di Claudio Zanini
Claudio Zanini |
«Sei
stanco?» domandò Porta al ragazzino.
Il
figlio fece di no con la testa. Era tutto accaldato e il freddo gli aveva
arrossato le guance.
«Perché
li ammazzate?» domandò brusco, e gli uomini furono colti di sorpresa.
Il
padre lo guardò con ammirazione; con quella cartucciera infilata al braccio
pareva più grande della sua età.
«Perché
ci pagano» rispose secco.
Questo dialogo, tratto dall’ultimo
di quindici racconti de L’incendio di
Roccabruna, si riferisce all’eccidio dei cani randagi e malati d’un canile.
È l’ultimo episodio d’una catena di efferatezze, vendette, ammazzamenti brutali
d’uomini e bestie. Sono quindici racconti dello scrittore calabrese Angelo
Gaccione, dove si narra di inauditi misfatti avvenuti nel corso degli ultimi
due secoli a Roccabruna, paese dal nome immaginario ma verosimile, in Calabria.
In questa fabula nera, che potrebbe tener discosti i
lettori con il suo orrore, si verifica, tuttavia, il sortilegio dello stile.
Chiarisco: l’autore si esprime con una lingua ricca seppure essenziale, secca e
diretta che non si perde in oziose divagazioni letterarie ma, appassionando e
coinvolgendo il lettore, mette immediatamente a fuoco il nocciolo amaro e
straziante della storia.
Sono racconti la cui brevità fulminante (storie spesso
racchiuse nello spazio di tre, quatto pagine) permette il raggiungimento d’una tensione
estrema che, in un testo più lungo, perderebbe la sua efficacia.
Storie atroci, dunque. Ma non del tutto, perché l’orrore che
da essi trapela è, tuttavia, attenuato dal linguaggio sostanziato da una vena
dialettale che pervade il loro crudo realismo di fondo, smorzandone i toni. Inoltre,
a rafforzare tale aspetto, vale a dire a distanziarne la drammaticità, una
serie di detti, modi di dire, proverbi e leggende popolari, aggiungono un tono
favolistico alla narrazione; aspetto questo che mi ricorda il bel film di Matteo
Garrone, Il racconto dei racconti.
A rendere la fabula d’ancora più agevole lettura
concorrono, insieme al racconto diretto, vari artifici come l’impiego di
antichi documenti ritrovati, cronache del passato, memorie di lontani
testimoni, racconti di protagonisti in prima persona e narrazioni oggettive, secchi
dialoghi e serrate descrizioni.
Grazie a tali espedienti, Gaccione rende la narrazione
viva, in grado di catturare l’attenzione del lettore - che legge d’un fiato un
racconto dopo l’altro-, suscitando in lui sentimenti di sdegno e umana
compassione, una profonda pietas, per gli sciagurati protagonisti dei fatti raccontati.
Nel tratteggiare tale fosco scenario, l’autore, che
parrebbe “ossessionato dal male” come dice Giuseppe Bonura nella postfazione
del libro, è mosso da una straordinaria passione civile. Si percepisce quanto
s’immedesimi nei personaggi, nella loro anima nera (dice, con una sorta di
sgomento, che è terrorizzato, “pensando a
che sangue mi scorre nelle vene”), perché il loro è anche il suo sangue.
Gaccione ci guida in una sorta di girone infernale. Universo
chiuso gravato da una violenza ancestrale vigente in una società arcaica sostanziata
da un equivoco senso dell’onore. Dove dominano ineludibili e coercitivi legami
di sangue che, causa un qualsiasi piccolo sgarro, innescano una trafila
infinita di vendette che coinvolgono vecchi, donne, bambini e
financo animali. Creature che s’azzannano l’un l’altro con ferina furia; si
dibattono in storie truci di sgozzamenti, vendette, stupri, inaudite
prevaricazioni del potere.
Un mondo cupo, dove l’altro viene visto con sospetto,
come un potenziale rivale, un estraneo da temere e da cui guardarsi. Oppure,
domato, come carne da lavoro da sfruttare brutalmente, fino allo sfinimento. Una
realtà dunque dominata da un destino implacabile cui è impossibile sottrarsi, privo
della minima speranza di riscatto; dove anche la legittima ribellione degli
sfruttati annienta fatalmente, con la feroce uccisione degli oppressori, ogni anelito
e possibilità di giustizia. Il sopraffatto diventa sopraffattore a sua volta in
una folle coazione a ripetere.
Claudio Zanini |
“Morivano di fame sotto i feudatari borbonici, e continuarono a morire di
fame sotto gli anti-feudatari giacobini. (…) Poveri e ignoranti sotto
l’aristocrazia feudale, poveri e ignoranti sotto la borghesia rurale giacobina.
Superstiziosi e rozzi sotto la bandiera della Restaurazione, superstiziosi e
rozzi sotto la bandiera della Rivoluzione.” (pg. 55)
Aggiungiamo a questo elenco, in una realtà più recente, preti
in combutta con il potere e i “galantuomini”, quindi
grandi proprietari terrieri e imprenditori del profitto capitalista.
Qui mi corre il pensiero a Tomasi di Lampedusa, alla
frase che ha messo in bocca di Tancredi, nipote del principe di Salina ne Il Gattopardo: “perché tutto rimanga
come prima, tutto deve cambiare”.
Il potere cambia volto, ma la sua essenza resta la stessa.
Così come le vittime sono sempre le stesse: i più deboli
e i più miti, i miseri pastori e i braccianti, i proletari e le loro famiglie.
Roccabruna è il mondo. Un piccolo paese immaginato dove
si rappresenta l’intero mondo.
Dunque, sopraffattori e oppressi. Aguzzini e vittime. La
tracotanza dei primi e la riduzione a cosa dei secondi. Padroni e servi. Uniti
in una dialettica perversa che, nonostante preveda quel capovolgimento di cui
parla Hegel nella Fenomenologia dello
Spirito, in cui il servo sostituendo il padrone ne prende il posto; accade
che, (con il posto) ne assume, tuttavia, anche la potenza oppressiva che deve
esercitarsi su altri servi. Non se ne esce se non eliminando dalla scena entrambi i
ruoli che le figure incarnano.
Per concludere, ritorniamo all’incipit, alla citazione dell’agghiacciante
dialogo tratto da L’uccisione dei cani.
Il truce racconto ha un inatteso e sorprendente sviluppo. Vi s’intravede un
barlume di speranza quando il giustiziere degli animali vede una lacrima
spuntare dall’occhio d’una cagnetta esile e macilenta, ultima rimasta viva della
carneficina. Il bambino è impietrito. Il padre esita, si blocca, non riesce a sparare. Il cane è ucciso dal suo ben più spietato
e cinico compagno cui è sottoposto. Ma nell’uomo qualcosa s’è risvegliato nella
coscienza. Forse non subirà più il dominio del padrone; né, libero, eserciterà
la sua potenza distruttiva negli altrui confronti. Forse vivrà in una società
aperta, dove l’altro è il suo rispecchiamento.
Lui è l’altro.
Una notazione. Il libro di Gaccione mi ha ricordato, tra
tanti testi, due film. Quello di Olmi, L’albero
degli zoccoli, dove la stessa umanità diseredata si dibatte nella pianura
Padana, tra il morso delle miseria e la tracotanza dei potenti senza, lo notai
quando lo vidi, reali prospettive di riscatto.
L’altro film l’ho già citato e si tratta del film di
Garrone, Il racconto dei racconti che,
tratto dal libro Lo cunto de li cunti
(1634), di Giambattista Basile, mette in scena con un linguaggio fantasioso e
favolistico, lo stesso mondo crudele e mostruoso di Roccabruna e dintorni.
Angelo
Gaccione
L’incendio
di Roccabruna
Di Felice
Edizioni 2019
Pagg. 120
€ 12,00