di Patrizia Cecconi
Tre piccole storie,
piccole in quanto brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre
settant’anni. Più lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel
Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed
E., non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir,
che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e che, come loro,
è stato ferito dagli snipers israeliani nel concentramento di Abu Safia, al
nord della Striscia, durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno.
Incontrati
per caso nell’ospedale Al Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il
punto della situazione in attesa della marcia di domani con la quale i
palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e
dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa attraverso
lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero
dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo
duro” di notevole tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non
avranno raggiunto il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane
Basel, ferito ben tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci
conferma il contadino Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i
cui più grandi, ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria,
una in lingue, una in scienze mediatiche e così via.
Mohammed
lo incontriamo sulla porta dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle
stampelle, ci lascia il passo invitandoci ad entrare prima di lui. È così che
cominciamo a parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno
della Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava
il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al
border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia di
palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera mattanza,
Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è presto, ancora
seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque sostenuto da
importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.
Quel
giorno Mohammed fu colpito a entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si
trovasse sotto la rete e la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero
ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”. Lui è un
rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori, cacciati dal loro
villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70 anni fa. Nonostante la
condizione difficile, anche Mohammed, come la maggior parte dei gazawi, è
riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un semplice allevatore di
polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato che fa supporre si
tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole che l’assedio
finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come
loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non riesce a
camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe
la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la
Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai
cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione ed
è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità
indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia
di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si
pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere
morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.
Lasciato
Mohammed alle cure mediche con tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un
uomo giovane, magrissimo e con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella
per aiutarsi a camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche
domanda. E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino
all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei soccorsi
quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto vicino ed
offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di grande solidarietà cui
abbiamo assistito personalmente in più occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere
anche il luogo più sicuro, questo ovviamente se si rispettano le norme del
diritto internazionale, e invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio
contro il personale e i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno
colpito. Khaled ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente
pacifica, che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui
lui era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete di
separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi, essendo
disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e
voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci
ripete, hanno sparato contro i soccorritori.
Parlando
della sua vita privata, Khaled ci dice che ha due bambini e che vorrebbe
vederli crescere fuori da questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la
libertà la sognano per averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto
anche il suo sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta
alla situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al
Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha
lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il
muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il
contadino. In questo modo riesce a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i
suoi sogni si trasferiscono sui suoi figli.
Non
è pentito di essere andato al border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora
ha una doppia ferita: quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella
nell’animo perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito
gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei
soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la Croce
Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre vecchie ferite ed
è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri
diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.” Khaled non potrà
riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la Striscia di Gaza
libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto affermato nella
Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo ha in cura e
non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un
giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si
tratta Basel Ayoub, 18 anni.
Basel
è stato ferito ad Abu Safia, anche lui come Mohammad e Khaled, è per questo che
sono tutti nell’ospedale Al Awda, perché i feriti vengono portati negli
ospedali più vicini al campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui
all’Al Awda hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già
organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova
mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba è
questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che scarseggiano
sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del settore emergenza che
siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro settore dell’ospedale.
Tornando
a Basel la sua storia ha dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare
ed è un po’ scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei
auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è
più. Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono
rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove
vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo
tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che
si ha in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno
cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce
l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i
palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.
Vive
a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde suo padre e a questo punto Basel
inizia a parlare. La sua storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge
non ci crederà. I medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola
che ha colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che
è uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo
dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di balistica
potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con Basel visto che
ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito la scuola superiore ma
non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli e tutti vanno al border a
prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!
Ma
la storia di Basel è una sorta di allegoria della storia di questo popolo.
L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà
ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui
era uno dei ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri
col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i
caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino ai
cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e Basel è uno
dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che rischiano correndo a
portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali proiettili dei killers
appostati oltre la rete.
Abbiamo
detto che la storia di questo ragazzo è una sorta di allegoria di questo
popolo, ma non lo è per questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal
giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al ginocchio
destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile
si trovava di nuovo a manifestare quando un cecchino gli ha sparato alla
spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre correva per tornare verso il campo
dopo aver lanciato il caucciù il cui fumo forse lo ha protetto. Infatti il
cecchino che lo ha colpito, alle spalle è bene puntualizzare, probabilmente ha
sbagliato la mira di qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha
seguitato ad andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma,
ritiene essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un
po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade,
conta rialzarsi e resistere.
In
ogni famiglia palestinese c’è almeno un martire, e quel che Israele non ha
ancora capito, noi seguitiamo a ripeterlo sapendo che la nostra voce non è
tanto forte da raggiungere Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si
dimentichi, è il fatto che i martiri non nutrono la rassegnazione alla
sconfitta, ma nutrono la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra
dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha
ucciso alcuni giorni fa, era suo cugino
e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior convinzione che
resistere sia un dovere.
Il
padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche lui viene
alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso un solo venerdì.
Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che vogliamo vivere e che
abbiamo il diritto di vivere liberi”.
Facciamo
tanti auguri a Basel e a suo padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima
coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da
guida e da interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori. Tutto questo
succedeva ieri. Ora, dopo aver sbobinato le interviste ed aver finito di
scrivere queste righe, sento il Muezzin che chiama alla preghiera. È la
preghiera di mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.
Israele
oggi ha minacciato ancor più violenza in risposta al lancio degli aquiloni con
la codina in fiamme. Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa,
anche prima degli aquiloni. Israele pratica violenza e trova voci mediatiche
pronte a giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi
lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la
verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come
Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le
braccia. Intanto tra poco si partirà per i vari punti del confine, laddove si
va per affermare quel diritto alla libertà che Israele non riesce a conculcare
neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa contro gli uomini e
contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche oggi seguiteranno a
volare.