Terrorismo e
legalità
di Patrizia Cecconi
Abituati a leggere di sequestri di persona
realizzati da squadre paramilitari in regimi totalitari generalmente fascisti,
desta un certo stupore scoprire che anche un paese, abitualmente definito democratico,
usa le stesse tecniche per trarre in
arresto i suoi oppositori politici.
Il
paese in questione è Israele e ormai da molti anni, grazie a una benevolenza
mediatica che si affianca a quella di un buon numero di istituzioni statuali,
il suo agire ci ha reso chiara l’idea che il termine “democratico” si è
svuotato di tutti quei valori che ne erano il necessario supporto. Basti
pensare all’accettazione degli omicidi mirati, derubricati da reato dei
peggiori ad azione in qualche modo legalizzata. Basti ancora pensare alle
azioni di pirateria marina che vengono spacciate per sicurezza da media
conniventi e via dicendo. L’uso di militari in abiti civili per reprimere
rivolte o per prevenirle con un notevole uso di violenza non è nuovo ad
Israele, tuttavia non è mai stato sufficiente a cambiare, da democratico a
canaglia, l’appellativo che si accompagna al suo nome. Tutto questo avviene in
quanto l’abile confezionamento delle notizie si serve di un termine in sé
sicuramente giusto: legalità. Infatti, seguendo la grammatica, legalità viene
da legale e legale viene da legge. Erano quindi legali, seguendo questa logica
grammaticale, le leggi razziali del 1937 e del 1938 in Italia così come lo sono
molte leggi emanate dal parlamento israeliano, anche se confliggono con la
legittimità e col diritto internazionale.
Per
estensione viene considerato anche pressoché legale, in quanto non sanzionato
seppur passibile di sanzione, il comportamento di soldati e coloni direttamente
ispirato a esternazioni, quando non veri
e propri inviti lanciati da ministri e parlamentari, che, visti con la lente
della democrazia, possono essere considerati soltanto veri e propri reati.
Anche da voci religiose, come il rabbino Shmuel Elyahu vengono aberranti inviti
a commettere reati addirittura genocidari senza che ciò scomodi le coscienze
mediatiche così sensibili nei casi di vaghe ombre di vero a falso
antisemitismo. Il rabbino Elyahu ha dichiarato pubblicamente che è non solo
opportuno ma addirittura doveroso uccidere i palestinesi e che se questi
fossero stati tutti uccisi non ci sarebbero stati gli aquiloni incendiari.
Nessuno si sconvolge a dichiarazioni simili e, soprattutto, nessuno pone
l’accento sul perché degli aquiloni: la richiesta di rompere l’assedio illegale
e la contemporanea richiesta di applicare la Risoluzione ONU 194 calpestata, al
pari di tutte le altre, da Israele.
Tutto questo, ripetutosi nel corso dei decenni e amplificatosi negli
ultimi anni, sta portando a vera e propria marcescenza il concetto di
democrazia e, al tempo stesso, nasconde azioni di stampo dittatoriale o
terroristico dietro i due termini magici
di “sicurezza” e “legalità”.
È di ieri la notizia,
pubblicata sul quotidiano palestinese “Al Quds”, del sequestro di un
giovane di 22 anni durante il suo lavoro
di cameriere, da parte di una squadra di uomini in borghese fintisi clienti del
ristorante. Motivo del sequestro? L’appartenenza del giovane al Fronte
Popolare, partico di sinistra palestinese. Israele arresta regolarmente senza
un vero capo d’accusa, ma normalmente lo fa con grande dispiegamento di
militari in divisa. Questa volta, invece, lo ha fatto utilizzando le tecniche
proprie del terrorismo di Stato diffuse in ogni meridiano dall’America Latina
all’Asia, all’Africa.
Sappiamo
che non è il primo caso e purtroppo non sarà l’ultimo, almeno finché Israele
seguiterà a godere della copertura mediatica dei suoi valletti e della copertura politica dei suoi alleati,
padrini e complici.
Il
fatto in questione è avvenuto in un ristorante di Beit Jala, cittadina a
prevalenza cristiana già famosa per la lunga lotta contro il muro che avrebbe
separato gli oliveti e i vigneti della collina Cremisan in cui giovani
professionisti palestinesi portano avanti l’antica cantina dei salesiani
italiani, producendo da vitigni autoctoni
vini che stanno diventando famosi nel mondo. Il giovane stava lavorando
in uno dei tanti ristoranti di Beit Jala quando si è visto aggredire da un
gruppo di uomini armati e quindi
trascinare in un’auto con targa palestinese senza che gli altri ospiti del
ristorante potessero intervenire. Lì, nelle auto apparentemente palestinesi,
c’erano i soldati in divisa pronti a riportarlo nelle prigioni israeliane dove
il giovane, proveniente dal campo profughi di Dheisheh (Betlemme), ha già passato sei anni della sua vita, cioè oltre
un terzo e la sua accusa è soltanto quella di far parte di un partito politico
di sinistra che, legittimamente, si oppone all’occupazione. Un arresto tra i
tanti in Palestina non fa più notizia, non fa notizia neanche il quotidiano
stillicidio di vite umane, figuriamoci un arresto, per quanto arbitrario! Ma
ciò che crea allarme in chi ha ancora a cuore la democrazia, è la modalità di
azione che, come altre pratiche israeliane, sta abituando il mondo ad accettare
l’inaccettabile, in primis normalizzando l’occupazione militare e, di
conseguenza, ogni pratica repressiva dichiarata legale anche se confligge sia
con la legge morale, ma questa è un’altra storia, sia col Diritto
internazionale, e questo invece ci riguarda tutti.