LAVORO E
SVILUPPO: LE COSE SERIE
di Franco Astengo
Il governo italiano sta
inondando l’opinione pubblica di tweet e annunci Facebook sugli argomenti più
svariati riguardanti riforme di vario tipo, ordine, grado: reddito di
cittadinanza, flax tax, decreto dignità, ecc. ecc. Soprattutto all’ordine del
giorno il tema dei migranti elevato a questione epocale, anche per occultare
temporaneamente la “mirabolanza münchhausiana” delle promesse avanzate in
campagna elettorale.
È
il caso però di ricordare che incombono sull’economia italiana e sulla vita di
tutti i giorni questioni molto serie, vitali per il rapporto tutto da ricostruire nel nostro paese tra
lavoro e sviluppo. Rapporto tra lavoro e sviluppo messo in un canto, è bene
ricordarlo, da tutti i governi precedenti: centro-sinistra; centro-destra;
tecnici; solidarietà nazionale, e via discorrendo, da Berlusconi a Monti, da
Letta a Renzi per non risalire a Prodi. Romano Prodi che ricordiamolo sempre fu
ministro dell’industria nel governo Andreotti e commissario all’IRI
allorquando, anni ’80 – ’90 del XX secolo, si procedette allo smantellamento
dell’Istituto per la ricostruzione industriale e a una serie di “mortali”
privatizzazioni.
Proviamo
allora ad affrontare un punto, di estrema attualità e importanza: lunedì
mattina, 2 luglio, davanti ai portoni del Ministero dell’Industria in via
Veneto ci saranno, infatti, i lavoratori dell’ILVA di Taranto che si sono
autoconvocati dopo lo slittamento dei termini per la vendita della loro azienda
al colosso Arcelor-Mittal, amministratore delegato indiano, sede in
Lussemburgo, produzione annua di 97,03 milioni di tonnellate di acciaio. La
produzione dei più grandi gruppi italiani è ferma a 4,73 milioni di tonnellate
l’ILVA e a 3,19 Arvedi. Da ricordare come l’Italia sia importatrice di
materiale. Nel primo semestre del 2017 l’import italiano ha raggiunto queste
cifre: tubi (322.522 tonnellate), seguiti dalle materie prime (3,12 milioni di
tonnellate), dai piani (5,36 milioni di tonnellate) e dai lunghi (1,21 milioni
di tonnellate). Acquisti di semilavorati
a 1,69 milioni di tonnellate.
Per
ciò che concerne la tipologia di acciai importati: acciai al carbonio (6,49 milioni di
tonnellate) e di acciai inox (669.660 tonnellate), gli acciai speciali (1,05
milioni di tonnellate). Perché il tema è proprio quello dell’acciaio e dei suoi
comparti limitrofi.
L’acciaio
rimane il prodotto fondamentale per lo sviluppo industriale di un paese. Sarà
il caso ricordare che serve per le strutture che reggono le case, per gli
aerei, le automobili, i grandi impianti industriali e dell’energia. Quello
dell’acciaio è il settore al centro dello scontro sulla guerra globale dei dazi
innestata dalla presidenza Trump. In Italia il settore vale diverse decine di
migliaia di posti di lavoro in una situazione complessiva nella quale sono
presenti le più importanti emergenze ambientali, si verificano quotidianamente
incidenti sul lavoro (che richiamo alla necessità della modernizzazione degli
impianti e quindi all’esigenza di investimenti, come del resto il rapporto con
l’ambiente), mentre i lavoratori in molte situazioni stanno con il fiato
sospeso per via del declino degli ammortizzatori sociali.
Lavoratori
che ci auguriamo qualcuno non pensi di spedire a casa per poi disporre di una
massa di assistiti costretti alla riconoscenza verso le elemosine della
politica e quindi votanti obbligati per conservare la sopravvivenza: altro che
clientelismo DC! Il governo Lega-M5S dovrà quindi decidere se onorare l’accordo
siglato dal precedente governo PD sull’Ilva di Taranto, oppure se dar seguito
agli intenti elettoralistici di indefinita riconversione se non addirittura di
chiusura.
È
il caso di ricordare che da quella dello Stabilimento di Taranto dipenda anche
la produzione di Genova e Novi . Intanto sale la preoccupazione a Piombino
perché sta procedendo a rilento la definizione dell’accordo di programma tra
gli indiani di Jindal e il governo italiano: sono già stati rinviati diversi
incontri.
Egualmente
in fase di stallo la situazione dell’ex-Alcoa di Portovesme: il nuovo
proprietario svizzero Sider Alloys dovrebbe far ripartire la fabbrica
nell’aprile prossimo, ma a dicembre scadono gli ammortizzatori sociali e tutto
appare quanto mai incerto, tanto più che il carrozzone Invitalia (quello della
piò o meno fantomatica area di crisi industriale complessa a Savona) appare
defilato.
Crisi
anche per la Kme, settore rame proprietà tedesca, stabilimenti in Toscana con
150 esuberi su 1.000 dipendenti. Ancora Terni, il gioiello degli acciai
speciali che la Thyssen ha messo in vendita (si annuncia, tra l’altro, che
Krupp si fonde con l’indiana Tata e lascia l’acciaio per l’hi-tech), ma gli
acquirenti latitano e corrono voci addirittura di smembramento della fabbrica.
Sorgono, infine, problemi nel rapporto ambiente-lavoro anche a Trieste al
riguardo della Ferriera di Servola (gruppo Arvedi) per la quale la Regione
annuncia l’apertura di un dossier. Siamo di fronte, in settori decisivi della
prospettiva di sviluppo, a una vera e propria latitanza di iniziativa strategica
(nelle nebbie anche la famosa industria 4.0 propugnata dall’ex ministro
Calenda) anche da parte della stessa iniziativa sindacale che appare
costantemente sulla difensiva.
In
questo senso appaiono come centrali e assolutamente prioritarie le drammatiche
vicende legate al progressivo processo di ulteriore de-industrializzazione in
atto nel nostro Paese che chiamano a una riflessione attorno alla possibilità
di avanzamento di una proposta di politica economica tale da rappresentare
un’alternativa, aggregare soggetti, fornire respiro a un’iniziativa “di
periodo”.
Il
concetto di fondo che dovrebbe essere raccolto e rilanciato è, ancora una
volta, quello della gestione e della programmazione economica pubblica,
combattendo a fondo l'idea che si tratti di uno strumento superato, buono
soltanto, al massimo, a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Però
siamo bombardati dai messaggi pubblicitari e propagandistici sui temi più
diversi che si pensa possano rendere voti, e non pare proprio che ci si accorga
di questo drammatico stato di cose. Uno stato di cose che non vale, è il caso
di ripeterlo ancora una volta, soltanto per la sorte (importantissima) di
decine di migliaia di posti di lavoro ma per il futuro stesso di un Paese di 60
milioni abitanti all’interno di un quadro internazionale in piena evoluzione.
Non ci possiamo permettere di abdicare totalmente dall’industria, nei suoi
settori portanti e strategici e ridurci sotto questo aspetto alla totale
marginalità come, invece, si sta progressivamente verificando ormai da tanto
tempo.
Per
quel che riguarda il Governo, non credo propria possa essere possibile aver
richiesto la titolarità del Ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico
assieme, soltanto per varare il fantomatico reddito di cittadinanza. Se fosse
così non sarebbe soltanto illusorio, ma colpevole: un atto di vera e propria
funesta disonestà intellettuale.