FRANCESCO MACCIÒ
e la eraclitea dinamica degli opposti
di
Gabriella Galzio
Francesco Macciò |
Abitare l’attesa e l’oscuro di
ogni sostanza appare sin dai titoli un’impresa ardua, ma è l’impresa di questa poesia.
Qui la poesia non ha fissa dimora, né abita scopertamente la luce, piuttosto il
lampo: “là in basso/ da un capo all’altro contro il mare/ bianco distrofico un
lampo. // Ruota i secondi, scuote/ lo stesso occhio bianco/ che riaffiora qui
davanti,/ fermo, sul vetro.” In questa rapida ellissi si azzerano le distanze tra
qui e là, l’occhio e il lampo. Ellissi e condensazione connotano questa poesia,
così come l’attraversano un principio di contraddizione, la dinamica dei
contrasti e lo smarrimento della non distinzione, lo scacco dell’assenza e il
rinvio a un oltre. Contrapposizioni, alterità, ambivalenze, accanto ai veri e
propri ossimori (“il rifiuto di un uomo/ che muore immortale/ e vince sconfitto.”),
i tanti binomi contrastivi come “vicinanza-lontananza”, “silenzio-parola”,
“movimento-stasi”, “leggerezza-gravità”, “morte-vita”, “unione-separazione”…
tanto che verrebbe da chiedersi come questa poesia non sia continuamente
minacciata da paralisi, se non ci venisse in soccorso la eraclitea dinamica
degli opposti. Inoltre, viene fatto notare, nella contrapposizione, si fa largo
una tensione alla ricomposizione per fusione o congiunzione: “Un vento che
spazza le corsie/ e unisce ogni preghiera/ ogni silenzio della Terra/ e del
Cielo”. Nella poesia di Macciò soffia a tratti un vento spirituale e cosmico che
smuove le impasse e ricompone le fratture. Oppure è l’amore “il movimento
libero dei corpi/ che un altro ascolto accende/ a una gioia quasi sacra.”; che
compie l’ellissi che dalle carezze, attraverso separazioni e fratture, giunge alla
ricomposizione: “Ma ora che accarezzo le tue mani/ sono i gesti a separarci, a
mostrare/ le stesse fratture tra le cose/ il varco di un silenzio/ che ci
accomuna e ricompone in noi/ ogni origine, ogni confine.” Ma è solo per poco,
per tornare ad abitare l’attesa, la sospensione: “Rimane a picco il silenzio,/
un istante slegato, quel dio/ scomposto tra sponde di pietra.” Non fosse che per
questo linguaggio impervio come le montagne che Macciò scala, avremmo persino
uno stile comunicativo che lascia fluida la metrica e non frattura la sintassi,
tanto da sentirlo più tendenzialmente classico che non sperimentale. Ma chi è
questo poeta, questo fabbro, che nei suoi versi dice: “È un vaso più antico lo
spirito”? Chi sono i suoi riferimenti? “Con i vili non far tregua/ non ti far
servo dei servi/ di un dio che accumula e spegne./ Con te tutti i fabbri
migliori,/ Shelley Foscolo Keats…”
È questa l’impronta classica, la tensione
etica, il piglio quasi cavalleresco, per questo poeta ligure che ha fatto
propri i romantici inglesi del golfo dei poeti, ma anche Empedocle cui farà
dire in epigrafe: “…con l’amore/ l’amore e contesa con la contesa”; classico forse
persino nel ricorso all’invocazione, sottolineata dalla ripetizione anaforica:
“Signora delle barricate d’acqua/ degli afflitti, dei disarmati. /_..._/
Signora della persistenza/ e della mutazione…” Ma se questa è l’impronta,
Macciò forgia con forza metaforica le materie prime della realtà, dei luoghi e
degli accadimenti (come “le tangenziali nel piombo del mare”), ma anche delle stesse
parole poetiche su cui intesse una riflessione che attraversa la trama dei suoi
versi: “Risuonano invisibili/ nel crepitio delle foglie/_..._/ E si raddoppiano
trafitte,/ si dimezzano, le parole/ appesa ciascuna / all’ombra sua molesta/ e
ognuna dentro l’altra/ che muore.” Poeta addentro alla realtà contemporanea, la
metabolizza e porge trasfigurata con grande forza surreale: “Figure senza forma,
ammutolite/ al centro del teleschermo. Il clic di un’occhio scarlatto/ che
redivivi c’ intomba/ e buca le porte.” …per approdare ad un’acquatica
visionarietà del quotidiano: “Poi, sotto un cielo abbrunato/ la chiglia liquida
di un divano/ come un’arca che trasporta/ da una all’altra sponda/ gli insonni
estratti a sorte.” …per virare infine verso lo sfondo mitico di un moderno e
innominato Caronte, “Ad attenderlo un poco sulla riva/ scorrerà imbalsamato/ il
mondo nostro di cose dissolte/ e ricucite a pezzi.” Dissoluzione alla quale il
poeta però non si arrende, cui oppone infine la dignità di un riscatto
pedagogico: “Mi dici che dagli alberi/ dobbiamo imparare e dai fiori/ e da ogni
forma vivente/ che si protende verso la luce.”
F. Macciò |
Ma nella poesia di Macciò il
versante urbano della civiltà è altrettanto presente, anche se appare per frammenti
e lacerti, vedi “i nuovi mercati di merce infinita” o “lo schermo di ghiaccio/
di un cellulare, una voce”, né manca la sensibilità per le cronache di guerra né
l’ironia tragica “che dal seme di questa guerra/ nasce ogni volta la paura…/ e
la bontà della paura.” Né manca, nel fitto registro delle variazioni
stilistiche, lo straniamento distopico e la deformazione espressionistica: “Alcuni
in stanze buie/ ricomposti corpi nel caos/ che avanza verso la terra/ e protei,
protozoi umani,/ blastodermi in quiescenza/ fin dalle prime piume.// Altri in
desistenza/ tra i muri molli di un tunnel/ docili e feroci a staccarsi/ da un
binario se passa/ la bolla d’acqua di un treno.” Si va dall’onirismo di “figure
nere e bianche/ [che] affiorano nel lago, avanzano pesanti nell’aria insonne”
al tono allucinatorio che mutila e mescola insieme corpi e campi: “E pesanti
gli occhi,/ gli occhi qui al centro/ in questa quiete allucinata/ liquefatti – veleni/
stagnati nottetempo/ nelle vene mutilate delle acque/ in qualche buca trafilati/
a cielo aperto in mezzo ai campi.” Quanto alla presenza dei generi nella poesia
di Macciò, si spazia dal dominio visivo dei fenomeni, alla riflessione filosofico-
esistenziale, dalla narratività inframezzata da inserti dialogici virgolettati,
ai riferimenti ad un’ambientazione scenica. E altrettanto plurali sono i
soggetti: la terza persona dell’accadimento, la seconda del dialogo, la prima
plurale che umanamente ci accomuna, e infine, più raramente l’io, in relazione
a un tu, tendente al suo dissolvimento: “Scrivo/ per non avere più un volto./
Immagino figure su un foglio di carta.” Quel non-io su cui si regge il mondo.