Cronaca e
reportage fotografico dal border di Rafah
di Patrizia Cecconi
Ieri, come ogni venerdì, la Grande marcia iniziata il 30 marzo è proseguita nei diversi accampamenti lungo il confine con la linea d’assedio, quello terrestre, imposto da Israele.
Una delle prime arrivate |
Ieri
siamo andati a Rafah, il punto più a sud della Striscia, quello confinante con
l’Egitto e che, nei piani israelo-statunitensi, dovrebbe essere un punto
fondamentale nel cosiddetto “deal of the century” sbandierato da Trump e
assolutamente rigettato da tutti i palestinesi che conoscono il senso profondo
del sostantivo dignità.
Per
arrivare al border, una volta a Rafah, si cambia taxi e si chiede direttamente
“al awda” che significa soltanto “il ritorno” ed è l’abbreviazione dell’intera
frase che rappresenta il progetto nato e condiviso “dal basso” ed attribuito
strumentalmente ad Hamas che in qualche modo gioca a farlo suo. Tutti a Gaza
sanno comunque che non è così. In realtà Hamas, rappresentando l’autorità
governativa della Striscia, disloca la sua polizia in divisa e in borghese in
tutti gli accampamenti della grande marcia, vuoi con compiti di controllo, vuoi
con compiti protettivi come nel caso degli stranieri cioè, nel caso specifico,
di chi scrive, anche stavolta unica straniera come testimone diretta.
Quando
si arriva a Rafah il monumento che segna l’ingresso in città è un po’ come i
tanti cannoni che fanno bella mostra nelle migliaia di Comuni italiani grandi e
piccoli, con l’intento di ricordare a chi arriva che l’indipendenza è stata
conquistata, purtroppo, con le armi. Qui non hanno cannoni a dichiarare in
forma monumentale la loro lotta per la libertà, ma hanno un simbolico missile
qassam. Un giorno sarà un reperto da museo ma intanto sta qui, a dispetto degli
schizzinosi che chiamano terrorismo un qassam e non un bombardamento a tappeto.
Fa un po’ sorridere pensare alla sproporzione tra questo “coso” e le
sofisticatissime armi dell’assediante, ma resta tuttavia molto serio il suo
significato come simbolo di resistenza.
Sul
taxi collettivo che ci porterà verso “al awda” sale una donna coperta dal niqab
nero. Dagli occhi e dalle movenze sembra giovane. E’ diretta anche lei al
border. Poco dopo scopriamo che è una giornalista palestinese e non toglierà il
niqab neanche quando mi chiederà un’intervista per la radio che hanno nel
campo. Se non lo toglie per motivi di sicurezza o per credo religioso non lo
sappiamo, però vediamo che è esperta nell’uso di strumenti di comunicazione e
che il niqab non le impedisce di essere rispettata dagli uomini come
professionista nel suo campo. Rilascio l’intervista come ogni volta che mi
viene chiesto, e stavolta mi chiedono pure di mandare un messaggio al mondo.
Sorrido con amarezza davanti alla loro ingenuità, certo che lo mando il mio
messaggio al mondo ma tanto non arriverà. Resterà solo un conforto per loro, un
simbolo di solidarietà per un’iniziativa che condivido e apprezzo. Ma da Gaza
verso il mondo, quello che fa opinione a livello di massa, non arrivano
messaggi. Vengono filtrati dal secondo muro di Israele, quello mediatico.
Comunque rilascio l’intervista. Anch’io farò a mia volta una breve intervista a
lei e ad altri partecipanti ed organizzatori della Grande marcia. In sostanza
mi limito a una domanda: “cosa vi aspettate da questa vostra lotta in forma di
grande manifestazione popolare di lunga durata”. La risposta di Amal, la
giornalista che mi ha intervistato, non è troppo diversa da quelle degli altri,
al momento non si aspettano niente, ma sano che solo continuando potranno avere
una chance per riuscire ad ottenere i loro diritti. Amal significa speranza, è
un nome che portano molte donne. In questo caso sembra proprio la
rappresentazione del suo pensiero. Molti altri, uomini e donne, portano il nome
Kifah, che invece significa lotta, e diversi ragazzi portano il nome Naser che
significa vittoria. La parte del leone la fanno i Mohammad con tutte le
variazioni sul tema, da Ahmed a Mahmoud, che rappresentano la fede religiosa
dei loro genitori, ma i nomi che rappresentano la realizzazione dei sogni di
questo popolo non sono pochi.
A
poche decine di metri dall’accampamento del border di Rafah ci sono imponenti
rovine. Chiedo ai miei amici “bodyguards” cosa siano e mi rispondono che si
tratta dell’aeroporto distrutto da Israele quasi 20 anni fa. Ricordo
le immagini televisive di quella feroce e impunita distruzione. Credo ci fosse
anche denaro italiano in quell’aeroporto ma nessuno ha mai chiesto i danni ad
Israele per le sue distruzioni. Non si trattava di piccola cosa, l’aeroporto
aveva una lunghezza di oltre 3 chilometri, comprendeva circa 20 edifici ed una
moschea di cui è rimasta miracolosamente in piedi la cupola dorata, il poco che
si vede ancora fa capire che l’architettura era di stile arabo, i miei
accompagnatori mi dicono che le pareti erano affrescate da mosaici e piastrelle
marocchine. Era stato inaugurato nel 1998 dal presidente Yasser Arafat di cui
portava il nome, dava lavoro a diverse centinaia di persone e copriva non meno
di 700mila viaggiatori l’anno nei pochi anni in cui è rimasto in vita. Ma i
tanti milioni di dollari serviti a costruirlo finirono sotto le bombe
israeliane in poche ore. Perché? Nessuno lo ricorda. Forse Israele aveva
semplicemente deciso di chiudere il cielo alla Palestina. Infatti il piccolo
aeroporto di Qalandia, in west Bank l’ha inglobato e questo lo ha distrutto.
Sono talmente tante le distruzioni israeliane che se ne perde il conto. Due
foto per ricordare a chi legge che un giorno qui c’era un aeroporto e si va
avanti.
Raggiungiamo
l’accampamento e anche stavolta siamo tra i primi. Ci sono solo gli stanziali nelle
tende e qualche centinaio di persone, prevalentemente giovani, sparse qua e là.
Nessuno vicino alla rete ed anche per questo sembra veramente gratuito il
lancio, più o meno ad altezza d’uomo di un primo lacrimogeno. Il
vantaggio-svantaggio di essere unica straniera consiste nel fatto che ti
trattano come un pulcino da proteggere non appena si profila un minimo di
problema. Via di corsa, e al riparo. Per fortuna io ho la mascherina col filtro
a portata di mano e la indosso subito. Uno dei miei due “bodyguards” mi grida
di non toccarmi gli occhi ma lo so a memoria e non lo faccio. L’altro
si è respirato in un attimo un bel po’ di gas perché gli è caduto proprio
davanti e ha indugiato qualche secondo per coprirmi le spalle. Per un po’ sputa
e vomita poi passa tutto. Ancora Israele non ha dato il meglio di sé e basta
allontanarsi di qualche decina di metri per riprendere a respirare senza
problemi e poi, cosa che forse farà sorridere, c’è sempre il carrettino con
caffè e tè e in un minuto arrivano tre bicchieri di “shay bi n nana” il tè alla
menta che si beve d’estate.
Bar del campo |
Alcuni
ragazzi mi chiedono se voglio assistere alla preparazione e mi fanno entrare
sotto una tenda a patto che non fotografi i visi. Mi sembra il minimo! Le mani
sì, non c’è problema. Hanno tante bottigliette di plastica vuote e qualche
bottiglia di plastica grande riempita di liquido scuro. Faccio la spiritosa con
le mie due parole di arabo e loro, ancora più spiritosi, mi rispondono che è
Coca Cola e che serve a dar forza ai copertoni per rotolare.
Bene, tutto chiaro, ecco perché prendono così facilmente fuoco, ogni bottiglietta “serve” un copertone, quindi vengono fatti rotolare fino al punto in cui, una volta accesi, impediranno la visuale ai killers professionisti, detti anche tiratori scelti, o cecchini, o snipers a seconda che si voglia addolcire o rendere immediatamente chiaro il loro compito di potenziali assassini. I poveretti a quel punto devono faticare un po’ per individuare le loro vittime e con l’aiuto dei droni e di altri loro colleghi, cercano di indirizzarle in punti precisi riempiendo la zona di gas.
Ancora
non sono arrivate le migliaia di parteciparti che stiamo aspettando e che
arriveranno tra un po’ quando i ragazzini con cui stiamo parlando mi invitano a
guardare alto e i miei amici mi urlano di scappare. Vorrei prendere una foto
del drone che sembra aver puntato proprio in nostro gruppetto ma non faccio in
tempo, vengo letteralmente presa e trascinata via. Perché? Mi chiedo. Non
perché il mio amico mi abbia trascinata via, anzi lo ringrazio, ma perché ci
hanno mirato? Non facevamo nulla. Eravamo un gruppetto di poche persone con
quattro bambini che chiedevano foto ricordo e che ringraziavano della
solidarietà.
Ho
visto cosa significa essere puntati da un drone: gira su se stesso, si ferma,
si abbassa e lancia. Ai nostri piedi restano dei residui dei suoi regalucci. Ma
a questo punto arriva la security. Altro controllo passaporto, altro controllo
permesso delle autorità locali, altro shukran per la tua presenza ma ora te ne
vai. Anzi prima cancelli pure le foto che hai fatto. In sostanza questo è il
discorso dei poliziotti tradotto dal mio amico. Provo a chiedere ai miei
accompagnatori di spiegare a questi geni della comunicazione che se loro
mandano via chi può testimoniare la verità, l’unica voce che avrà ascolto sarà
sempre quella dei loro nemici. Niente da fare, sono irremovibili. Intanto
comincia il fumo nero dei primi pneumatici e il fumo bianco dei gas che si
moltiplicano a qualche centinaio di metri.
Il
mio amico, quello che ha la responsabilità di essere il mio accompagnatore
ufficiale prova a spiegare il mio pensiero a questi poliziotti in borghese del
regime di Hamas. Non immaginateli come terroristi con una bomba tra i denti,
qui gli unici terroristi veri sono gli israeliani, però immaginateli come tutti
i poliziotti del mondo ai quali è stato dato un incarico preciso. Niente da
fare, è bene che mi allontani perché, se mi succedesse qualcosa, immediatamente
falchi e sciacalli accuserebbero Hamas invece di Israele e magari si
inventerebbero pure che sono stata usata come scudo umano. Figuriamoci! Scudo
io? Ma quale scudo? Urlo pure se mi schiaccio un dito! Io sto attentissima,
sono sempre prudente e voglio solo essere testimone! Ci riprovo, insisto.
Niente da fare. Tanti ringraziamenti ma per favore vattene perché i killer ora
cominceranno a sparare e tu sei vestita di bianco e sei identificabile da
lontano come straniera e questo non è una garanzia per la tua sicurezza. Questo
è quello che più o meno ha detto il poliziotto al mio amico, il quale si
rivolge a me giungendo le mani con aria sconsolata e pregandomi mi dice “please
Patrizia, please, it is just for your safety, don’t get me in trouble”, va
bene, questi non sentono ragioni e non posso mettere nei guai il mio
accompagnatore. Va bene, è per la mia sicurezza, ok.
Intanto
cominciano a correre le ambulanze e si attivano i paramedici con i quali
avevamo scambiato qualche parola poco prima. Va
bene, forse hanno ragione, a poche decine di metri da noi i primi feriti. Così,
realmente senza motivo, se non per un processo alle intenzioni che sono
esattamente quelle di chiedere il rispetto delle Risoluzioni Onu che Israele,
campione di falsa democrazia, nega.
Però
chiedo solo un momento, il tempo di assistere al lancio di un enorme aquilone
trasparente, uno di quelli che portano il famoso straccetto acceso e che
Bennet, uno dei ministri fascisti del governo Netanyahu ha dichiarato essere
sufficienti a far passare per le armi i loro costruttori, anche senza
straccetto e anche se bambini. Non è che questo discorso pubblico di un
ministro che invoca la pena di morte senza processo abbia creato almeno un
sussulto di indignazione democratica nel mondo! No, i fascisti israeliani
vivono ancora di un’immeritata rendita che li protegge dal definirli per quel
che sono. Comunque, nonostante la generalizzata benevolenza verso Bennet,
Netanyahu, Liebermar e altri esponenti di un pensiero pericolosamente fascista,
come già scritto sulle pagine di questa testata e altrove, chi scrive sta con
gli aquiloni. In
fondo stare con gli aquiloni, compresi quelli portatori di fiammella significa
stare anche con le norme della IV Convenzione di Ginevra le quali consentono
all’oppresso, occupato o assediato che sia, di reagire contro il suo
oppressore, mentre stare con droni, F-16 o snipers israeliani significa essere
contro la legalità internazionale, quindi essere dei fuorilegge. Tanto per
essere precisi.
Mentre
ce ne andiamo arriva una carovana festante. Cantano, urlano slogan, mandano
musica patriottica, innalzano la bandiera della Palestina, sono in piedi su
decine di “caucciù” e uno di loro tiene alta una cesoia, simbolo della rete
dell’assedio da tagliare. Altri mostrano banner col nome di qualche villaggio
distrutto, altri foto di martiri. Qualcuno mostra le grucce come regalino di
precedenti venerdì che lo ha reso invalido ma non ha bloccato la sua voglia di
esserci. Quando
i gazawi dicono di essere un popolo di pazzi forse un po’ di ragione ce
l’hanno. Ridono, ci salutano e ci chiedono “saura, saura” che è la pronuncia
locale del termine “foto”. Loro lo sanno, non sono mica poliziotti, loro lo
sanno che le foto devono girare, che solo così all’estero arriverà, sebbene
flebile, la loro voce. Andando
via dall’accampamento incontriamo decine di pullman carichi di manifestanti.
Forse tra di loro c’è anche Mohammed Fawzi Al Hamaideh, 24 anni. Ucciso proprio
qui da pallottole che forse volevano solo renderlo sterile, altra piccolo vezzo
criminale su cui i fucilieri israeliani si stanno specializzando. Ma la
pallottola che lo ha colpito all’addome non lo ha invalidato, lo ha ucciso.
Altro martire che nutrirà la resistenza palestinese.
La
notizia della sua morte ci raggiungerà in serata mentre siamo impegnati in un
meeting per organizzare la raccolta fondi per gli ospedali che scoppiano e non
sanno più come fare a salvare vite che gli arrivano spesso appese a un filo. Subito
dopo ci arriva un’altra brutta notizia, l’uccisione di un ragazzino di 13 anni,
Yasser Abu al Naja. A lui hanno sparato direttamente alla testa. Non era qui a
Rafah ma a est di Khan Younis. Il portavoce del ministero della salute ha
appena comunicato i nomi dei due martiri e il numero dei feriti che lungo tutto
il confine sono 415. Una parte ricoverati nei diversi ospedali e una parte
medicati negli ospedali da campo.
Ma
gli organizzatori della grande marcia hanno già pronto il tema del prossimo
venerdì: lo schiaffo al “deal of the century” ovvero all’affare del secolo
ufficialmente preparato da Trump con Israele e che trova pieno accordo di
Egitto, Arabia Saudita, Giordania e tutti quei paesi arabi che fecero disegnare
Handala di spalle al grande Naji al Ali tanti anni fa.