di
Giorgio Colombo
Giorgio Colombo |
Roccabruna
è un bel nome inventato, con le sue contrade, e ingiustizie, e delitti, e
segreti (“la parola è fatta per nascondere il pensiero” (p. 86), un
paesino vicino a Cosenza, la città dell’autore, Angelo Gaccione, che si espone
spesso in questi suoi racconti in prima persona, salvo una volta che risale a suo
nonno per il ricordo di un “Ammazzarono chissà su ordine di chi…” (p. 49). Ma
gli ammazzati sono tanti: il primo è Basco, un povero pastore: “Le tracce
sul terreno dimostravano che aveva rantolato disperatamente prima di
spegnersi (p. 15). La risposta alle ribellioni, impiccati alle porte del
paese, oppure “legati a un trave… e spaccati in due a colpi di scure”,
senza contare i morti presunti tumulati nella tomba ancora vivi, i tradimenti,
l’uso del veleno. E ancora: “…Un mittente anonimo fece giungere al mio
indirizzo di Milano, un plico contenente una serie di documenti sul
delitto” di Serena Sparvieri, (…)” in modo che la penna dello scrittore
tramandasse l’infamia ai posteri (p.88-89). Si tratta non di una disgrazia capitata
alla figlia del Prefetto (in realtà si tratta di un delitto avvenuto vent’anni
prima!). Dunque anche i ricchi, i potenti, i nobili non stavano tranquilli. Non
solo il caso, qualche volta favorito, la morte per fuoco: “Chiusi in quella
morsa senza Speranza, assaliti da quei cerchi di fuoco, (…) il palazzo, gli
animali, gli sgherri, i beni, la roba, don Vincenzo stesso, furono travolti e
inghiottiti” (p. 26), ma la volontà esplicita degli antagonismi e dei tribunali,
non rispettosi di titoli nobiliari: “Li aragonesi condussono infra allo
schermo et alle ignominie Niccolò Clancioffo defensore valentisssimo di
Roccabruna et viro laudato, in sulla pubblica piazza. Quivi sotto alli occhi
increduli delli populari, Maso Barrese ordinò che quelli fusse con una sega a
doe metà segato” (p. 45).
Se “a
quei tempi… davanti ai tribunali degli uomini” gli animali erano tenuti in
opportuna considerazione (si veda il racconto “Il document rubato”), nel mondo
moderno la situazione si capovolge. Nel racconto che chiude il libro
(“L’uccisione dei cani”),un malandrino “detto il bandito” è pagato “mille lire
al colpo” per andare ad ammazzare i cani del canile comunale; ci va con un
compare e il figlio di sette anni, per insegnargli il mestiere; una specie di
rito di iniziazione alla vita. “(…) Affamati, assetati di vendetta, si erano
dilaniati a vicenda in una spaventosa furibonda lotta all’ultimo sangue, per un
brandello di carne, un minimo di spazio vitale, di liquido per sopravvivere…
Alcuni erano completamente privi di pelo, altri erano schletrici e spolpati.
Quelli più vecchi stentavano a reggersi sulle zampe, molti tremavano, quasi
tutti erano pieni di zecche, costretti com’erano a rivoltarsi nel proprio
sterco…”. Si tratta dell’esistenza dei miseri cani stipati dentro un
improbabile canile, in realtà un casolare-lager. “Sparavano mirando nel
mucchio e mano a mano che i cani cadevano… le file si assotigliavano e i gruppi
diventavano più radi… Mezz’ora più tardi l’odore acre della polvere delle
cartucce sovrastava il fetore dello sterco e delle carcasse decomposte”.
(p. 102-3).
“Giungo
ora ad un racconto che mi pare possa modificare i tratti finora seguiti e
perciò lo sposto come ultimo. È presentato come “un lungo rotolo in
cartapecora datato 1237, siglato al numero 39, redatto in latino volgare
(p. 91)”. Ecco cosa avveniva a Roccabruna: “Nascevano creature mostruose col
corpo umano e la testa di animale, e viceversa. Porci che mangiavano
bambini, cavallette e altri insetti velenosi che divoravano i raccolti, uccelli
giganteschi che rapivano i fanciulli, muli e vitelli che assassinavano i loro
padroni, mandrie che si abbandonavano furiose ad ogni sorta di violenza e di
rovina… e altri animali ancora che infettavano l’aria spargendo malattie,
rovinavano le vigne, avvelenavano le acque…”. I tribunali
condannavano allo squartamento “uomini
e animali colpevoli di accoppiamento sessuale contro natura”.
Uomini, donne e fanciulli le cui sembianze rivelavano un che di animalesco,
venivano tagliati a pezzi e seppelliti nel letame… si trattava di ‘ibridi’ dale
sembianze mostruose. Una scrofa che aveva tranciato in due la gamba di un
arciere “colà addivenuto per cacciare”, imprigionata è condannata a
morte, strangolata con mossa decisa dal boia
Terratrema, verrà fatta a pezzi per i cani. Questo non significa che in
quei tempi gli animali non fossero parte della comunità e perciò tutelati dalla
giurisprudenza, ma non mescolati, confusi col mondo umano.
Predicatori,
militari e statisti interruppero violentemente le mostruose mescolanze. Con
l’introduzione del ductum naturae suae
si volle ciò che sarebbe “conforme
al diritto, alla ragione, alle usanze e alle costumanze della Contea di
Roccabruna” (p. 92-95). Orrori pacificati, è probabile.
Fine
delle metamorfosi pericolose. Quasi un gioco, un divertissement, se non
poggiassero, queste vicende, su concreti documenti storici. E in effetti questo
racconto risulta un gioco stravagante rispetto ai racconti precedenti,
nonostante l’assicurazione dell’autore che “nulla è stato inventato”, così che
“il documento rubato” (e in quell ‘rubato’ c’è il tentativo di alleggerirne il
peso) ci appare come una inserzione fantastica, una cronaca a lieto fine che se
riesce ad alleggerire le crudeltà della cronaca nera precedente, tuttavia non
attenua il disagio, l’orrore del lettore.
Forse
Gaccione, persona mite ed affabile, con queste storie estreme, cerca anche di
esorcizzare le sue paure “originarie” incoraggiando il lettore a fare
altrettanto.
Angelo
Gaccione
L’incendio
di Roccabruna
Di Felice
Edizioni 2019
Pagg. 120
€ 12,00