’anni ha caratterizzato l’insieme dei poteri pubblici su questi temi
fondamentali, noti da mezzo secolo ai filosofi pensanti, affrontati invece al
massimo con provvedimenti amministrativi di bassa qualità, quando proprio non
se ne poteva fare a meno.
Ora,
a questo riguardo abbiamo una progettazione (la forma di pensiero che il
post-modern negava) la quale dovrà varcare il difficilissimo percorso
dell’attuazione, dato che sappiamo bene quali sono le opposizioni, sia a
livello economico, sia a livello politico - che intrattiene con il potere
economico una condizione di dipendenza e di controllo sociale delle popolazioni
- mantenendo, nel limite del possibile, la forma di un sistema democratico.
Entro il quale tuttavia, è possibile operare per una finalità che, con parole
di tradizione religiosa, si può chiamare salvezza. D’altro canto è necessario
notare come la figura culturale dell’uomo nella nostra epoca, sia ben poco
adatta a tutte le trasformazioni che sono necessarie per un vero ordine di
sicurezza, al quale servono “virtù” che sono al tramonto.
*
* *
Per
quanto riguarda i risultati del convegno di Madrid mi avvalgo di ottime fonti
giornalistiche che riassumono gli indirizzi fondamentali; i quali ci danno la
certezza che, se non fossero realizzati, sia a livello della produzione che del
consumo, ci troveremmo in una situazione talmente disastrata, da non poter
essere governata da criteri che oggi ci paiono fondamentali. Cambierebbe quel
mondo che noi, superficialmente, chiamiamo “il nostro mondo”, con una convinzione
del tutto astratta, poiché gli equilibri sociali, economici, culturali e
politici hanno già prodotto il “consumo del mondo”.
Ora
riassumerò le iniziative che sono a mio avviso indispensabili:
Un
ampliamento della spesa pubblica per mettere in sicurezza il patrimonio
idrogeologico con tutte le conseguenze che esso comporta. A questo scopo è
necessario un “fondo” formato da investimenti di natura azionaria.
Una
produzione compatibile con l’ambiente e con una più ampia efficienza energetica.
Una tassazione equa ma indirizzata a scoraggiare la produzione di anidride
carbonica, e, al contrario, incoraggiare l’uso di energie rinnovabili.
L’abolizione
dei contributi per l’uso di combustibili fossili.
Le
Banche centrali devono mettere al centro della loro politica il tema dei
cambiamenti climatici. Sono tutti temi validi che tuttavia richiedono una
realizzazione analitica e concreta, ed è qui che avviene lo scontro con
interessi, poteri e altresì costumi, abitudini, aspirazioni anche di una larga
massa popolare ormai formata, nella sua stessa identità, da privilegi e consumi
incompatibili con i criteri di “salvezza” che sono stati elencati.
Ed
è a questo livello che deve rinascere a pieno il concetto storico di giustizia
sociale con tutto il suo arco di valori, che sono decisivi per porre riparo al
disastro sociale e ricostruire un mondo a misura di una figura d’uomo che la
cultura della modernità aveva idealizzato e diffuso, e non una soggettività che
diviene una merce come forma di scambio di altre merci (laddove finisce
qualsiasi teoria del valore economico).
Sarebbe
anche molto importante sapere con chiarezza quale sviluppo storico (chiamato in
tutti i suoi aspetti di progresso storico, senza operare i più che necessari
“distinguo”) ci ha condotto in questa situazione che esige, in tempi
relativamente brevi, un révirement
necessario, non solo oggettivo ma anche soggettivo; dove la nostra progressiva
dotazione tecnologica, invece che darci una ragione di misura sociale e
personale, di soddisfazione e di sicurezza, ci ha condotto sull’orlo di un
abisso. Il che ha come possibile vigilia, una trasformazione antropologica che
investe larghe zone sociali di quello che con spirito autoreferenziale (e
glorioso) siamo soliti chiamare “civiltà”.
Una
semplice domanda: sarà possibile realizzare le mutazioni necessarie a livello
globale tramite il potere di Stati che oggi sono condizionati se non diretti
dal potere di gigantesche Corporations internazionali, le quali dettano le
condizioni del luogo, la relazione con l’ambiente, la dotazione tecnologica, il
salario operaio? Oppure Stati che proprio dell’espansione economica di tipo
capitalistico fanno lo strumento per la propria espansione politica nel mondo?
Ci
vorrebbero analisi molto più rigorose, ma credo che “in generale” si possa dire
che la globalizzazione economica, oltre gli effetti di cambiamento ben noti, ha
favorito la configurazione sociale del mondo, nel modo che ho descritto e
quindi una terapia estremamente difficile.
È
come se il nostro desiderio di esistere e di trasmettere esistenza fosse
imprigionato in un gioco insuperabile. Come se la forma tecnica del progettare
fosse indifferente nei suoi fini al pensiero, anzi si presentasse come il solo
pensiero che abbia un riscontro reale, cioè operativo, mentre ogni modalità progettante
del pensiero secondo altre finalità antropiche, fossero favole che si
raccontano uomini fuori dal tempo e fuori ruolo.
Ora cercherò, tramite la lettura dell’opera del
celeberrimo sociologo Bauman “L’etica in un mondo di consumatori”
(2008), di tentare di dare
qualche ragionevole risposta ai temi della Conferenza di Madrid.
Quest’opera
ha un vantaggio, dal punto di vista adottato, di riassumere temi essenziali di
Bauman e di aprire prospettive di ordine generale che ci riguardano
direttamente. Dal punto di vista metodologico dovrò solo aggiungere che
l’oggettività presa in considerazione non è altro che l’epilogo contingente di
situazioni che si sono evolute nel passato e che non rispondevano ad un ordine
di necessità. Come, quasi al contrario, appare la qualità della nostra
situazione, così quando adoperassi criteri controfattuali, essi appartengono
alla strategia della conoscenza e non al gioco letterario delle utopie. Quasi
come premessa alla lettura credo di dover dire che i dieci anni trascorsi dalla
pubblicazione dell’opera, abbiano mutato alcuni orizzonti di cui bisognerà
tenere conto.
La
tesi secondo cui non esistono popolazioni di alcun paese che non siano “una somma
di diaspore”, il che, per stare nei nostri dintorni, concorda perfettamente con
la tesi di Ugo Fabietti secondo cui l’Identità etnica appartiene
sostanzialmente a una strategia politica. Le identità sono fluide, e questa
considerazione non solo mostra la ridicola aggressività pregiudiziale nei
confronti del “differente”, ma anche la presunzione di poterne regolare l’esistenza
tramite norme che appartengono alla nostra relatività. Citando Claude Dubar,
Bauman conclude: “L’identità non è altro che al tempo stesso stabile e
provvisoria, individuale e collettiva, soggettiva ed oggettiva […]. Questo
significa che l’idea di una comunità integrante “si riferisce all’applicazione di
un codice di comportamento […]”. Il che è già un criterio educativo per
stabilire che cosa si dice quando si esalta un “noi”. Questo non significa -
aggiungo io - che non esistano forme di appartenenza che possono essere molto
diverse, sino a raggiungere forme criminali come il nazismo. Ciò che però è
certo, è che oggi è morta ogni dialettica totalizzante che opponga un mondo
ideale alla realtà di quello in cui ci troviamo.
La
dialettica storico-umanistica aveva sostituito, nell’immanenza, “l’altra vita”,
“il paradiso”. Non ci resta che la morale di tradizione cristiana, del
“rispettare la reciproca unicità”. Questo criterio di moralità e di saggezza è
l’obiettivo di una vita che (alla Husserl e, meglio alla Lévinas) ha compreso
come, se si abbandonano i pregiudizi relativi alla nostra identità, scopriamo che
la soggettività deriva dall’alterità e dal suo “essere per l’Altro”. La formula
filosofica va tradotta così: la nostra soggettività ha senso morale solo in
quanto è per gli altri. Criterio che ulteriormente tradotto dice: una
generazione che tramite una qualsiasi ideologia consumi il mondo per sé, senza
futuro per gli altri, è priva di responsabilità, segnata da un vergognoso
edonismo del consumo, nel quale di esercita l’assoluta libertà individuale
priva di qualsiasi senso di colpa, mentre vive solo il rapporto tra possibile e
impossibile: una situazione che è realizzabile solo in quanto questo
comportamento è in realtà un comando sociale.
Bauman
cita James Livingston per definire in generale questa società di consumatori:
“la forma merce penetra e trasforma ambiti di vita sociale fin qui esenti dalla
sua logica”. Credo sarebbe corretto rifarsi alla concezione di Marx sulla
circolazione veloce del capitale come criterio fondamentale per l’accrescimento
del profitto. Che non è un “motore ascoso” ma il corrispettivo della formazione
sociale del consumatore, sempre aperto a merci che rendano più valida quella formazione
personale, la quale deriva proprio dalla relazione con le merci. Così come
qualsiasi forma di imprenditorialità preferisce il “libero lavoratore” (Marx) a
chi abbia impegni affettivi o sociali.
Questi
temi di Bauman, a mio parere vanno proiettati per una maggiore conoscenza della
loro storicità: il che non vuol dire della loro necessità, ma dell’insieme di
conseguenze materiali e ideali che ne hanno consentito lo sviluppo. Del resto
chiunque sa che il capitale finanziario attuale è tutt’altra cosa dalle note
marxiane del 22° capitolo del III volume de “Il Capitale”.
Marx
aveva ben chiara l’autonomia dell’economico, e oggi sulla trasformazione del
capitalismo globalizzato possiamo fare ipotesi differenti, e tuttavia il fatto
che oggi il dominio di questa forma di riproduzione sociale abbia condotto alla
soglia della trasformazione del pianeta, è una conoscenza (possibile 50 anni
fa), ora diffusa e più che comprensibile ragione di ansia e terrore sociale per
le generazioni viventi. Tanto più che questa conoscenza si riferisce all’”armento”
dell’Occidente, ed ha come sfondo la valorizzazione di un’epoca della libertà
nella comunità, del consumo nel bisogno, della responsabilità, della
possibilità politica di intervenire sul processo dell’economia di mercato
potendo usare strumenti di differente natura.
Non
era il “mondo della sicurezza” di Zweig, ma di certo quello “solido” di Bauman.
Posso
aggiungere che la visione di una realtà sociale liquida di Bauman, oggi mostra
qualche differenza sia nell’Occidente che nel resto del mondo globalizzato, la
quale richiede nuove indagini e nuove sintesi.
La
figura la cui psicologia è prevalentemente determinata dalla forma sociale del
consumatore, elabora la propria identità secondo un sistema di diritti che
investono radicalmente l’etica sociale, la morale individuale, la devozione
religiosa, la dignità nazionale, il valore ideale della cultura. Si tratta di
un personaggio che può anche assumere l’abito del valore che ho richiamato, ma
essi sono regolati sempre dall’assioma della psicologia dominante, quando,
facilmente, il suo atteggiamento idolatra nei beni del suo consumo, non sia
tanto abile da sortire la simulazione e la finzione.
A
questo modo di costituisce una quantità di individui singoli che sono una falsa
comunità, solo in quanto forza collettiva la quale esige il riconoscimento come
pubblica legislazione di quelli che suppone siano i suoi diritti, i quali non
possono avere altro fondamento, se non quello che un soggetto “corrotto” retroflette
su se stesso. È una prospettiva che insieme alla altre di cui ora daremo cenno,
nasconde il passato come una eredità di cui è necessario liberarsi per rendere
insuperabile la forma sociale del presente, che annulla qualsiasi
programmazione per il futuro.
Nel
libro di Bauman troviamo la configurazione di una oggettività che ristruttura
del tutto i valori che si sono sviluppati nel nostro mondo dalla Rivoluzione
Francese in poi. Portiamo alla luce quelli che ci paiono più rilevanti. La fine
della politica come rapporto tra reale e l’ideale. Si riduce all’amministrazione
dei diritti che la collettività degli uomini-consumatori ritiene propri. La
parità dell’atteggiamento nei confronti del consumo fa scomparire le
disuguaglianze economiche. La rete non è una struttura etica, è piuttosto
dominata dall’improvvisazione: la rete nasce dalla rete. A livello personale
non c’è più il valore della promessa. La felicità si afferma solo come
autocompiacimento. Anche senza procedere in questa fenomenologia dell’esistenza
che arriva ad Adorno ed Horkheimer, possiamo dire che siamo caduti in un luogo
dove il capire, al di là di una microprassi, non ha alcun valore di libertà e
la ragione tramonta come un costume la cui moda è terminata, che abbiamo
ricevuto: “Subordinare la creatività culturale ai parametri e ai criteri del
mercato dei consumi significa chiedere alle creazioni culturali di rispettare
il prerequisito di tutti gli aspiranti prodotti di consumo, e cioè legittimarsi
in termini di valore di mercato (il valore di mercato corrente, naturalmente) o
perire” (Bauman). Forse non così radicali, ma queste parole ricordano
direttamente la posizione rigorosamente critica che assunse Adorno al tempo del
suo lungo esilio a proposito della cultura “popolare” americana. Questo per
dire che la circostanza descritta da Bauman ha già provocato una sua selezione
di scopi e indirizzi, di tecniche.
Ed
ora esaminiamo brevemente la situazione internazionale in cui cade questo
tramonto dell’Occidente che, nella competizione con le altre culture, ha
trascinato la vita sul pianeta terra in un servizio per un dominio tragico.
Bauman
cita Kapùscinskj e la sua analisi del declino dell’Europa dopo circa 5 secoli
di dominio mondiale: “L’Europa non è più il sito prioritario. La “presenza
europea” è sempre meno visibile, sia fisicamente che spiritualmente.” Denis de
Rougemont: “L’Europa ha scoperto tutte le terre del pianeta, ma nessuno ha mai
scoperto l’Europa”.
Le
famose “esplorazioni” comportano il dominio, lo sfruttamento delle risorse, il
trasferimento dei sistemi giuridici. Dal punto di vista di un’Europa in decadenza
abbiamo considerato gli Stati Uniti come un impero in espansione mondiale. Ma è
una prospettiva esagerata: il debito pubblico americano (cioè l’acquisto di
denaro) è elevatissimo per sostenere il livello della produzione “dei consumi”,
la spesa per l’armamento e quindi per la potenza militare, di gran lunga la più
potente, ha un suo valore occupazionale interno, ma l’effetto imperiale è di
molto calato. Anzi, l’esercito americano può procurare più danni di un
qualsiasi attacco terroristico compiuto da un armamento il cui costo è
irrisorio. Questa circostanza trasforma la vita delle città in luoghi di
conflitto con quasi invisibili “eserciti”.
Ci
sono dunque le condizioni economiche e politiche perché gli USA debbano
abbandonare il sogno di dominio del mondo: “anzi vi sono consistenti motivi per
presumere che questa superpotenza potrebbe diventare una delle cause principali
della mancata prevenzione del disastro”. Bauman ritiene che l’Europa,
nonostante il suo declino, possa offrire al mondo la via culturale che conduce
alla “allgemeine vereinigung der menschheit” di tradizione kantiana. Se
l’Europa non si attrezzerà per realizzare questo compito, sarà la sua fine
storica. Ma è una prospettiva reale? Sarebbe necessario, alla Habermas,
rendersi conto che le nazioni – Stati attuali non hanno alcuna fondazione
propria, ma derivano da complessi rivolgimenti storici, e quindi l’Europa
attuale definisce se stessa proprio in quanto assume la sua cultura come
fattore possibile di coesione mondiale e di salvezza collettiva. Tuttavia la
scena politica dell’Europa oggi è dominata in misura non indifferente misura da
parte di popolazioni che, nella loro autoreferenzialità, possono essere
individuate come volgari plebi idolatre, le quali non hanno niente a che vedere
con la nozione etica di popolo. È il timore di perdere anche una sola briciola
dei privilegi di cui ora dispongono, ad alimentare queste paure difensive che
chiedono per sé, soprattutto la sicurezza. Quindi la proliferazione di muri e
di separazioni che possono dare un’identità pericolosa proprio per il loro
stesso equilibrio. Poiché nessun muro
protegge dall’invasione globalizzata dell’economia, dai costi sociali di
produzione, dalla concorrenza sul mercato mondiale. Si tratta di popolazioni la
cui struttura statuale è poi quasi - non sempre - paralizzata (se non per
modeste operazioni) da un debito pubblico che mette in difficoltà qualsiasi
vasta decisione di trasformazione necessaria dello spazio antropico, in un
mondo che, così com’è, diventerà vivibile in condizioni che, dal punto di vista
ecologico nella nostra storia (non in quella dell’Universo) non hanno
precedenti. È ovvio riconoscere che una china di questa natura necessariamente
renderà obbligatorio un impoverimento senza regole, il quale aumenterà il
disagio sociale e le sue conseguenze. Questi temi li ho aggiunti io stesso, ma
sono coerenti con le analisi di Bauman. Egli infatti riassume la situazione in
una semplice dicotomia: “Una è la logica dell’arroccamento locale, l’altra è la
logica della responsabilità e delle aspirazioni globali”.
Teniamo
presente che la scelta dell’arroccamento non è nient’altro che la ripetizione distruttiva
della tendenza che, nell’epoca moderna, ha condotto alla formazione degli
Stati.
Niente
è “essenziale”, tutto è storico: tutto quindi è soggetto al mutamento che può
essere regolato da tecniche razionali o che cercano almeno di limitare i danni
del mutamento naturale ed economico. O esso viene abbandonato alla gestione
statale, residuo storico di altre epoche, o quindi vi saranno conflitti,
comunque giocati, di natura locale tra Stati territoriali. Uscire da questa
situazione, aggrava oggi dalla forma tradizionale della crescita economica
della Cina e della sua politica di espansione finanziaria, senza parlare
dell’India, richiede una politica globale che solo può tener testa al dominio
mondiale della potenza economica. È la tesi di Bauman-Habermas, non priva di
una tonalità utopistica che, quando fu formulata, non teneva conto di una cauta
espansione capitalistica sull’“economia verde”, intorno alla quale non abbiamo
dati sufficienti per formulare un giudizio. Quanto all’aura utopica sappiamo da
una sociologia di 50 anni fa, che esiste una utopia letteraria vana: ed esiste,
al contrario, un’utopia che è l’orizzonte ideale di obiettivi conseguibili i
quali danno il senso della propria azione, e quindi anche il senso di se
stessi.
Questa
seconda e utile utopia crea le proposte di indirizzo che sono note a livello
europeo, così riassumibili:
La
tassa sul carbone nella prospettiva di una “economia verde”. Lo stesso
provvedimento per chi raggiunge vantaggiosi costi di produzione mediante salari
bassi attraverso i quali deriva questa posizione. La Web Tax contro l’evasione
fiscale, che porta l’utile da qualsiasi attività produttiva nei cosiddetti “paradisi
fiscali” - prospettiva che Trump, sempre in linea contro qualsiasi forma di giustizia
sociale, ha già cercato di contrastare con il sistema dei dazi.
Ora,
ciascuna di queste prospettive, pure nel quadro che ho fatto con Bauman, è politicamente
perseguibile con mezzi democratici e del tutto pacifici, quali, per
esempio, una ristrutturazione dei consumi, cosa assolutamente possibile, se,
eticamente, trasformiamo il “consumatore” il quale appartiene ad un mercato
capitalistico finalizzato da una qualsiasi forma di profitto, con un mercato
“deciso” dai cittadini.
Una
modificazione di questo genere comporta uno stile di vita molto più sobrio,
privo di sovrabbondanza e di sprechi. Uno stile che valorizza altre forme di
identità e di finalità.
Come
si vide la prospettiva di “salvezza” (per usare questa forma metaforica molto
forte) dipende anche del nostro modo di essere nel mondo. Siamo in uno spazio -
di cui non sappiamo la consistenza - sempre difficile, poiché il tempo gioca
quasi sempre a favore dei poteri, che nella teoria può identificare ancora
l’etica con la politica.