di
Paolo Maria Di Stefano
Paolo Maria Di Stefano |
La
Fase 2 preludio di ripresa
Io
c’ero, quando, attorno al 1939/1940, e forse per qualche tempo a venire era in
vigore il divieto di assembramento voluto dagli illuminati Capi di allora:
gruppi di non più di tre persone a loro volta distanziati tra di loro - i
gruppi - affinché le chiacchiere di paese non divenissero un pericolosissimo
“rumor” politico, con danni forse irreversibili alla struttura stessa del
regime e della Nazione fatta di milioni di eroi, artisti, poeti, da sempre e
per sempre fascisti.
E
comunque difficilmente controllabili.
Io
c’ero, dicevo, e l’intervento di mio padre non lo dimenticherò mai. Mi pare
fosse, la mia famiglia, già allora composta di quattro figli che non potevano
essere assieme se non a casa, custoditi anche dai ricorsi di benpensanti che
pensavano atto di opposizione al regime la mancata nascita di altri bambini, cosa
gravissima per un magistrato ed una insegnante.
Un
lampo della memoria, acceso dai quattro mesi che hanno preceduto questa
misteriosa Fase 2, e dal lavoro - dicono- ininterrotto dei nostri Politici e
Burocrati, tradottosi in centinaia di decreti e dunque anche in migliaia di
pagine.
Non
solo: uno o due metri di distanza “sociale” - a seconda delle circostanze - mi
hanno ricordato le raccomandazioni sempre più pressanti di mia madre (e dei
miei nonni) in presenza di raffreddori e ancor di più di sintomi influenzali:
non avvicinatevi troppo agli altri bambini, lavatevi le mani, non toccate
niente. State a casa, giocate tra di voi, studiate e leggete.
Ed
ecco un aggancio in fondo inquietante. Questo: all’inizio degli attacchi del
coronavirus, qualcuno di quelli che ancor oggi contano, ebbe a dire che, in
fondo, non si trattava che di un aspetto del raffreddore, più grave e aggressivo,
ma pur sempre di raffreddore. Dunque, stare attenti e non preoccuparsi più che
tanto. Devo confessare che si trattò di una delle affermazioni a mio parere più
preoccupanti, e per una ragione semplicissima: avete mai sentito parlare di un
medico in possesso di una cura per il raffreddore? Io, mai. I miei raffreddori,
nel corso della oramai mia lunga vita, sono sempre passati quasi da soli: al
caldo sotto le coperte, e una aspirina ogni tanto. Più o meno come è accaduto
per le influenze. E sempre come raccomandava mia madre quando ero piccolo.
Da
oltre quattro mesi, lavarsi le mani spesso, non avvicinarsi agli altri a meno
di un metro circa assieme alle mascherine non bastando, sono state chiuse tutte
le attività produttive meno quelle a carattere alimentare, avendo qualcuno
scoperto che chi non mangia ha buone probabilità di non sopravvivere. Un “fermi
tutti” che naturalmente nessuno poteva aspettarsi senza conseguenze sul piano
economico.
In
pratica, un fermo quasi totale all’economia, con una perdita - si dice - attorno
al quaranta per cento, con annessi e connessi. Ma soprattutto, una
improvvisamente drastica limitazione alla libertà di ciascuno di noi, abituati
da sempre a considerarci arbitri della nostra vita quotidiana, e non solo. E
anche un atto di fiducia nella intelligente collaborazione di tutti, quasi
subito smentita dalla cretineria trionfante di centinaia di persone alla Darsena,
invasa da gente che non aveva potuto rinunciare a bere birra e ingurgitare
salatini, con buona pace degli altri e dei rischi di contagio. Un po’ come
quattro o cinque giorni dopo (mi pare attorno all’11 maggio), quando le vie del
centro sono state prese d’assalto da automobilisti i quali, evidentemente, non
vedevano l’ora di arrivare in vista del Duomo con la macchina: una edizione
riveduta, ma non corretta più che tanto, di quando, qualche anno fa, i milanesi
armati di automobile attendevano fin dalle sette del mattino che giungessero le
nove e si aprisse il centro.
Con
questo in più: che per far luogo agli automobilisti frustrati, mi hanno detto,
gran parte della segnaletica stradale, divieti di sosta in testa, è stata
banalizzata. Si può immaginare con quali conseguenze.
Un’idea
geniale, sfociata ben presto in un invito a non usare i mezzi pubblici, per
evitare - si è detto - l’affollamento. Per me, una delusione tutt’altro che
lieve: la morte definitiva di una immagine, quella della Lombardia, fino ad
allora da me ritenuta esempio luminoso di organizzazione efficientissima,
peraltro già incrinata dai problemi relativi alla sanità: di previsione, di
predisposizione dei mezzi di prevenzione di cura e del personale medico e
infermieristico, di dimensionamento coerente delle risorse e così via.
Comunque,
con - si è detto - un aspetto positivo: il fermo sarebbe stata un’ottima
occasione per ripensare alla nostra vita quotidiana e per escogitare soluzioni
diverse alle nostre istituzioni ed alla nostra cultura. Cosa, questa,
possibilissima e costruttiva, e il silenzio di Milano deserta avrebbe creato un
ambiente ideale al pensiero.
In
testa, oltre alla questione sanitaria, l’economia e dunque i processi di
scambio che dell’economia, e non solo, sono l’anima.
Cosa
per me assolutamente entusiasmante: finalmente tutti noi avremmo potuto
verificare e prepararci se del caso a modificare “il modo di essere soggetti,
attivi e passivi, del fenomeno economico”.
Intanto,
rivedendo il concetto stesso di “fenomeno economico” e di “scambio”. Magari
attraverso corsi di formazione e di aggiornamento organizzati secondo una parte
introduttiva, generale e comune a tutti, e parti specifiche per gli operatori
di ogni settore merceologico, al fine di individuarne la reale causa (il fine
ultimo) di ognuno e organizzarci tutti per ottenere il miglior risultato, a sua
volta correttamente individuato e descritto nei particolari.
Tanto
per intenderci: cosa significa scambiare? E poi, chi sono gli attori dello
scambio specifico avente per oggetto il prodotto chiamato (ad esempio) salume
oppure servizio di ristorazione oppure ancora automobile o macchina utensile o
comunicazione (…)? E come ciascuno di essi si muove e perché? E che ruolo ha la
pianificazione di gestione di ogni specifico tipo di scambio? E come gioca il
territorio? E come la stagione? E via dicendo.
Giuseppe Conte |
E
tutto questo in un mondo, la nostra Italia, che pare non disporre più di
gestori degli scambi efficienti ed efficaci, e sempre di più sembra affidare le
proprie fortune a piccole e medie imprese, nella gestione delle quali
l’improvvisazione regna sovrana, mentre le grandi sembrano impotenti a
muoversi.
Molto
da cambiare, dunque, e molto da rifare, almeno a sentire le interminabili
discussioni che animano le trasmissioni sui media e riempiono le pagine della
carta stampata.
Ma
non mi pare in questo tempo forzatamente libero politici ed economisti ed
operatori economici siano andati più in là di affermazioni di principio del
tutto inutili, alcune in particolare rivolte alla critica delle attività di un Governo che forse si muove a tentoni, ma che
si muove e - come sempre accade quando si tenta - con più di un risultato
almeno nell’immediato positivo. E questo non solo in epoca drammatica per il
virus in atto, ma anche in presenza di una opposizione incolta e pronta solo a
criticare quanto il Governo fa, guardandosi bene dal proporre soluzioni
alternative.
E
qui si impone, a mio parere, una annotazione su quello che si può anche
chiamare “caso Conte”.
Milano. La Galleria deserta |
Nato
quasi per caso, dal delirare congiunto di due bande di scugnizzi incolti e
facinorosi, sostenuti dalla sola volontà (peraltro inconscia) di degradare ogni
forma di cultura, il destino ha voluto che si trovasse un accordo sul nome di
un professore universitario - Giuseppe Conte, appunto - dotato per professione
di una cultura superiore, il quale ha in breve superato tutti i Presidenti che
lo hanno preceduto negli ultimi venti o trenta anni. È uno che propone e tenta
di fare e fa, cosa mai successa nel nostro da questo punto di vista non fortunatissimo
Paese. Può darsi che Egli non sia l’eccellenza, ma è senza dubbio il meno
peggiore di tutti i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti in Italia.
E
il tutto con un buon livello di signorilità e di chiarezza.
Così
portando in evidenza anche una situazione di cui nessuno parla: il più
importante virus con il quale conviviamo è quella autolatria che ci pervade
tutti, a tutti i livelli, con gradi diversi di virulenza, e che tutti ci spinge
a crederci depositari della verità e dunque anche delle soluzioni più
opportune, soprattutto in politica.
Eppure,
a me sembra che all’autolatria sia possibile opporre un rimedio efficace: un
approfondimento della cultura operato con onestà di intenti, in grado di
metterci di fronte ai nostri limiti non soltanto a parole. Al momento, sembra
che il massimo della autolatria si manifesti - in politica - innanzitutto nella
Lega, seguita da Fratelli d’Italia a distanza brevissima. Il 2 giugno, Festa
della Repubblica, dovremmo vedere i risultati del pensiero autolatra di questi
e degli altri partiti che costruiscono la destra italiana.
Personalmente
li aspetto, questi risultati, con qualche preoccupazione in più. C’è chi si
oppone a riconoscere diritti a chi, arrivato in Italia, è stato sfruttato
nell’agricoltura nella raccolta dei frutti, che senza di loro sarebbero
marciti, poiché il popolo italiano autolatra alla base si rifiuterebbe di fare
lavori ritenuti non degni e non retributivi. Raccogliere i pomodori e le arance
e l’insalata e gli ortaggi (…) sarebbero tra questi, e la manodopera straniera
garantirebbe la raccolta a costi prossimi alla schiavitù, cioè al minimo della
sopravvivenza.
Che
è, poi, uno dei risultati del guardare alla politica, all’economia ed alla
religione ed ai rapporti tra loro da un punto di vista quanto meno distorto
anche da parte di noti autolatri. Basti leggere quanto ha scritto in materia il
professor Ernesto Galli della Loggia, al quale, forse, non farebbe male un
approfondimento almeno sul concetto di politica e su quello di religione, oltre
che su quello di economia: potrebbe scoprire che molto c’è da fare proprio in
materia di conoscenza degli ambiti della analisi dei comportamenti e della
elaborazione teorica di materie - la Politica, l’Economia e, su di un piano
diverso, la religione. E scusate se è poco!
Anche
come risultato dello stare a casa a pensare: la necessaria e comunque
indefinita convivenza con il corona virus potrebbe giovarsene alla grande.