Cattaneo. Corpi scheletri e delitti
di Gabriele Scaramuzza
Non ho alcuna competenza circa le realtà, i problemi,
di cui parla Cristina Cattaneo (professore ordinario di Medicina Legale nell’Università
degli Studi di Milano) nel suo ultimo libro che, come lei stessa afferma, ripropone
“una selezione di racconti che narrano come siamo nati e le nostre prime
esperienze nell’ambito delle scienze forensi” (p. 7): le esperienze cioè del
Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università
degli Studi di Milano), nel venticinquesimo anniversario della sua fondazione. I
miei studi hanno seguito tutt’altri percorsi. Uno degli esiti della lettura di Corpi
scheletri e delitti è stato anzi quello di rinnovare in me interrogativi
che mi inseguono fin dall’età in cui ho deciso di iscrivermi alla Facoltà di
Filosofia o, meglio, in cui qualcosa in me si è deciso a cedere all’attrazione
che allora (e non immotivatamente) esercitava su di me questa disciplina. E
questo prima che la concretezza della gestione universitaria di essa generasse
esitazioni, talvolta persino rimorsi, rammarichi comunque che tuttora non si
sono estinti. La realtà che premeva intorno richiedeva altro, mi sono reso
conto; altro almeno rispetto a ciò a cui io ho dedicato tanto tempo. Ma questo
certo riguarda la mia biografia, il mio vissuto postliceale, un modo di essere di
essa in un certo ambiente, e di taluni docenti incontrati. Non ha certo nulla a
che vedere con la filosofia tout-court, verso cui ho ovviamente conservato il
più grande affetto. Ci sono sempre state spinte in me, forti, a impegni che potessero
incidere nelle cose. Una ricerca fine a sé - che non recasse almeno sullo
sfondo una propria ricaduta etico-sociale, psicologica, morale, esistenziale -,
quella ricerca che si connota come mera teoresi, “pura teoreticità”, mi è
sempre parsa equivoca, la avverto tuttora come estranea, anche se talvolta ne
posso capire le ragioni. Ho letto con intima partecipazione Corpi scheletri
e delitti, con una tensione assimilabile a quella con cui nei miei anni
adolescenziali leggevo Delitto e castigo. Questo che scrivo vorrei che
fosse un invito alla lettura, in particolare da parte di chi come me è digiuno
dell’argomento o, meglio, lo conosce solo sommariamente, attraverso annunci
televisivi o articoli di giornali. Senza rendersi conto dello spessore di
realtà e di risvolti, di problemi, che ne fanno una realtà complessa,
avvicinabile solo da punti di vista diversi, e con competenze varie e
intrecciate - da mediche ad archeologiche, da poliziesche a legali, da
entomologiche a botaniche, da ginecologiche…; ad es. scopro solo ora che
esistono, e collaborano alle ricerche, “cani da cadavere”; sapevo solo dei
“cani da catastrofe”. Il mio intento, nella migliore delle ipotesi, è di toccare
tratti che possano risvegliare una coscienza, oltre che stimolare un interesse.
E in questo non posso che procedere rapsodicamente, frammentariamente. Non è
che una segnalazione la mia, che può ricevere un senso pieno solo nella diretta
lettura del testo. Il libro è denso di
notazioni e di problematiche, a tutte si vorrebbe dar risalto; cosa impossibile
in questa sede. Non ho mai conosciuto Cristina Cattaneo di persona, ma la
scorsa primavera ho seguito con partecipazione il suo intervento
all’Ambrosianeum, in un incontro che mi è stato segnalato da Giorgio
Lambertenghi. Di lì mi è nata la spinta a leggere Naufraghi senza volto.
Dare un nome alle vittime del Mediterraneo; e di acquistare ora appunto Corpi
scheletri e delitti. Le storie del Labanof. Da cui leggiamo a p. 20: “La
Medicina Legale è medicina della violenza”; e a p. 14: “Fare il medico legale –
consiste nello scrutare cadaveri, scheletri o corpi viventi, vittime di
violenze di qualunque genere, per raccogliere gli elementi utili a ricostruire
le dinamiche di una morte, di uno stupro, di un’aggressione, o semplicemente
un’identità. È una specie di archeologia del crimine”. E poco sopra: “Piuttosto
rimango incantata dal groviglio meraviglioso e terribile allo stesso tempo dei
rapporti tra le persone che il mio lavoro rivela: impulso ad amare, a uccidere,
a ignorare”. E a p. 16 aggiunge: nella sua professione “si impara a prendere
confidenza con alcuni aspetti della vita dell’umanità che molti non conoscono.
In mezzo a morte e violenza emergono talvolta gli aspetti più belli della
natura umana”. C’è sempre un lato umano (certamente riflesso delle doti umane
dell’autrice) che accompagna le perizie tecniche; nulla è mai asettico, “soltanto
scientifico”. Sempre sono coinvolte responsabilità pesanti ad altro livello:
sensi di forte coinvolgimento e per converso di isolamento, di scarsa
solidarietà intorno, esitazioni fatali, timori di inadeguatezza malgrado la
massima preparazione, il terrore di sbagliare – e con ciò magari determinare
senza volerlo il destino di una vita. Certo, le situazioni narrate sono spesso
raccapriccianti, angosciose; non pochi ne saranno respinti. Ma non si può che
ammirare la tenuta etica, oltre che la perizia tecnica, il coraggio di pochi,
di coloro che si dedicano a questa missione - questo termine qui è meno che mai
fuori luogo. Ci si chiede non solo, ed è ovvio, quale tipo di preparazione
pratica, scientifica e tecnica li sorregga, ma soprattutto quale mondo di “valori
ultimi”: morali, sociali, in senso lato religiosi, renda possibile la loro
dedizione a un lavoro così inquietante, rischioso, in grado di reggere a
situazioni cui molti di noi sfuggirebbero. Svolgono qui un grande ruolo le
“competenze” e le sensibilità più disparate, orizzonti non solo medici e
legali, ma anche etici ed esistenziali nel senso più ampio del termine. Antecedenti
non sono solo sopralluoghi, la prospettiva è anche l’insegnamento, l’impegno
che esso richiede; è pur sempre l’Università il luogo in cui risiede e svolge
le proprie attività il Labanof, in cui convergono i materiali su cui lavora. Personalmente
la cosa che più mi turba sono gli odori, sicuramente acri, nauseabondi,
insopportabili nella mia ottica, cui fatalmente sono esposti coloro che a
titolo diverso operano nelle circostanze descritte da Cristina Cattaneo. Circostanze
per nulla accattivanti, da cui tuttavia è attratto chi ha il gusto dell’orrido,
e del sublime per chi ha scritto e sa leggere le pagine qui in gioco. Non per
nulla il tema “estetico” che più mi ha attratto, e cui mi sono dedicato non
poco, è il problema del brutto o, meglio, della costellazione di termini che, a
partire da Karl Rosenkranz, sotto questo “termine ombrello” si è raccolta. La
mia convinzione resta che solo scendendo negli abissi dell’orrido e del
disgustoso, e scrivendone, rappresentandoli, si può tornar poi a “riveder le
stelle”, con infinito, angosciante, stupore. E qui giocano, perché no, tonalità
che rasentano il sublime, e non esiterei a chiamare “metafisiche”. L’argomento
dunque, in primis, solo sinteticamente adombrato nel titolo: l’identificazione
dei cadaveri, deceduti nelle più varie, e in genere terribili, circostanze; ma
talvolta anche dei vivi. E sempre animati dalla tensione etica di riscattarne
una dignità. Già complesso più di quanto non si pensi è il problema di
riconoscere una persona, di stabilirne un’identità, un’età, di datare i macabri
reperti, di liberarli da scorie estranee, di stabilire i tempi e le modalità di
un decesso. Non mancano, innanzitutto, rilevanti riflessioni che non saprei
definire che filosofiche: “pensai a quanto potessero essere ‘normali’ la
ferocia e la cattiveria o, meglio, a quanta crudeltà potessero esprimere
soggetti assolutamente ‘ordinari’ (p. 107). Poco più sopra: “Guardai di nuovo
questo ragazzino dall’aria mite e quasi dolce: incarnava l’ennesimo caso di
complessità e di contraddizione dell’umano”. Hannah Arendt ha parlato di
“banalità del male”; ma qualcosa mi ricorda da vicino Dostoevskij. In diverso
contesto leggiamo: “E già allora, anche se i gesti erano quasi rituali - misurazioni, confronti, analisi - le nostre menti pensavano a quanto fosse
tutto assurdo” (p. 134); e l’assurdo è un sentimento metafisico della vita, ha
a che fare con le “cose ultime”. Tonalità analoghe riecheggiano in rapidi cenni
all’atteggiamento (condivisibile dal mio punto di vista) di Cristina Cattaneo
nei confronti della religiosità: “Il mio atteggiamento nei confronti della fede
e della Chiesa è sempre stato poco chiaro, anche a me stessa. Ho spesso
osservato con occhio critico il fanatismo cattolico e l’ipocrisia di molti
‘pii’. Ma il diritto alla fede e alla religione è altra cosa. Trovo infatti
altrettanto ottuse le critiche mosse da intellettuali ai dogmi e alle credenze
della religione, qualunque essa sia” (p. 227). Un’atmosfera lato sensu
religiosa si ritrova anche a mio parere nella frase con cui si conclude il
libro: ci sono “cose che la scienza non potrà mai svelarci, o potrà rivelare
solo in parte. Ma se il mistero e il limite risuonano ingombranti nelle scienze
forensi, non lo sono per niente nella vita, quella vera, anzi, sono l’impulso
che dà la spinta a studiare, a conoscere e, perché no, anche a vivere” (p.
244). Mi hanno preso le righe: “La calma della morte è turbata dalla violenza del
gesto altrui: la mente è pervasa da sentimenti come l’indignazione, la rabbia,
il disprezzo, l’odio, che distraggono dal mare di tenerezza che si porta dietro
ogni scomparsa” (p. 122). Poco più avanti una notazione quanto mai attuale:
“Oggi c’è la tendenza a banalizzare e standardizzare le sensazioni che ruotano
intorno a un omicidio volontario. Il delitto, ormai, è inflazionato. E viene
quasi da pensare con timore che lo sia anche il valore della vita” (p. 123).
Vasilij Grossman e Imre Kertész denunciano che è lo stupore di fronte alla
morte, oltre che alla vita, a essersi cancellato nelle guerre, nella Shoah…; a
essersi affermata è “l’insostenibile leggerezza della morte”, che fa seguito
alla tragica svalorizzazione della vita. Circa il suicidio: “Ho compreso che i
motivi per cui ci si uccide sono i più svariati: per rabbia, per disperazione,
per vendetta, o semplicemente per il male di vivere” (p. 116) Perché si è
suicidata Antonia Pozzi? cosa ne pensa Cattaneo se conosce il caso? Poco più
avanti osserva: “Ci sono persone che si uccidono semplicemente lasciandosi
andare” (p. 117); e questo credo sia il caso di Giulio Preti, nell’ambito di
cui mi sono occupato: di quella che Fulvio Papi per primo ha chiamato “Scuola
di Milano”. Tra le vicende che più colpiscono ci sono quelle di ragazze quali
Viola, Stella, e chissà quante altre ragazze ingannate, attratte in Italia da false
promesse e poi destinate alla prostituzione; giustamente ribellatesi poi, e per
questo assassinate. Tra gli eventi noti, dopo quelli dei migranti affrontati in
Naufraghi senza volto, il disastro di Linate; ma anche diffusi incidenti
stradali, casi di lapidazioni che sembrano appartenere a un mondo del tutto superato,
e che invece tuttora sono presenti in regioni dominate dal fanatismo. Svolge
anche un ruolo tutt’altro che trascurabile l’immaginazione, che copre realtà
cui non si è assistito, e che tuttavia sono purtroppo intuibili (e di cui
talvolta restano tracce concrete): i pochi minuti in cui si consuma “il dramma
di un centinaio i persone - con gli ultimi pensieri, gli ultimi rammarichi, gli
ultimi ricordi, le ultime preghiere” (p. 77). Ma questo riguarda gli attimi che
precedono un assassinio, una disgrazia, le attese stravolte… E sempre colpisce
l’atteggiamento dei parenti, spesso annebbiato da banali luoghi comuni, e che
talvolta rivela per contro solidarietà, risvolti umani inediti. Non si può
mancare infine di accennare a morti che toccano meno da vicino, e che tuttavia
risvegliano talvolta emozioni analoghe a quelle di casi a noi contemporanei: il
Labanof “ha sempre conservato una sezione che si occupa dello studio di
scheletri antichi” (p. 194), da medievali a secenteschi, a romani, a
ottocenteschi, a novecenteschi. E qui mi hanno subito più che incuriosito, in
quanto vicini alla mia abitazione, la fossa comune di probabili vittime della
peste ritrovata in viale Sabotino, i resti conservati sotto la cappella
dell’Università, la richiesta del parroco di San Nazaro di esaminare lo
scheletro del santo omonimo. L’abilità tecnico-artistica nella “ricostruzione
facciale”, nel creare calchi quale quello del corpo di San Nazaro, o di
Sant’Evasio, del viso di Galeazzo Maria Sforza, ad esempio. Certo
approssimativi, storicamente inverificabili, ma impressionanti, tuttora a modo
loro “vivi”. Ma dagli scheletri si può risalire a tante cose, alla storia di
una vita, di un periodo storico, oltre che alle modalità di tante morti. Cose
che tuttavia ancora commuovono, e gettano squarci di luce su di un passato
ancora vivo malgrado i secoli che ci separano da esso. Il passato della nostra
città, ma non solo; anche della storia nazionale di caduti nella Prima guerra
mondiale, alle musiche che ancora tramite essi risuonano: cori un tempo notissimi
ma ora scomparse dalla memoria, strumenti musicali, ritmi, canzoni. Militi
ignoti, per lo più morti atrocemente, senza sapere perché, mille miglia lontani
dalla retorica criminale con cui li si conduceva al macello. Non sono da passar
sotto silenzio poche righe, inattese nel contesto di Corpi scheletri e
delitti, tali comunque da confermare nella mia ottica la dignità umana
dell’autrice. Parole da me condivise alla radice, commoventi, dense di risvolti
esistenziali indelebili nella mia vita, adeguate a contrastare l’ingiusto
disprezzo da cui viene per solito investita la musica per banda, in particolare
quella musica per banda: “E, malgrado le stecche, i suoni della banda
del paese sono tra i ricordi più belli che ho” (p. 200). E infine perché non
dare rilievo al ricordo di Pippo, onnipresente, misteriosamente presente, nella
mia infanzia di sfollato; finalmente Cristina Cattaneo mi chiarisce: “un caccia
da ricognizione inglese che, di notte, mitragliava ogni cosa che luccicasse” - da
noi si dovevano coprire ermeticamente le finestre, perché Pippo non notasse
spiragli di luce, e mitragliasse.
Cristina
Cattaneo,
Corpi
scheletri e delitti. Le storie del Labanof
Milano, Cortina, 2019
Pagg. 247, € 16.