A destra il filosofo Fulvio Papi Foto: Fabiano Braccini (Milano, 7 luglio 2014) |
Non capita di frequente, anzi è alquanto raro di
questi tempi, che qualcuno si prenda la briga di leggere e rileggere più volte
il libro di un autore e di annotarlo, commentarlo, soffermarsi su ogni verso, e
addirittura su ogni singola parola, con la curiosità di carpirne non solo il
significato più profondo, la radice, ma di assaporarne il suono, l’eco dei suoi
molteplici rimandi, le contaminazioni. Perché qui si tratta di un testo in
versi, ma di versi scritti in lingua dialettale, in lingua mater, come è detto nel titolo, nella mia lingua mater calabrese, e dunque poco invitante o di non facile
accesso, ed il lettore non è per nulla originario di quella terra, tutt’altro.
Il lettore in questione è fondamentalmente un filosofo, anche se di interessi
molteplici, e alla letteratura e ai suoi protagonisti ha dedicato non pochi
preziosi studi. Sto parlando di Fulvio Papi, forse il più anziano dei nostri
filosofi, e di sicuro il più lucido e acuto. Questa che segue è solo una delle
sue minuziose letture critiche inviatemi, ed era doveroso per me pubblicarla,
anche per dare conto di uno stile e di una civiltà intellettuale, in gran parte
scomparsi.
[Angelo Gaccione]
[Angelo Gaccione]
UNA LETTERA DI FULVIO PAPI SU LINGUA MATER
La copertina del libro Macabor Edizioni |
Carissimo Angelo,
ho riletto le tue poesie. Tutte le tue osservazioni che fai
nella “ouverture” le conosco bene, l’orale è ancora più difficile dello scritto
che ha un codice di superficie che, per esempio, a una lettura non difficile,
si può tradurre bene. La poesia orale è soggetta alle mutazioni dell’orale che
non è riducibile a un dizionario. L’orale ha una sua consistenza, ma anche una
sua contingenza, proprio perché è un “flatus vocis”. Per esempio: in triestino
posso dire: “ma va là mona”. E “mona” vuol dire “illuso”; ma se dico “te xe un
mona”, mona in milanese viene bene con “pirla”. Eppure il significato (alla
Sansoni) è lo stesso.
La lingua nella quale scrivi le poesie non ha scrittura e
quindi non ha regole codificate che derivano dalla tradizione e dalla
contemporaneità e che, nell’astrazione, definiscono il significato. Ma, com’è
ovvio, una lingua non è mai chiusa, come non sono chiusi i significati. Una
lingua orale ha processi simili ma con un ritmo temporale diverso, a meno che
da altre influenze linguistiche non venga sollecitata. Lo scritto in una prosa
non poetica può essere sbagliato poiché ha conformità. L’orale non sbaglia mai
perché il suo controllo è sociale, sta nello scambio. La tua poesia ovviamente
non sbaglia mai, non può sbagliare e tuttavia, sebbene abbia la sua verità
nello scambio delle forme di esistenza dominanti, è pur tuttavia soggetta a una
memoria.
Tu scrivi in un sapere linguistico che ha una memoria, supponi
(per lo più giustamente) che il destinatario della tua lingua, comprenda. E
pure è un tesoro linguistico che appartiene alla tua storia: basta che fai la
prova con eventuali somiglianze di significato. Se questa “realtà” della lingua
di partenza è sempre difficile, in teoria bisognerebbe tentare la simulazione
della lingua di partenza, ma questo è impossibile. Non ci sono vite uguali e
nemmeno lingue. Bisogna ricorrere alla lingua d’arrivo così codificata e
lavorarla sulle possibilità di significato che si avvicinino all’originale. La
lingua di puro “servizio comunicativo” perde necessariamente la poesia, questa
è la ragione per cui Quasimodo e molti altri sostengono che la traduzione di
una poesia è un’altra poesia.
Nel caso tuo (rispetto ai lirici greci di Quasimodo) c’è il
vantaggio che prevede la direzione gnomica e quindi è più facile trovare il
livello di transito linguistico. In ogni caso bisogna diffidare rispetto a
quello che “viene in mente” che è sempre facile e riduttivo. E volta per volta,
studiando lo spessore significante della partenza e quello possibile
dell’arrivo, cercare la soluzione più idonea, non dimenticando nemmeno
l’effetto sonoro che fa parte della trasmissione del significato poetico.
È con
tutte queste certezze che ho letto le tue poesie, per di più con l’ostacolo che
metti innanzi a tutte queste osservazioni, quando dici: ho scelto un linguaggio
“alla Gaccione”. Va bene, eppure una parola ha una sacralità: “se io dico che
due ministri sono dei volgari imbecilli”, devo suppore che chi ascolta ne tenga
conto. La parola è costretta ad illuminare, “alla Gaccione” è la selezione
poetica che viene a galla nel contesto poetico, al di là di ogni codice orale
dialettale.
Fulvio
Papi