di
Fulvio Papi
Nell’agosto
del 1944 era ancora un periodo in cui come in altri, alle ore 19.30 andavo alla
stazione di Stresa ad aspettare mio padre che arrivava con il treno da Milano,
dove cercava, coraggiosamente, di mandare avanti il suo lavoro per sopravvivere
in un luogo - la città - desolato, affamato, spaventato, occupato dalle
peggiori bande della Repubblica di Salò e dai tedeschi che improvvisavano
rastrellamenti per mandare gente a lavorare in Germania. Ma l’orario spesso non
era rispettato, e dopo le 20 iniziava il coprifuoco, così per tornare a casa bisognava
patteggiare con la brigata nera le cui pattuglie di sorveglianza, per eccesso
di zelo o di timore, aprivano il fuoco appena si profilava un’ombra a un angolo
di strada.
Quella
sera per tornare a casa invece non ci furono particolari difficoltà. Mio padre
era ancora più silenzioso del solito, mi chiese in modo distratto com’era
andata la pesca, alla quale occupavo le mie mattine dopo la sua partenza per
Milano. Le poche pagine del giornale restarono piegate in quattro nella tasca
della giacca. A casa di solito commentava qualche titolo con mia mamma. Fui
invece io che presi il foglio e lessi la notizia che in piazzale Loreto erano
stati fucilati 15 prigionieri antifascisti, come rappresaglia per l’attacco a
un autocarro tedesco della sussistenza. Scorsi velocemente i nomi dei fucilati
e trovai quello di Salvatore Principato, maestro della mia scuola elementare
“Leonardo da Vinci”. Parlai: “Ma vi siete accorti hanno ammazzato il maestro
Principato”. Mio padre: “Lo so purtroppo, ma volevo che tu non vedessi il
giornale.”. Io stesso: “Ma perché?”. Mio padre rispose: “Era un socialista.”
A
me i nomi allora non dicevano molto, ma che avessero ucciso il maestro
Principato mi scatenò un momento di furore, che poi la memoria dei tempi delle
elementari trasformò in un dolore silenzioso, in un’opaca solitudine, in un
cieco desiderio di replica. Tutti sentimenti penosi che non trovavano alcuna
possibilità di quietare in qualsiasi senso l’emozione senza scampo: “Hanno
ucciso il maestro Principato.” Era la sola verità che dominava l’adolescente
che cominciava a ricordare un poco precipitosamente. Allora il regolamento
scolastico stabiliva che sino alla terza elementare fossero le maestre a
provvedere all’educazione dei bambini. Ma, dopo la terza, i piccoli candidati
guerrieri (come li immaginava il potere fascista) dovevano passare alle cure di
figure maschili. E qui le mamme facevano a gara per ottenere che il loro
bambino entrasse a far parte della classe affidata al maestro Principato.
La
sua fama come educatore paterno e competente andava ben oltre il perimetro
della scuola. Ricordo che Principato sorridendo diceva che a lui sarebbero
arrivati una trentina di ragazzi, come volevano le norme della scuola. Gli
altri ed altrui maestri anch’essi - diceva - capaci e buoni custodi dei bambini
che venivano loro affidati. Ai primi di ottobre la sorte di ognuno di noi era
decisa. A me capitò un maestro competente, fascista solo per la camicia nera il
sabato, privo però del lessico dominante nella scuola del regime. Ma continuai
ad invidiare gli scolari del maestro Principato che, molto più di altri,
diventava, col tempo, la figura e il nome che custodivano il ricordo della mia
(amata, lo devo dire) “Leonardo da Vinci”.
Ora
il tramonto sul lago luminoso era molto più difficile: sentivo mia mamma nel
suo inevitabile triestino che diceva: “Cussì una brava persona”. Mio padre
taceva e sfogliava, con una attenzione non priva di una sua menzogna, le sue
carte del lavoro. Io ero precipitato nell’abisso del silenzio privo di futuro, che
poi, proprio ricordando il maestro, pure ci dovrà essere.