di Federico Migliorati
Carlo Cassola |
Quando
capitai a Grosseto, diversi anni fa, ebbi la netta sensazione di una città già
conosciuta, presente in qualche recondito cassetto della memoria: forse erano
le Mura che la rendevano così simile, almeno a prima vista, alle mie amate
Lucca e Ferrara in cui tornavo spesso e sovente? O era l’aria dimessa che
permeava l’atmosfera di una discreta eleganza, tipica di quelle città ai
margini del consueto flusso del turismo tradizionale? Sta di fatto che, posto
piede per la prima volta, e come sempre accade nelle mie vacanze culturali in
solitaria, cercai subito di assaporarne gli umori, approfondirne i dettagli,
usare insomma gli occhi, non quale turista comune, bensì come viaggiatore, se a
questo termine diamo il valore caro a Proust. Tra una passeggiata e l’altra
passai un paio d’ore a discettare, con alcuni grossetani che avevo conosciuto,
di Luciano Bianciardi e della sua geniale idea del bibliobus, che nella
Grosseto degli anni Cinquanta rappresentò un’esperienza pionieristica in
Italia. Quei pochi giorni che mi ero scelto per uno stacco dalla routine
quotidiana di giornalista di provincia, tra comunicati stampa da diramare a
getto continuo ed eventi di grande, media e talvolta nulla importanza da
seguire, mi fecero decisamente bene. Sì, la città aveva riscosso il mio
gradimento, avrei certamente dovuto tornarci per un’ulteriore visita, mi dissi.
Qualche tempo ebbi modo di leggere un saggio-biografia su Carlo Cassola, che da
tempo mi proponevo di “avvicinare” per quella letteratura subliminare che tanto
mi affascinava e che lui, assieme a Manlio Cancogni, aveva contribuito a
portare all’attenzione della critica e del pubblico. Quel testo, che si nutriva
di un italiano forbito e privo di sbavature, catturava immediatamente la
lettura e trasferiva pienamente il vissuto dello scrittore al lettore…
Le mura di Grosseto |
Lo vidi all’improvviso incamminarsi a capo chino (com'era sua
usanza tra i corridoi del liceo, raccontano ancora oggi certi suoi studenti
d'allora) in direzione delle Mura, le Mura volute dai Medici, gemme possenti e
salde sulle loro fondamenta cinquecentesche che “proteggono” la città da
pericoli ormai inesistenti. Si sedette su una panchina, una delle tante che si
rinvengono lungo i 5 chilometri del percorso tutt'attorno al cuore della città.
Tra le mani, aperto sulle gambe, un libro che egli sfogliava rapidamente e di
cui riuscivo ad intravedere il titolo in copertina: “La ragazza di Bube”. Era timido, lo si notava anche a distanza: una
timidezza innata, certo (oh, quanto conoscevo tutto ciò, in fondo ero stato
anch’io tremendamente timido in adolescenza), connotata da una gentilezza fuori
moda ormai, da un sussiego mai disgiunto da una franchezza di carattere che lo
rendeva sincero e diretto, così almeno recitavano le cronache del tempo. Quando
si alzò, lo seguii a distanza: sono sempre stato curioso di vedere i gesti
semplici di personaggi noti. Avanzava verso il bastione Sud, per poi con una
certa agilità (era ancora nel fiore degli anni) scendere la scalinata che, poco
distante, l’avrebbe condotto, seguendo le Mura, alla Porta Vecchia. Accelerò il
passo, quasi come se avesse una fretta improvvisa o si sentisse davvero seguito
(in quell’ora del vespero le strade iniziavano a farsi trafficate di mezzi e di
persone). Quindi piegò a sinistra non appena ebbe impegnata l’imponente piazza
Dante che recava al centro la statua soverchiante del Canapone. Davanti ad una
boutique fui fermato da alcune signore (venete, si sarebbe detto dal marcato
accento che ne contraddistingueva la parlata) che mi chiesero informazioni su
un tal ristorante che volevano raggiungere. Tanto bastò per perderne le tracce.
Feci appena in tempo a ripercorrere mentalmente i suoi passi: ero certo si
fosse fermato da qualche parte, in piazza Dante, entrando in qualche abitazione
o in un bar, chissà. Del resto non era venuto ad abitare qui in zona, ormai da
anni, dopo la morte della prima amatissima moglie? Mi misi a percorrere in
lungo e in largo l’ampia e irregolare piazza, sotto i portici, poi, giunto a
metà degli stessi, nella parte opposta al Duomo, lo stupore si impossessò del
mio animo. Su una targa in marmo, proprio sopra il numero civico 11, una
scritta recitava “In questo palazzo abitò Carlo Cassola”. Un senso di
scoramento si fece largo in me, quasi una frustata interiore: avevo sognato
forse? Oppure mi ero talmente immedesimato in uno dei personaggi da diventare
l’ombra di sé stesso? Ripreso lo zaino, lo apersi cercandovi un bloc-notes per
imprimervi le impressioni di quel momento. Vi notai, in una delle pagine ancora
bianche, una firma strana, nuova, che non ricordavo ci fosse mai stata:
l’autografo di C.C., con una dedica: “A F., perché sia sempre attento al
rumore continuo della vita”. La grafia era minuta, stretta, quasi
nervosa. Dove poteva avere mai rintracciato quel mio taccuino? E come poteva
conoscermi? Mi sedetti, sfiancato da questo turbinio di sensazioni da cui
faticai a riemergere con la mente serena. La città, improvvisamente, diventò
frenetica ed un fiume di gente si riversò nella piazza, come richiamata da un
evento fuori dall’ordinario. Tutti mi osservarono: c’era chi si prodigava
porgendo aiuto, chi si domandava cosa mai mi avesse causato questa spiacevole
situazione, altri ancora ridevano sguaiatamente come davanti a un episodio
buffonesco. Era un trambusto rumoroso, troppo rumoroso.
Grosetto, Ottobre 2017 Da sinistra Federico Migliorati al centro Angelo Gaccione a destra Graziano Mantiloni davanti alla casa dove visse Carlo Cassola |
Quando mi svegliai, di soprassalto, gli occhi cercarono la luce
del sole che penetrava a fatica dalle massicce persiane verdi. Mi ci volle
qualche manciata di secondi per comprendere appieno il contesto in cui mi trovavo:
ero nella mia camera, da cui non mi ero mai allontanato, e il silenzio
imperava. Accanto a me, sul comodino, alcuni libri, tra cui spiccava il
saggio-biografia posizionato malamente ai piedi della lampada, fermo al
capitolo “Grosseto: l’addio all’insegnamento e l’impegno totale per la
scrittura”. Quell’avvenimento non restò privo di conseguenze, non poteva essere
capitato casualmente, ci doveva essere una spiegazione, mi dissi. Tutte le
estati successive a quella le trascorsi in Maremma, ma non mi capitò più di
incontrare lo scrittore. O forse sì, ma questa è un’altra storia.