di Alfonso Gianni
Alfonso Gianni con Rossana Rossanda e Luciana Castellina |
Il nuovo presidente di Confindustria va all’attacco
Le previsioni della vigilia
sono state pienamente confermate. L’elezione di Carlo Bonomi a presidente della
Confindustria è stato un plebiscito. Una sola scheda nulla contro 818 sì, con
una partecipazione al voto (per via telematica) pari ad oltre il 94% degli
aventi diritto. Diana Bracco, già presidente di Assolombarda, profonda
conoscitrice dell’ambiente confindustriale, formula un paragone significativo:
“Sessantacinque anni fa, esattamente il 12 febbraio del 1955, l’allora
presidente di Assolombarda, - come lo è stato Bonomi fino all’altro giorno -
Alighiero De Michelis, fu chiamato, con un consenso plebiscitario, alla
presidenza di Confindustria. L’elezione di Carlo Bonomi ha, dunque, un
precedente storico dal forte valore simbolico” (Il Sole 24Ore del 21 maggio).
Gli anni ’50, quelli di Valletta a capo della Fiat dopo
che l’epurazione decretata dal Cln per collaborazionismo era stata cancellata
nel 1946. Vittorio Valletta, l’uomo dei reparti confino, ma anche della
crescita impetuosa della Fiat. Quando, si diceva, le cose andavano bene nel paese
se andavano bene per la Fiat. È un richiamo storico che non lascia dubbi sulle
intenzioni della nuova leadership confindustriale. Se in campo intellettuale e
accademico si aprono spiragli e interrogativi attorno alla funzione sociale
dell’impresa e dunque anche del suo funzionamento interno, sulla plancia di
comando padronale l’obiettivo è riportare l’impresa in tutti i sensi al centro
della vita economica del paese e della società. A questo è funzionale lo
stucchevole lamento sulla presunta persistenza di una forte ostilità verso
l’impresa privata che avrebbe pervaso il paese e il governo stesso. Basta
leggersi l’ultimo mastodontico decreto per capire che non è così.
Carlo Bonomi |
Bonomi è esplicito nelle interviste di questi giorni. Lo
Stato serve ma che “sia arbitro e non giocatore, non deve essere gestore delle
imprese” (Il Sole 24Ore del 22 maggio),
non ancora soddisfatto del fatto che il ministro dello sviluppo economico
Patuanelli avesse già dichiarato che la presenza del pubblico nella
capitalizzazione di alcune imprese aveva una funzione crocerossina e non
preludeva a nessuna (testuale) “sovietizzazione”, mentre Gualtieri ribadiva che
lo Stato non si sarebbe occupato della governance
delle imprese.
Al contempo Bonomi vuole che il governo ascolti
Confindustria prima di assumere provvedimenti e fa l’esempio di come le cose
fossero andate male con i precedenti decreti “Cura Italia” e “Liquidità” proprio
perché erano stati varati “senza ascoltare prima le imprese”. Al contrario, ma
questo Bonomi non ha bisogno di particolari sottolineature, nel caso
dell’ultimo decreto “Rilancio” l’attenzione ai desideri delle imprese si è
abbondantemente realizzata. Tanto è vero che “lo Stato ha imboccato quella che
sin dall’inizio era la via più rapida e naturale per sostenere impresa e
lavoro: non prorogare i pagamenti ma abbuonare le tasse, come avverrà per
l’Irap” (Il Sole 24Ore del 21
maggio). L’abbuono definitivo della rata di giugno dell’Irap è dunque solo un
assaggio di ciò che la Confindustria pretenderà, ovvero la cancellazione tout court dell’imposta con cui le
regioni pagano la sanità, all’interno di una riforma fiscale che riduca il
livello complessivo delle tasse sulle imprese. Malgrado le smentite della
storia il pezzo forte della vulgata liberista, ovvero il taglio delle tasse
alle imprese, torna in auge. Per Bonomi non importa che il fisco sia uno
strumento per accorciare le diseguaglianze sociali, al contrario deve essere
“leva di crescita, non ostacolo al suo procedere”. E siccome è l’impresa che
crea lavoro e ricchezza e non lo Stato - come aveva detto nei giorni scorsi -
bisogna toglierle d’attorno i famosi e oramai consunti lacci e lacciuoli.
Ma neppure degli ultimi provvedimenti governativi Bonomi
può dirsi pienamente soddisfatto ed è quindi pronto, oltre la decenza, a
riproporre la lamentela sulla presunta responsabilità dell’imprenditore
nell’eventuale contagio da Covid di un dipendente. Eppure sono state le imprese
a insistere, e in molte lo hanno fatto, a continuare l’attività anche nella
fase acuta della pandemia. Vanno ricordati gli appelli e le prese di posizione
non solo di forze politiche, ma di intellettuali e semplici cittadini perché
finalmente si giungesse a fermare le macchine delle aziende non essenziali nelle
regioni del Nord. E non abbiamo dimenticato che appena ottenuto il fermo
parziale delle attività è partito il tormentone del “riapriamo subito” con
Confindustria, il partito di Renzi, governatori e amministratori regionali alla
testa. Ed ora, malgrado le precisazioni dell’Inail, eccolo di nuovo reclamare
l’adozione di una normativa che faccia da scudo rispetto a ogni responsabilità
imprenditoriale.
Anche se Fca non fa più parte della Confindustria, Bonomi
non può perdere l’occasione per schierarsi a favore del maxiprestito garantito dalla Sace (ovvero dallo Stato). L’unica condizione è che quei soldi
servano davvero alla filiera dell’automotive.
Puntualizzazione rivelatrice e un po’ pelosa. In realtà la filiera
dell’auto c’entra relativamente. Lo ha spiegato il massimo esperto della storia
della Fiat, Giuseppe Berta, in un’intervista al il Manifesto del 21 maggio. L’autorevole The Economist - racconta il professore - aveva già avvertito che ad
aprile la Fca avrebbe avuto problemi di liquidità mentre era noto che il
dividendo di 5,5 miliardi era previsto nell’accordo per la fusione con la
francese Psa. Quindi John Elkann, come era prevedibile, non si è fatto
intenerire dai dati sulla cassa integrazione ordinaria che in tre mesi hanno
superato del 25% quelli relativi all’intero 2019. Né, aggiunge Berta, è
possibile pensare che il governo non sapesse. Anzi a suo avviso il ministro
Gualtieri avrebbe già dato da settimane il via libera al prestito di 6,3
miliardi. Un’affermazione questa che, vista l’autorevolezza della fonte,
meriterebbe più di un’interrogazione parlamentare.
John Elkann |
In questo quadro di grande animosità non poteva mancare
l’attacco ai contratti nazionali di lavoro. Tema di per sé non nuovo come
sappiamo, ma che in bocca a Bonomi assume un tono ancora più minaccioso. Il
che, se non altro, ha fatto in modo che il sindacato abbandonasse la posizione
di stallo e di sospensione del giudizio sulla nuova presidenza confindustriale.
Landini ha affermato che i contratti nazionali non vanno revisionati, ma
rinnovati e applicati nella loro interezza. Così facendo si troverebbero alcune
delle risposte che anche la recente crisi economico-pandemica ha posto in tema
di organizzazione del lavoro. Non sarà uno scontro facile. Anche perché
riaffiorano - senza mai essere del tutto sparite - divisioni profonde in campo
sindacale. Si pensi alle dichiarazioni di Marco Bentivogli, autorevole
segretario Fim Cisl, per cui i dubbi sollevati sul domicilio fiscale di Fca
sarebbero cose da “salotto radical chic”.
E neppure questa questione è sfuggita all’onnivoro
Bonomi. Anzi ci ha messo, da Bruno Vespa, un carico da novanta, assumendo
l’Olanda non come paese colpevole di fare parte dei sei paradisi fiscali
europei, ma come virtuoso punto di riferimento: “se quel paese, che è Ue,
riesce a dare condizioni migliori, perché non riusciamo a darle noi?” si è
chiesto, fingendo di non sapere che quel migliore trattamento per le
multinazionali in suolo olandese deriva dal furto di entrate fiscali dovute ad
altri paesi.
Ma questa Confindustria vuole volare alto. Intende
recuperare in tre anni il Pil perduto nel 2020 (attorno al 9% se non più) e
persino ritornare ai fasti ante 2008. In che modo non lo dice, se non in forme
vaghissime condite dalla solita litania contro la burocrazia, che purtroppo non
significa per la Confindustria una effettiva maggiore efficienza della Amministrazione
pubblica a favore del cittadino, ma la libertà dai controlli sulle condizioni
di lavoro, i cantieri aperti e funzionanti a pieno ritmo. Detto così il Piano
strategico 2020-2050 che la Confindustria intende presentare nel prossimo autunno
per condizionare la legge di bilancio, è insieme troppo indeterminato e
ambizioso. Le mani padronali sulla ripresa, se mai questa ci sarà in tempi così
brevi.
Ma sarà con quel piano che le forze sociali e della
sinistra dovranno misurarsi. Il che significa che dovranno ragionare non di
rimessa ma sulla base di una proposta alternativa di modifica radicale del
modello di sviluppo. L’errore più grande sarebbe quello di considerare le
dichiarazioni di Bonomi come rodomontate prive di senso. Tornando alle sue
parole l’intervista già citata chiude con l’assicurazione che la Confindustria
si muoverà “senza mai pensare neanche per un istante a diventare noi, un
partito”. Ovvero: excusatio non petita,
accusatio manifesta. D’altro canto in una situazione nella quale la crisi
della politica è giunta al punto che si fatica a intravedere una nuova classe
dirigente, non vi è da meravigliarsi che le classi e i gruppi sociali più forti
vogliano prendere e tenere saldamente in mano le redini del comando.