di Petronilla Pacetti
Giovanna la Pazza |
Le mille
metamorfosi, le molte primavere perdute
nei giardini del manicomio. (Alda Merini)
In Italia, la legge 180, ha abolito, il 13 maggio 1978, unica al mondo, gli ospedali psichiatrici, i “manicomi”, luoghi di orrore dove venivano sottratti alle persone, oltre la libertà, la propria dignità e ogni diritto fondamentale dell’essere umano.
“La follia è una condizione umana. In
noi è presente come la ragione, il problema è che una società per definirsi
civile dovrebbe accettare tanto la follia quanto la ragione, invece incarica
una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di
eliminarla. Il manicomio in questo caso ha la sua ragione d’essere” dice
Basaglia, per il quale la psichiatria serve alla società borghese per
giustificare i luoghi in cui rinchiudere i soggetti considerati non produttivi,
non “normalizzati” e quindi da allontanare dalla collettività; e dice anche che
la follia fa parte della natura umana, riguarda tutti. D'altronde qualcosa del
genere l'aveva scritto anche Shakespeare, ne “La
dodicesima notte”: “La follia, mio signore, come il
sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c'è luogo dove non risplenda”.
Veduta del manicomio di Aversa |
Chi scrive, negli anni Settanta e Ottanta, come molti altri giovani
professionisti, cercava nella propria
formazione soprattutto dei punti di riferimento per una assistenza (anche
psichiatrica) nuova, più umana, basata sulla relazione e non sulla sopraffazione
e l’esercizio di rapporti di potere che, Italia, verrà concretizzata proprio
dal lavoro rivoluzionario di Franco Basaglia legato ad un approccio
fenomenologico ed esistenzialistico e, in particolare, a quello del suo maestro
di pensiero, Jean Paul Sartre; altro punto di riferimento fu Frantz Fanon (a sua volta legato a Sartre), psichiatra e
antropologo della Martinica, attivista del movimento di lotta del
Terzo Mondo contro la colonizzazione. Con questi presupposti, in effetti,
Basaglia vedeva una correlazione fra il paziente psichiatrico e l'uomo vittima
del colonialismo, un’analogia tra il malato di mente e il colonizzato, entrambi
capri espiatori che vengono sopraffatti in un’ottica di dominio; ed è proprio nel territorio del “rifiuto
del dominio e dell’assimilazione negatrice delle identità culturali che
Basaglia incontra la filosofia di Jean-Paul Sartre e l’opera teorica dello
psichiatra afro martinichese Frantz Fanon, ideologo dei movimenti di
liberazione”, come dice Alain Goussot.
Franco Basaglia |
In questo modo Basaglia si allontana, nel suo pensiero e nella sua opera,
da un contesto esclusivamente psichiatrico ed entra in territori in cui la
riflessione è sociale, politica, psicologica, antropologica, sociologica,
filosofica. E possiamo dire anche, per le conseguenze operative e legislative che il
suo pensiero e il suo impegno hanno avuto, che Basaglia ha dato vita ad una
autentica, profonda e duratura “rivoluzione culturale” modificando il modo di
vedere la malattia mentale e tutte le forme di “devianza o diversità”, ma, “soprattutto,
si può affermare che abbia cambiato le pratiche educative e terapeutiche degli
operatori nel rapporto con il disagio psichico, l’handicap e tutte le forme di
disturbo psico-sociale partendo dall’idea che l’intervento di aiuto può essere
fondato solo su una reciprocità nello scambio comunicativo”, come
dice ancora Goussot. Basaglia, inoltre, si pone nei confronti della malattia mentale e
delle varie forme di “devianza”, con le stesse modalità dell’antropologia
culturale di Franz Boas, che criticò radicalmente il paradigma normativo del
metodo di osservazione dell’etnologia coloniale nel cui ambito l’osservazione
etnografica, ispirata dalle scienze naturali, classificava i popoli conquistati
sulla base di una linea evolutiva all’apice della quale si trovavano i bianchi
anglosassoni e/o europei.
Si osservava per definire e classificare l’altro non
per comprenderlo nei suoi tratti specifici; Boas, invece, ha introdotto il metodo
dell’osservazione partecipante (poi sistematizzato da Malinowski, non a caso
anche maestro di Bateson) dove l’etnologo, non più spettatore esterno ed
estraneo, ma implicato nella relazione con i popoli indigeni, investiga per
comprendere l’universo e il punto di vista dell’altro. E questo oggi è richiesto quotidianamente dall’esistenza
di una società complessa e multiculturale in cui è necessario superare le
visioni individualistiche e la frammentarietà delle singole prospettive per
rivolgersi ad un’ottica interculturale e interdisciplinare anche per
l’irrompere di persone e culture diverse nel mondo occidentale. Soprattutto da
quei paesi poveri (spesso impoveriti proprio dall’Occidente) che prima ci
apparivano tanto lontani e che oggi sono qui con noi e, con la loro sola
presenza, richiedono la nostra attenzione e il nostro impegno verso il
reciproco riconoscimento e lo sviluppo di relazioni costruttive e di nuove
identità sociali che permettano la creazione di territori condivisi e obiettivi
comuni, nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità e delle differenti
culture, la nostra diversità creativa, per usare la splendida
espressione dell’Unesco.