di Maddalena Capalbi
Maddalena Capalbi |
Ho iniziato anni fa a
scrivere poesia in dialetto romanesco perché sono romana anche se da molti anni
vivo a Milano. Ho pubblicato una
prima raccolta Arivojo tutto
(LietoColle), poi qua è là poesie sparse e, recentemente Ribbelle (Edizioni Il Verri). Perché dopo aver scritto poesie in
lingua ho scelto questa strada? Perché il romanesco mi piace. Mi piacciono la
musicalità, le immagini colorite che si trovano in molte espressioni, le
metafore e addirittura le parolacce e le invettive. Scrivere in dialetto però è stata anche una sfida: la ricerca di
un’altra lingua rispetto all’italiano per esprimere sentimenti, emozioni, gioie
e dolori.
Non
mi definisco, quindi, come poetessa dialettale perché mi sembrerebbe di rinchiudermi in un recinto: scrivo poesie
anche in questa lingua.
Spesso
si dice che il dialetto è la lingua della madre. È ovvio che chi decide di adottarlo
sceglie quello della sua città ma credo sia necessario andare oltre questa
semplificazione. Io ho scelto questa strada perché ho tentato la ricerca di un
linguaggio alternativo all’italiano, che sia in grado di arricchire la poesia
con colori, emozioni, suoni, e passionalità.
Se
nei poeti dialettali classici, dal Belli al Trilussa, dal Porta al Tessa, le
poesie, spesso nella forma del sonetto, sono di genere comico e satirico e di
tono popolare, io ho scelto un’altra strada, la stessa che percorre da anni
un’altra poetessa, Franca Grisoni, che scrive in dialetto bresciano.
I
temi che tratto nelle poesie in italiano sono per lo più legati alla condizione
della donna nella società. Per certi versi mi sento di dire che la mia può
essere identificata come poesia civile laddove denuncio la violenza sulle
donne, il perbenismo della famiglia tradizionale, il bigottismo della società,
l’invadenza della religione. Questi temi sono tutti ripresi nelle poesie in
romanesco. La mia, quindi, non può essere considerata una poesia dialettale
popolare nel senso che non riprendo neppure il modo di parlare delle borgate, impoverito da un pessimo italiano. Cerco
attraverso uno studio meticoloso del romanesco di aggiornarlo quando è
possibile ai giorni nostri. Non mi sono rifugiata nel ‘classico’ ma neppure ho
scelto la strada intrapresa, per esempio, da Pier Paolo Pasolini che nella
traduzione del Miles gloriosus di
Plauto, diventato il Vantone, così
come in molti suoi film, adottò la lingua parlata nella desolata periferia
romana: un dialetto imbastardito da una lingua italiana poverissima.
Nell’ultimo
libro, Ribbelle, ho tradotto alcuni
canti della Divina Commedia
rispettando l’endecasillabo e la rima alternata. Ho cioè fatto ciò che avrebbe
fatto un traduttore inglese, francese, tedesco o di un’altra lingua.
Sarebbe
impensabile immaginare un romanzo scritto tutto in dialetto, solo la poesia
consente questa operazione perché le immagini, le metafore, le similitudini e i
modi di dire che offre sono così potenti e ricchi che la loro traduzione in
italiano li svilirebbe.
Nell’epoca
della globalizzazione e del trionfo della lingua inglese, non quella di
Shakesperare ma quella del businnes,
stiamo perdendo la ricchezza dell’italiano che grazie a molti scrittori, aveva
inglobato anche i coloriti cromosomi del dialetto. Il rischio è che si approdi
a una lingua di plastica alla quale è necessario ribellarsi. Non si tratta di
utilizzare il dialetto per l’affermazione dell’identità intesa come diversità,
operazione purtroppo portata avanti in questi ultimi decenni da qualche partito
politico. Si tratta di scrivere in dialetto come lingua alta, capace di
suscitare emozioni e nello stesso tempo per salvare quelle culture locali che
tutte insieme contribuiscono a formare un Paese unito e unico per il suo
policentrismo e pluri-mistilinguismo.
***
Vita
mia
L’occhi belli dicheno
- famose male dai! -
aripijamo a magnà tanto da
stremì lo stommico,
vita mia sta bono, intignete su
l’argomento
guardate intorno
er Pincio, Villa Borghese, li ponti
der Tevere pareno strasecolà
e se incajano a la bocca rosa
vita mia me stai a magnà er core.
Maddalena Capalbi