di Franco Astengo
Sulle colonne di “la Repubblica”
ci si interroga in questo modo (articolo di Roberto Cotroneo): “Mai come ora scrittori e studiosi sono delle
celebrità, tra social network e festival di vario tipo. Eppure, sul piano della
riflessione forte sull’oggi,il loro silenzio è assordante. E questo è uno degli
effetti della crisi della politica”.
Verrebbe
voglia di rispondere tirando fuori l’argomento che la crisi della politica
deriva dal deficit di organizzazione inteso quale diretta conseguenza della
trasformazione dei partiti. Quindi sarebbe naturale, come del resto fa in
conclusione l’autore dell’articolo, di tirar fuori il discorso gramsciano sull’intellettuale organico: “l’idea di un’intellettualità diffusa, un intellettuale di tipo
nuovo non separato per mestiere e appartenenza di classe dal resto della
società, ma proveniente da questa e legato alla
classe lavoratrice dal compito di costruire attivamente la sua emancipazione. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1550-1551”.
Le cose però stanno in maniera diversa
e le ragioni dello stato di cose denunciato opportunamente da Cotroneo affondano
nella profondità quasi imperscrutabile di una drammatica crisi di civiltà. È andata perduta un’idea di progresso, di
“magnifiche sorti e progressive”. Quelle “magnifiche sorti e progressive” sulle quali
poggiava l’idea di un naturale sviluppo storico dei rapporti umani.
L’innalzamento dei nuovi muri ha fatto sfuggire al
senso comune una idea di progresso che non può essere scambiata con
l’innovazione tecnologica, anche la più scientificamente avanzata e
sofisticata. Non basta e non basterà l’intelligenza artificiale. La risposta
alla crisi dell’idea di progresso è stata dunque quella arretrata del rilancio
del concetto di territorialità, di legame dell’uomo alla terra, di definizione
dell’avanzata tecnico-industriale come causa livellatrice delle differenze
culturali e storiche tra i popoli.
I punti cioè che ben possiamo definire come di
arretramento “storico”. Un “arretramento storico” al livello di sviluppo
del pensiero umano che oggi sembra prevalente nelle espressioni culturali e
politiche.
Come si recupera, allora, quell’idea di progresso che
ci ha accompagnato per almeno due secoli, nell’edificazione della modernità nel
ruolo dello Stato e delle relazioni politiche e civili e sociali? Certamente non rilanciando tout court una ipotesi
indefinita di positivismo. In sostanza deve cambiare il nostro mestiere di
interpreti possibili della necessità della polis: quella, cioè, che con
linguaggio filosofico si definirebbe “del dover essere della politica”. Il
“dover essere della politica” viene meno nel momento in cui gli intellettuali
si adeguano al messaggio corrente, non scavano più nel profondo della ricerca,
si alienano alla verità e la nascondono nel loro peregrinare esibizionista e
servile verso il potere. L’ultimo decennio del secolo scorso è stato contrassegnato
dall’acquiescenza al concetto di “fine della storia”, di assuefazione al
colossale fraintendimento che la fine dell’era della contrapposizione sistemica
coincidesse con l’apertura di mercati senza fine e che a quella logica fosse
giocoforza adeguarsi. Si è poi visto che non era così ma non si è tentata
la via di espressione di un pensiero critico rispetto a ciò che stava
accadendo.
La via della ricostruzione dovrà essere portata
avanti in maniera molto più profonda di quella indicata nel semplice recupero
della dialettica: servirà fornire ragioni alla critica e al conflitto.
La
dialettica può essere impostata confrontando diverse visioni del futuro
dell’umanità: ma è proprio questa visione del futuro che è assente
dall’orizzonte del pensiero mainstream e sembrano proprio tortuose le strade da
percorrere per tentarne una ricostruzione utilizzabile anche dalla politica.