BACH, SAN
SEPOLCRO E IL MOSÈ
di Angelo Gaccione
Il trio d'archi Il Furibondo |
C’è chi nega risolutamente e c’è chi nutre più di un
dubbio che a mettere le mani per una trascrizione per strumenti ad archi dal Clavicembalo ben temperato di Bach e
dalla Fuga in fa minore del figlio
Wilhelm Friedemann, sia stato Mozart. Chi sia stato a noi importa poco, di
sicuro chi lo ha fatto nutriva ammirazione per i due musicisti tedeschi, e
voleva eseguirli con strumenti diversi. A me questi sei brani (cinque adagi e
fughe e un largo e fuga) eseguiti dal Trio D’Archi “Il Furibondo” (Liana Mosca
violino, Gianni De Rosa viola, Marcello Scandelli violoncello), nella Chiesa di
San Sepolcro mercoledì 11 luglio compresi sotto il titolo “Mozart trascrive
Bach, padre e figlio”, hanno deliziato e tanto basta. Il furioso del trio mi è parso Scandelli, la sua esecuzione al
violoncello è stata tanto passionale e coinvolgente, quanto quella di Mosca e
De Rosa è stata misurata e contenuta. Il posto poi meritava davvero. La chiesa
di San Sepolcro nell’omonima piazzetta, alle spalle della Biblioteca Ambrosiana
di cui è parte integrante, nel cuore di Milano che più cuore non si può. Addirittura
dentro il perimetro delle mura imperiali romane, e dove l’antico foro pullulava
della sua vita mercantile. Questo per dire del luogo dove nel 1030, su volere
della famiglia Rozo proprietaria dell’area, si darà impulso a quello che
quattro anni più tardi diverrà l’edificio sacro. Solo in seguito però la chiesa
assumerà il nome attuale, dato che nella parte inferiore (la cripta aperta di
recente al pubblico dei visitatori) era stato costruito un sepolcro per ricordare
quello di Gerusalemme, un sessantennio più tardi, a ricordo della liberazione
del Santo Sepolcro ad opera dei crociati, si decise la nuova dedica. A quanti
vogliono conoscerne più dettagliatamente storia e vicende, consiglio il
libretto di don Mario Panizza San
Sepolcro di Milano, pubblicato
dalla DeAgostini. Sono una quarantina di pagine e apprenderete quanto basta. Con
il suo ordito medievale e la toponomastica che lo ricorda, questo segmento di
città è fra quelli a me più cari, e quando posso, soprattutto alla domenica
pomeriggio o in piena estate quando la città si svuota, mi piace in solitudine
vagare alla ricerca di quelle che sono ormai divenute le mie memorie. In via Armorari c’è l’edificio dove nel 1918 Ernest
Hemingway ferito fu accolto e curato; allora vi aveva sede la Croce Rossa
Americana, oggi è una banca. Due passi più il là, in quella che ora è la via
Cesare Cantù, c’era la casa del popolano milanese Antonio Sciesa, più noto
forse col nome di Amatore; il patriota tappezziere che agli aguzzini austriaci
oppose il suo celebre tirrem innanz,
al tradimento. Le casupole di allora sono sparite e l’area è occupata dal
maestoso edificio della Banca d’Italia che lo occupa su più lati, fino a
lambire quello che ora è lo slargo dedicato a Pio XI, e dove ha sede una delle
più prestigiose istituzioni milanesi, la Biblioteca Ambrosiana voluta da
Federigo Borromeo, con la sua altrettanto celebre Pinacoteca. Finalmente da
qualche anno la piazzuola è stata pedonalizzata, e al posto delle macchine che
vi parcheggiavano davanti e vi correvano sui due lati in un fluire incessante,
ci sono ora delle panchine in legno dove si può sostare con tranquillità. Ho
avuto il privilegio molti anni fa, di visitare l’Ambrosiana accompagnato da una
guida di eccezione, monsignor Ravasi, allora Prefetto di questo luogo
meraviglioso e oggi cardinale in Vaticano. Ho ancora le sue parole risentite
negli orecchi: “Ma si rende conto che qui abbiamo il più ricco Codice Atlantico
di Leonardo, la Canestra di Caravaggio,
il Cortile degli Spiriti Magni, e siamo assediati da tutte queste macchine e
dal loro incessante rumore?”. Io ne scrissi su un settimanale milanese e poi in
un volume piuttosto robusto. Il Rettore aveva, seppure con ritardo, vinta la
sua battaglia e lo sconcio che imbruttiva la creatura di Federigo fu eliminato.
Non è così, purtroppo, nella parte posteriore dell’Ambrosiana, dove ci sono la
chiesa di San Sepolcro con la sua cripta e l’ingresso della Pinacoteca. Quanto
le macchine parcheggiate imbruttiscano questa piazza salta subito all’occhio
appena si percorre il breve tratto della via Federigo. E se invece si percorre
l’altrettanta breve e stretta via Dell’Ambrosiana, si è costretti ad
appiattirsi quasi contro il muro per ripararsi dalle macchine. Basterebbe
spostare altrove il Comando di Polizia e obbligare i residenti (qui risiede la
Milano danarosa) a cercarsi un parcheggio. Nei paraggi ce n’è più di uno. Per
cogliere nella sua interezza torri e facciata, si è costretti ad arretrare fino
all’imbocco di via Della Zecca Vecchia. Durante il concerto in San Sepolcro
riflettevo su come fosse confortante possedere dei luoghi del silenzio, nell’affannato
correre metropolitano dentro un tempo che non controlliamo più; di come fosse
prezioso che quel magnifico rito
musicale potesse avvenire lontano dal frastuono.
Milano, chiesa di San Sepolcro |
Di domenica pomeriggio queste
contrade ritrovano il loro silenzio. È stupefacente come bastano
pochi metri per lasciarsi alle spalle il delirio mercantile di via Torino, lo sferragliare
dei tram di via Orefici, il viavai incessante di Corso Vittorio Emanuele. Rarissime
macchine e quasi nessun passante fra le Cinque Vie, e così posso percorrere
indisturbato Via del Bollo, via Santa Marta, via Santa Maria Fulcorina, via
Bocchetto, via Santa Maria Podone, e sostare sul cantone dove le lapidi con i
nomi dei giovanissimi partigiani massacrati ci ricordano a che prezzo è stata
ottenuta la libertà; vedere gli ultimi ruderi ammonitori dei bombardamenti
della seconda guerra mondiale che devastarono la città; rendere omaggio al
luogo dove Gaetano Crespi, poetta e
studios de la lengua meneghina, come recita la targa, l’è vivuu e l’è mort. Non trascuro quasi mai di percorrere il
tratto di via Morigi e passare davanti alla casa del caro e compianto Roberto
Guiducci e della sua sposa Armanda, per un saluto e un pensiero a questi due colti
intellettuali e raffinatissimi poeti, cui Milano deve molto e che ha
dimenticati. E quasi sempre attraverso la via privata Maria Teresa dove abitava
Carlo Bo, e mi spingo fino alla bella piazza Mentana che meriterebbe di essere
meglio curata e liberata dalle auto. Più in giù il Carrobbio, San Lorenzo con
il parco delle Basiliche e il suo colonnato corinzio di origine romana, piazza
Vetra e la via Gian Giacomo Mora... sono i luoghi che rimandano agli affettuosi
ricordi dello scrittore Emilio De Marchi e alle tragiche vicende descritte dal
Manzoni nella sua Storia della colonna
infame. La via Santa Maria Podone sbuca in quella che è oggi piazza
Borromeo. La casa del cardinale è lì, così come quella del cugino Carlo,
cardinale a sua volta e poi santo. Di Carlo c’è anche la statua, proprio accanto
alla chiesa di Santa Maria Podone. Ad entrambi bastava scendere dalle loro “domus auree” per entrare in un luogo di
culto. Ma se volevano recarsi in San Sepolcro o all’Ambrosiana, non avevano che
da percorrere i tre minuti di strada, tanti ne ho contati io per fare la prova.
Non finiremo mai di biasimare il cardinal Federigo per quello che ha fatto
passare allo storico Giuseppe Ripamonti; Manzoni, che al Ripamonti deve molto,
gli ha reso giustizia, altrettanto ha fatto Milano dedicandogli quella che è in
assoluto la via più lunga della città. Non finiremo tuttavia di lodare
abbastanza il cardinale, per aver donato ai milanesi i suoi due gioielli che
tutto il mondo ci invidia: la Biblioteca e la Pinacoteca.
Non è sempre aperta la chiesa di San Sepolcro, e bisogna
approfittarne. Il responsabile Giuseppe Frinquelli mi ha lasciato il suo numero
di telefono e si è messo a disposizione perché possa vederla in dettaglio fra
una decina di giorni, quando rientrerà a Milano dopo una pausa. Voglio sostare
più tempo davanti al Cristo ligneo dell’altare, all’affresco del Bellasio, al
dipinto del Nuvolone, alla tela di San
Giorgio e il drago del Procaccini, al gruppo di statue cinquecentesche in
terracotta dipinta in allestimento, e che compongono il Compianto per il Cristo
morto, con quella Maddalena che allarga le braccia disperata e la madre svenuta.
Indugiare ai piedi delle due absidi laterali dove a sinistra gli apostoli scolpiti
a dimensione naturale sono disposti lungo la tavolata dell’ultima cena, e in
primo piano c’è il Cristo intento a lavare i piedi a san Pietro. A destra,
invece, c’è il gruppo in cui il Cristo è condotto davanti ad un Caifa che si
straccia le vesti e a un san Pietro che lo rinnega. Le scene delle due
rappresentazioni sono realizzate da statue gigantesche di forte impatto.
Raffigurano un Cristo, chissà perché, piuttosto in là con gli anni, e così per
una parte degli apostoli. Certo un Cristo biondo e con gli occhi azzurri di
certa iconografia suona alquanto improbabile per un palestinese, ma anche qui
si è esagerato con le fattezze, in fondo si trattava di un giovane di trentatré
anni.
M. Buonarroti Il Mosè (part.) |
La cripta invece resterà aperta tutta l’estate e dovete
proprio visitarla, lo dico anche a quei lettori non milanesi, nel caso si
trovassero in città. Fino al 15 settembre si potrà vedere anche il
cortometraggio sul Mosè, realizzato
da Antonioni nel 2004 dal titolo Lo
sguardo di Michelangelo. Io ci sono andato ieri pomeriggio proprio per
vedere questo documentario e vi assicuro che ne vale la pena. Il regista
ferrarese aveva 92 anni quando lo realizzò, morirà a Roma tre anni più tardi
nel 2007. È molte
cose insieme questo cortometraggio di 15 minuti: è un omaggio alla potenza
creativa del Buonarroti, al senso di umanità a cui l’arte ci richiama con la
sua bellezza e il suo mistero, alla sua perennità, ma è anche una riflessione
attonita sulla caducità della vita, un interrogativo silenzioso sull’esistere e
la sua parabola transeunte. Non ci sono parole in questo video realizzato
rigidamente in bianco e nero. Il bianco della pellicola rispetta il bianco del
marmo e ne indaga minuziosamente ogni piega, ogni dettaglio. La cinepresa
scandaglia, si insinua, indugia, fissa su un particolare, dilata un primo
piano, sfuma in dissolvenza come un sogno... La tomba di Giulio II ed il gruppo
marmoreo che lo adorna, sono colti nella fissità gelata della morte, nel silenzio
eterno che si è solidificato, pietrificato. Ed è solo con il silenzio che ci si
può accostare. I passi affaticati di un Antonioni anziano e sofferente (la mano
destra sempre in tasca, forse rimasta offesa dopo l’ictus), seguono la striscia
di luce che il portale semichiuso e avvolto nella penombra di San Pietro in
Vicoli, proietta sull’impiantito. Sono il solo rumore registrato costeggiando
la fila di colonne per arrivare davanti alla tomba col Mosè. Nessuna
concessione all’orpello, alla magnificenza, nessun elemento dell’esterno, né la
facciata, né la lunga scalinata di san Francesco di Paola che ho tante volte
salito per venire qui. La chiesa è vuota e la cinepresa si concentra solo su
quel riquadro ben delimitato. Ad Antonioni è concesso il privilegio di superare
la balaustra e di avvicinarsi al Mosè
come a nessun altro è stato forse permesso negli ultimi anni. Egli può persino
accarezzare la statua che enormemente lo sovrasta e nei cui confronti appare
minuscolo, commosso e intimidito. Da questo momento in poi inizia un vero e
proprio dialogo silenzioso fatto solo di sguardi. Sono gli sguardi e i silenzi di due artisti che portano lo stesso nome, e che
si incontrano dopo cinquecento anni: l’uno in carne ed ossa, l’altro attraverso
il capolavoro ricavato dall’inerzia informe di un minerale che si è fatto anch’esso
carne ai nostri occhi. Non sapremo mai quali pensieri hanno attraversato in
quei quindici minuti la mente di Antonioni. A noi restano i gesti delle sue
mani, il silenzio, gli occhi attenti dietro le lenti, le pieghe delle sue
labbra, le espressioni assorte, il cenno di saluto alla statua, lo sfrigolio
della fede che porta al dito mentre la mano scivola dolcemente su un ginocchio del Mosè, che la cinepresa di Andrea Boni, suo
aiuto regista, segue passo passo. La fine
del filmato, è scandita dai passi del regista che ora, in senso inverso, seguono
la stessa striscia di luce disegnata sul pavimento, mentre il Magnificat IV toni di Giovanni Pierluigi
da Palestrina eseguito dal Vocal Ensemble Camerata Nova, ne accompagna l’uscita
dalla chiesa.