di Angelo Gaccione
Ci sono luoghi e simboli che in alcuni
di noi si sono radicati, solidificati persino, come fossero creature vive più
vive di persone fisiche, di persone vive. E non importa neppure esserci stati
fisicamente in certi luoghi, averli visti di persona. Che cosa sia e da cosa
dipenda questo legame così forte, razionalmente non sappiamo spiegarlo. È
qualcosa che attiene ad un “impulso” (non trovo una parola adeguata e me ne
scuso) primordiale, ancestrale, sentimentale. Forse anche la trasmissione di
simboli e di luoghi - per averne letto, sentito parlare, viste le immagini in
un film - diventano parte della biologia. Oppure nei recessi più oscuri della
nostra mente esiste un ambito dove la memoria e l’immaginazione hanno fissato
da sempre degli archetipi, delle “idee innate” di civiltà e di bellezza la cui
corrispondenza con la realtà oggettiva, fuori di sé, diventa immediatamente
riconoscibile. Forse è tutto inscritto in un ritaglio del nostro Dna ed è del
tutto naturale questa riconoscibilità, questa empatia “sentimentale” con le
cose.
Mi rendo
conto che è un discorso difficile e per molti aspetti insostenibile. Ma da che
cosa nasceva in me la gioia immensa di sapere che ad Orvieto esisteva un Duomo
carico di meraviglie e di provarne felicità ed orgoglio per il mio Paese senza
avervi ancora messo piede? Avrebbe potuto capitare di non vederlo mai, come
alla maggioranza di noi capita di non vedere mai un luogo del vasto mondo o un
simbolo della civiltà umana. Eppure se avviene la loro distruzione per guerre,
attentati, terremoti o altre calamità naturali, noi ne siamo addolorati,
feriti; sentiamo nell’intimo che qualcosa di importante è morto anche in noi
per sempre. Ci sentiamo più fragili, più soli, più desolati. Quel luogo non è
più lo stesso e quella città meno ricca. Ci sentiamo umanamente vicini a quanti hanno subito quella perdita e comprendiamo tutto il loro dolore. Forse è questo che
definiamo senso di umanità. Si rimane annichiliti per il crollo della Casa
dello Studente a l’Aquila e la morte di tante giovani vite, come si rimane
annichiliti per la perdita dei tesori architettonici che quella città
custodiva. Quelle “pietre”, quei “mattoni”, non sono semplici pietre, non sono
solo mattoni.
L’incendio
che ha colpito la cattedrale di Notre Dame ha lasciato il mondo sgomento.
Finché ci sarà questa compartecipazione, questa com-passione, negli uomini e nelle donne, si può ancora sperare. Il
pianto mi ha serrato la gola mentre le fiamme cancellavano guglie e pennoni, e
devo confessare di non avere quasi chiuso occhio la notte dell’incendio. Una
grande rabbia nei confronti di quanti non avevano predisposto un sistema
antincendio adeguato, in tempi tanto ricchi di mezzi; una rabbia per la
consapevolezza della vulnerabilità cui il patrimonio mondiale è esposto. Mi
sentivo come paralizzato, e non mi sarebbe stato possibile esprimere in un solo
rigo tutta quella rabbia e tutta quella impotenza.
***
Ma ricordiamola
quella cattedrale e la sua piazza con dei versi di un’età giovanile, un’età
piena di sogni e di suggestioni letterarie, che ci faceva percorrere chilometri
per innamorarci di ciò che non erano, ai nostri occhi, solo pietre, ma “musica
pietrificata” come ha scritto Goethe.
Notre Dame
In questa piazza a festa
rullano i tamburi
sotto mani ascetiche
e corpi indifferenti esposti al sole
Poiché la vita fugge
ne catturano gli attimi per ubriacarsene
- La bevono a gran sorsi -
dice Annie citando Brecht
- Non ci sono pezzi di ricambio per gli uomini-
aggiunge citando un autore che non conosco.
Angelo
Gaccione
[Parigi, 1980]
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TRE IMMAGINI ELABORATE DAL PITTORE
GIUSEPPE DENTI
Notre Dame brucia