LA LUCE DELL'AMBRA
di
Gabriele Scaramuzza
Sono passati decenni da che ho
conosciuto Liliana Treves Alcalay, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni
Ottanta a Morgex, in Val d’Aosta. Sono anni davvero lontani, che conservavano
gli echi più vivi degli anni Sessanta, e in cui interessi sociali e politici
premevano più di altri. Lo stesso senso di appartenenza all’ebraismo si era
attenuato, lasciando spazio alla presa di coscienza di una situazione più
generale. La stessa presa di coscienza che anche in non-ebrei aveva maturato
insofferenze verso ogni forma di repressione e di autoritarismo - chi non ha
letto con passione, col senso di una rivelazione, la Lettera al padre di
Kafka? Non riguardano solo un gruppo particolare le “sensazioni liberatorie”
innescate dai “canti di lotta e di protesta” diffusi in quel periodo, che aiutarono
Liliana Treves ad affrancarsi dalla sua “rabbia repressa”, dai “timori
annidati” in lei “sin dall’infanzia, riacquistando man mano fiducia e sicurezza
nella vita”. Sensazioni, aggiunge, “mai provate prima che, per un lungo
periodo, mi allontanarono senza rimpianto dalle tradizioni religiose - pur da
sempre così radicate in me” (Un pollo di nome Kashèr. Ricordi del dopoguerra,
premessa di Daniel Vogelmann, Firenze, Giuntina, 2009, p. 178).
Da allora la sua immagine è rimasta legata per me al canto
(Aharon Appelfeld ha dato il giusto risalto al legame tra musica, scrittura e
lettura): ancora conservo audiocassette e testi delle canzoni cantate da lei. A
quella musica erano delegate le speranze, le denunce, le attese più struggenti;
senza che per questo perdesse di smalto per me la musica “classica”, e insieme
il grande teatro musicale che amavo e amo, in cui vedo operanti irrinunciabili
tensioni utopiche (non utopistiche, certo). Le nostre figure di riferimento
erano soprattutto (ma non solo ovviamente) Bob Dylan e Joan Baez; a
quest’ultima in particolare associavo (mutatis mutandis, certo) Liliana Treves:
per la vasta risonanza delle parole, per la dolcezza espressiva della voce, per
certe atmosfere cui ritorno con nostalgia. E, e non da ultimo, per le
testimonianze dell’ebraismo sefardita che contengono, e che è doveroso far
conoscere - le toccanti musiche ashkenazite sono più diffuse, se non vado
errato. Al mondo sefardita, cui appartiene, Liliana Treves ha dedicato costante
attenzione, da sempre, fino a La luce dell’ambra (Firenze, Giuntina,
2019).
Tardi ho incontrato la scrittura di Liliana Treves, la sua
capacità di esprimersi efficacemente anche nei modi della prosa. Mi hanno
innanzitutto attratto, per personale inclinazione verso i racconti
autobiografici (e tanto più ebraici), Con occhi di bambina (1941-1945) -
Prefazione di Liliana Picciotto Fargion, Firenze, Giuntina, 1994; e Un
pollo di nome Kashèr, appunto. Ma non sono autobiografici in senso esclusivo:
riflettono un’epoca, e un ambiente, non così lontani.
Qualche parola ora sui primi due testi, tanto per introdursi
più agevolmente in La luce dell’ambra. Mi ha catturato in primis Con
occhi di bambina: l’ho letto con la stessa immedesimazione con cui leggo le
testimonianze degli anni della Shoah, con un trasporto intensificato dall’impulso
a comprendere meglio una persona per altri versi a me già nota. A prendermi non
è stata solo la angosciante vicenda raccontata, ma anche il lento, progressivo maturarsi
in essa di una dignità, di una tensione etica, e di una coscienza alta della
propria appartenenza.
E ora Un pollo di nome Kashèr o, almeno, i tratti di
esso che più mi hanno colpito. Tutto qui si legge con partecipazione, ma ancora
mi è rimasto il nodo alla gola che mi ha preso alla lettura delle pagine dedicate
al primo viaggio e ai primi due concerti di Liliana Treves in Germania, a
Stoccarda e a Freudental (il nome è ossimorico, e non solo per gli ebrei). Emerge
un passato distrutto nelle cose, ma non nella coscienza (ne testimoniano la
storia degli ebrei a Freudental innanzitutto, gli atteggiamenti dei giovani
tedeschi coinvolti dai concerti di Liliana); soprattutto viene alla luce un
mondo tedesco ricco, vivo nei secoli scorsi non meno che nel presente, per
nulla soffocato dalla terribile prepotenza nazista; si potrebbero fare
innumerevoli casi in proposito: come ascoltare oggi (oltre agli scontati, in
quanto opere di ebrei, Das Lied von der Erde e A Survivor from Warsaw)
Fidelio, Erlkönig, Wozzeck. Incoercibile fu la violenza
esercitata da Hitler, di essa anche i tedeschi furono vittime, ne subirono gli
effetti nelle distruzioni delle loro città, nei segni che lasciarono nella loro
esistenza e nei rapporti personali, nei sensi di colpa che accompagnarono non
pochi di loro nel dopoguerra. In proposito bisogna aver letto quanto meno Autunno
tedesco di Stig Dagerman (a cura di Fulvio Ferrari, con uno scritto di
Giorgio Fontana, trad. di M. Ciaravolo, Milano, Iperborea 2018); e Storia
naturale della distruzione di W. G. Sebald (trad. di Ada Vigliani, Milano,
Adelphi, 2004).
Condizionata da diffusi luoghi comuni sui tedeschi, Liliana
Treves conclude tuttavia le sue pagine con parole che voglio trascrivere: “Per
la prima volta, dopo tanti anni, vidi il risvolto della medaglia e compresi che
anche loro erano vittime della stessa guerra”. Parole che ho fatto mie, e che
già da prima sentivo mie: dagli anni in cui, non so per quali vie, mi
appassionai alle testimonianze della Shoah - e le prime per me furono Kapò,
Se questo è un uomo naturalmente, senza contare Il diario di Anna
Frank. A Monaco rividi Kapò, visitai da solo la vicina Dachau (solo
in anni recenti Buchenwald), soprattutto venni in contatto diretto con una
musica e una pittura, con persone, che dicevano di una ben diversa umanità, non
così lontana da quella che colora la voce e i modi di scrittura di Liliana
Treves.
Su di un piano più privato, mi sorprende l’episodio
dell’atmosfera che si crea intorno a un suicidio nella casa in cui la famiglia
Treves abitava; e mi rievoca un analogo episodio (dove protagonista era però
un’anziana donna) nella casa di via Losanna in cui abitavamo (con la strana
vergogna di fronte a chi mi chiedeva del caso). O per altro verso la caduta dal
Duomo davanti ai miei occhi di un suicida, in un’animazione bloccata, tra uno
stupore inquieto, gli interrogativi su cosa si potesse fare, il desiderio malsano
di correre a vedere; e la mia reazione di disapprovazione verso il suicida – di
cui ancora mi chiedo le ragioni.
Non mancano in Un pollo di nome Kashèr (come del resto
non sono assenti nei suoi scritti tutti) penetrazione psicologica, pensieri sulla
musica (anche etnomusicali); e riflessioni sulla lingua, le festività, gli usi
degli ebrei, il loro destino, sui pregiudizi antiebraici. Ma anche troviamo notazioni
su episodi e costumi che riguardavano tutti, in quegli anni che, più o meno
coetaneo di Liliana Treves, sono stati anche i miei. Per il resto, ci incontro
luoghi e persone a me noti, o che rinviano a quel pochissimo di universo
ebraico che ho conosciuto - avrei tante domande da porre a Liliana, casomai mi
capitasse.
Veniamo da mondi lontani, abbiamo attraversato esperienze
diverse, questo non toglie tuttavia che Wahlverwandtschaften possano
sussistere tra noi. Parafrasando Pavese, certo “abbiamo giocato bambini sotto
un cielo diverso”; ma abbiamo attraversato tempi e spazi comuni. Senza contare
che “dall’infanzia, in fondo, non si guarisce mai” (sono le parole con cui si
conclude Un pollo di nome Kashèr), e l’infanzia ha tratti che uniscono. Non
a caso mi immedesimo, per quel che posso, nelle ultime, toccanti, pagine di Un
pollo di nome Kashèr: testimoniano di qualcosa che può permanere anche
oltre le differenze, oltre le barriere e i pregiudizi che dolorosamente
separano. Di un simile “qualcosa” è latore, e simbolo, il senso vissuto della
musica che in quelle pagine si esprime. Parole che sento “mie”, pur essendo io,
in fatto di musica, un semplice ascoltatore, appassionato è vero, ma privo di
qualsivoglia attitudine pratica e conoscenza teorica in campo musicale. La
recente lettura di La luce dell’ambra, mi ha finalmente deciso a
prendere in mano altri testi di Liliana, a riascoltarne le canzoni, e a
scrivere queste pagine. Una sorta di debito contratto con me stesso e mai
assolto, più vivo in anni in cui “quel che resta del giorno” si fa sempre più
angusto.
Non sarà difficile intuire cosa mi ha spinto a prendere in
mano La luce dell’ambra - che un racconto autobiografico propriamente
non è, se non per vie indirette: in Micol troviamo non poco di Liliana, forse
anche qualcosa che Liliana avrebbe desiderato essere, e solo in modo
trasfigurato è stata, nei giorni della vita che le sono capitati. Come
definirlo non è semplice: è un romanzo, certo, ma è insieme un romanzo storico,
e in parte anche un romanzo-saggio. Non vi mancano riflessioni filosofiche,
meditazione esistenziali, religiose - e teologiche: si pensi al dialogo tra
Nathan e i suoi familiari, in cui tornano toni di La notte di Elie
Wiesel; o alla conversazione tra Rav Agiman e Nathan, sempre in La luce
dell’ambra (pp.131-134). Doti creative, virtù immaginativa, istanze
documentative, accurate ricerche storico-filologiche si intrecciano: testimone
ne è la nutrita Bibliografia di cui è corredato - e non è consueto leggere un
romanzo che si concluda con una bibliografia.
L’ossatura del romanzo è data dalla storia di Micol, che è
insieme storia della sua famiglia, della condizione degli ebrei in un certo
mondo; e per certi versi degli ebrei tout-court. La storia convoca attorno a sé
la grande storia degli ebrei sefarditi e del loro drammatico e avventuroso
destino, a partire dal secolo XV in Spagna e in Portogallo. Ma quanto in quel
racconto anticipa il destino futuro degli ebrei: razzismo biologico (la limpieza
de sangre), inquisizione e roghi, caccia alle streghe e fughe affannose,
insperate salvezze e condanne atroci, antisemitismo carsico - e quanti
sefarditi furono destinati ai forni crematori insieme agli ashkenaziti durante
la Shoah. Scrive Imre Kertész in L’ultimo rifugio: le autorità naziste
hanno mutuato non poco dai metodi inquisitori della Chiesa cattolica, “la loro
unica innovazione è stata la camera a gas”, che “ha preso il posto del rogo e
dei pogrom”; “i vescovi della Chiesa hanno votato nel parlamento ungherese le
leggi razziali”. “La Chiesa cattolica (come del resto quella ebrea e tutte le
altre) ha collaborato pienamente con le autorità comuniste e ha consegnato
nelle mani della polizia preti cattolici che, magari, avevano preso sul serio
la loro vocazione” (L’ultimo rifugio.
Romanzo di un diario, trad. di M. Sciglitano, Milano, Bompiani, 2016, p.
14).
C’è la storia personale di Micol, la sua vita affettiva,
soprattutto i suoi studi. Molti motivi, pretesti anzi, la conducono a Istanbul:
ricerche culturali, inquietudini esistenziali, attitudini generalmente “estetiche”
potremmo dire: il suo gusto per le splendide bellezze paesaggistiche,
architettoniche, artistiche, della città; ma anche per le cosiddette “arti
minori” che si consegnano in una gemma, nella rilegatura di un libro, in una
pergamena in esso dimenticata, in un tessuto, in un mobile, in un oggetto
sacro, in una cornice…. Lì è ospite dai nonni: il suo viaggio la sollecita alla
ricostruzione della loro vita, in cui tante vite e tanti affetti confluiscono;
per questa via si ripercorrono le vicende travagliate e tragiche di un lungo
periodo storico, e di un popolo in esso, attraverso il racconto delle vicende
di alcune famiglie che s’intrecciano. A Istanbul Micol dispone della ricca
biblioteca del nonno, docente universitario; qui trova abbondante materiale per
la tesi di laurea che sta preparando, non a caso dedicata a Inquisizione e
Marranismo. Religione sotterranea di segreti, misteri e silenzi. Un
progetto che anche Liliana perseguiva a modo suo (come leggiamo alle pp. 49-53
di Un pollo di nome Kashèr); senza contare che le sue ricerche musicali
dovevano inevitabilmente toccare anche indagini storiche.
La narrazione si sviluppa in tempi (dal febbraio del 1992 al
febbraio del 1597) e luoghi diversi - da Milano a Istanbul, Lisbona, Belmonte,
con interpolati viaggi a Venezia e Gerusalemme. Le famiglie ebree coinvolte
sono più d’una (le famiglie Rael e Jovial in Portogallo, la famiglia Israel a
Istanbul); ad esse appartengo numerosi e variegati personaggi. Dovrò rileggere
più volte per tener testa all’insieme - data anche la mia scarsa capacità di
memorizzazione.
Soccorrono nella lettura fili rossi, veri e propri leitmotive
quali la Meghillà di Ester, che sempre ritorna. Motivi conduttori che si
intrecciano, si disperdono, si inseguono, riconducono l’una all’altra le
diverse parti, e nel finale si ritrovano: oltre alla Meghillà di Ester (strettamente
legata a Purim, come noto), i segni occulti delle lettere ebraiche, i colori
del ritratto, l’ambra, il profumo del gelsomino, ma anche il tema della paura,
della simulazione, dell’inganno. Alla fine il ritratto, cui Micol si ispira per
il proprio costume, scioglie i suoi enigmi. L’amore di Micol, dopo l’erramento
con Albert, trova il proprio compimento nell’incontro col correligionario
Daniel; il nonno Viktor vede finalmente risolti problemi che lo assillavano… Quella
finale è ben più che una banale festa di Carnevale: è una scena di ritorno alle
proprie radici, di riconciliazione, e di apertura al futuro. Nelle maschere,
alla scelta dei costumi, concorrono motivi essenziali; non solo di buon gusto:
ciò che appare è anche simbolo di profondità vissute, nel ricordo e nella
speranza.
Tempi e luoghi si riallacciano nelle pagine conclusive - che
si svolgono però di marzo, sempre del 1597 o del 1992, tra Lisbona e Istanbul.
Quasi che distanze spaziali e temporali si cancellassero, a far emergere verità
che non sono solo di oggi. Quasi che, aggiungo pro domo mea, l’ebraismo che
Liliana ritrova, e in cui espressamente si riconosce, contenesse valori che
coinvolgono chiunque legga con empatia La luce dell’ambra, sotto
qualunque cielo abbia giocato da bambino.
Nell’Epilogo tutto si ricongiunge, come le due parti disperse
della Meghillà di Ester, emblema del romanzo; gli enigmi si svelano, persino il
passato, che avevamo lasciato orrendamente bruciato alla fine del capitolo
precedente, viene richiamato e si riconcilia. Nel Purim, in cui si celebra la
salvazione degli ebrei ad opera di Ester, vengono al pettine i nodi del
romanzo, qui convergono e in certo modo si sciolgono in una loro trasfigurazione
simbolica.
Nella mia lettura tuttavia qualcosa riecheggia del finale
(presunto, si sa) di America. In Kafka molto è inconfrontabile, certo,
col finale di La luce dell’ambra: nulla rinvia a Ester, il tono è del
tutto diverso. Eppure anche nel Teatro naturale di Oklahoma tutto sembra
risolversi, ognuno finalmente viene accolto, trova il proprio posto. Insieme
tuttavia nulla è definitivo, certo; tutto è sempre di nuovo messo in
discussione. Gli aspiranti vengono sì accettati in quella sorta di surreale
ufficio di collocamento che è l’ippodromo di Kingston, ma di lì devono compiere
un viaggio in treno di due giorni e due notti per giungere a Oklahoma; America
si conclude con l’arrivo nella città del teatro naturale, ma non è detto
cosa significhi questo teatro, come si configuri; e nulla è detto di cosa
avverrà in quel nuovo mondo. Enzo Paci (e con lui non pochi altri) nel saggio Kafka
e la sfida del teatro di Oklahoma ha colto bene il carattere illusorio del
finale di America. Per Adorno il
teatro di Oklahoma è “l’unica immagine
plausibile di quell’utopia che intrideva il pensiero” di Kafka Solo ora ipotizzo
(ma chissà quanti se ne sono accorti prima e meglio di me) che proprio sulla
falsariga di una festa di Purim - grottesca, distorta, ma a suo modo realistica
purtroppo - si può leggere la conclusione di America: romanzo a torto
considerato il più ottimista dei romanzi di Kafka: a ben vedere la sua parabola
non è così diversa da quella degli altri romanzi.
In modo
diverso naturalmente leggerei il “lieto fine” di La luce dell’ambra: in
chiave utopica comunque, ma positivamente utopica, nel senso più alto della
parola. In un senso cioè per cui utopia sia intesa come un ideale etico e
politico di difficile, impossibile anzi, realizzazione nella realtà; ma insieme
sia vissuto come dotato di una funzione positiva, di testimonianza e di fiducia:
di denuncia di mentalità, di costumi, di istituzioni, di eventi, di orrori purtroppo
non estinti, anzi tuttora presenti sul palcoscenico della storia. Non si avvicina
qui l’utopia alla “speranza malgrado tutto” di Kafka? Non ha a che vedere con
alcuna forma di utopismo: come chiarisce Luciano Parinetto, “quando il sogno è utopistico, quando cioè la
fantasticheria sul futuro distrae dal presente, mette fra parentesi la vita
invece di potenziarla, allora va respinto. Quando è utopico, cioè intenzionato a un effettuale mutamento e si rovescia
sul presente, allora va accolto”. L’utopia ci rende più acuti nel denunciare
quanto è inaccettabile, ma anche muta la nostra vita, la arricchisce della
fiducia in un senso, la apre alla speranza.
Non so cosa
pensi Liliana Treves di questa mia lettura, certo personale, pro domo mea, del
suo testo. In esso leggo certo una rinnovata ed efficace denuncia delle
terribili malversazioni subite dall’ebraismo, ma insieme una convinta e
avvincente difesa dei grandi ideali ebraici: la ripresa di verità e di valori
utopici forse, ma irrinunciabili per ogni persona che si possa ritenere
tale. Nulla è dato una volta per tutte, tutto è sempre di nuovo a rischio;
credere in un felice progredire della storia dell’umanità è quanto meno
imprudente, la barbarie può sempre ritornare, come nel ciclo dei corsi e
ricorsi vichiani. E tuttavia si è trascinati in una lettura - e nella vita
direi - solo se in essa avvertiamo un senso “malgrado tutto”, se proviamo l’interno
“piacere” di un’adesione; se in esse sopravvive, e si conforta, una fiducia,
una speranza - trotz alledem, malgrado tutto appunto, parafrasando a
modo mio Max Brod (senza per questo voler condividere in toto l’interpretazione
kafkiana di Brod, peraltro tante volte ingiustamente bistrattata), allorché
parla di Lied vom groβen Trotzdem (“Canto del grande Nonostante”).
Quella
stessa speranza che ha spinto Kafka a testimoniare scrivendo, che (fatte salve
le debite differenze) anima chi, come Liliana Treves, voglia “prender la
parola”, e tutti coloro che siano inclini ad ascoltarla, questa parola.
Liliana
Treves Alcalay
La
luce dell’ambra
Firenze,
Giuntina, 2019
Pagg.
302, € 18,00