LIBRI E LIBRERIE (MA ANCHE EDITORIA)
di Vincenzo Guarracino
Vincenzo Guarracino |
È
una storia lunga, quella del mio rapporto con libri (e librerie) e affonda come
per molti della mia generazione negli anni del dopoguerra, dai magri Anni ’50
ai primi dei ’60 ed oltre, dacché dapprima timidamente poi con ardire via via
crescente si sbirciavano e poi compravano, perfino!, libri, fino a sognare, ma
senza confessarlo di farli addirittura in prima persona.
È così che ho scoperto la BUR e più avanti gli Oscar
Mondadori e la Collana Bompiani dei Classici Tascabili.
Comincio dalla BUR. Ne ho tanti, tantissimi, dei
volumetti della “grigia”. E non solo perché siamo quasi coetanei (io, in
verità, maggiore di un anno, ma tant’è…). Ci ho nutrito la mia infanzia e
adolescenza: dapprima, come avido lettore e poi perfino come “rivenditore”. Sì,
proprio così, perché al mio paese, Ceraso in provincia di Salerno, avevo messo
su una cartolibreria, appena uscito più di mezzo secolo fa, dal Liceo nel ’66
(un liceo all’ombra del “venerando e terribile” Parmenide), nell’illusione di
mantenermici, agli studi), ma i libri invece di venderli me li conservavo
gelosamente (ma del resto, quanti erano quelli che li avrebbero, lì e a
quell’epoca, comprati?), per leggermeli con inesausta curiosità in attesa delle
successive e puntuali uscite settimanali. Dicevo “come avido lettore”: dapprima
sull’impulso di insegnanti di rara ispirazione e lungimiranza (ne ricordo una
specialmente, Lina Ciorra, di dolcezza e sensibilità impareggiabile, mia
indimenticata Maestra in IV elementare) e soprattutto l’esempio di mio Padre,
che le sue serate vicino al fuoco se le trascorreva leggendo (romanzi, poesie)
e perfino scrivendo e la guida di “mentori” illuminati (mio cugino, Raffaele,
più grande di me di una decina d’anni e circonfuso dell’aureola del “gigante”
favoloso de I mari del sud di Lavorare stanca, e l’ “altro” Raffaele,
anche lui Lettieri, che mi era stato vicino in una fase molto delicata della
mia vita, facendomi conoscere Hemingway).
Davvero, per dirla con Petrarca, “non potevo saziarmi
di libri”.
C’era tutto nella mitica BUR, la Biblioteca Universale
Rizzoli, inventata nel ’49 da Luigi Rusca e diretta nella prima serie da Paolo
Lecaldano, prima di trovare nuova linfa perfino grafica con Evaldo Violo: opere
capitali antiche e moderne, “classici” di compassata compostezza contenutistica
e formale, ma anche opere di divulgazione e perfino di intrattenimento, “amene
letture” come si diceva una volta, il tutto proposto coraggiosamente in veste
sobria ed austera e a prezzi assolutamente alla portata anche di giovani con
pochi soldi in tasca ma tanta voglia di leggere, così come ero io all’epoca. È
in questo modo che ho conosciuto, tra gli altri, Robinson Crusoè di De
Foe, Il capitan Fracassa di Gautier, Il giro del mondo in ottanta
giorni di Verne, Kim di Kipling e soprattutto L’isola del tesoro di
Stevenson, che giusto mio cugino Raffaele mi aveva regalato - lo ricordo come
fosse ieri - a ridosso di un celebre sceneggiato televisivo della fine degli
anni ’50, diretto da Anton Giulio Maiano, punteggiato da una lugubre sigla, Quindici uomini sulla cassa del morto, che al solo ricordarla
mette ancora i brividi. E via via letture ben più impegnative e formative,
quelle che la scuola dell’epoca appena osava suggerire: penso a Shakespeare
(curiosamente, Guglielmo) di Re Lear e soprattutto di Macbeth,
quest’ultimo suggerito dalla lettura dei Promessi sposi, laddove nel
cap.IV si parla di Ludovico, diventato poi fra Cristoforo, il cui padre era
perseguitato dal ricordo del suo passato di mercante che gli compariva come
“come l’ombra di Banco a Macbeth”, e soprattutto libri come i Canti, i Pensieri
e le Operette morali di Leopardi, destinati ad accompagnarmi nel tempo
come autentico nutrimento della fantasia e del cuore, assieme a libri di
spiritualità come L’imitazione di Cristo, che facevano un bel contrasto
con titoli come Gli amori pastorali di Dafni e di Cloe di Longo Sofista,
i Carmi di Catullo (studiato, sì, a scuola ma in edizioni debitamente
purgate per rispetto alle caste orecchie delle giovani studentesse) e L’educazione
sentimentale di Flaubert, a testimonianza del delicato gioco di suggestioni
e tensioni su cui si muoveva un’inquieta adolescenza pre-sessantottesca, a
temperare la quale mio cugino mi consigliava la lettura del divertentissimo Tre uomini a zonzo di Jerome K. Jerome, che ancor oggi conservo e di tanto in tanto rileggo
a cinquanta e passa anni di distanza, così come conservo e rileggo le Memorie di un cacciatore di Ivan Turgheniev, che mio padre, un contadino d’altri tempi, che nelle lunghe sere
d’inverno amava leggere standosene vicino al fuoco.