di Christian Eccher
Grafica di Giuseppe Denti |
Le pandemie sono un fenomeno
costante nella storia dell’umanità; sono più frequenti e regolari delle guerre
e paragonabili solo ad altre calamità naturali, come per esempio le alluvioni e
le carestie. Basta leggere le cronache delle epidemie che Fernand Braudel
traccia nel saggio “Civiltà materiale, economia e capitalismo” per rendersene
conto. L’uomo contemporaneo, viziato dai successi della medicina e dal
progresso tecnologico, sembra aver rimosso l’idea delle infezioni virali come
elemento pericoloso, forse l’unico che, insieme a eventuali catastrofi
cosmiche, possa portare l’umanità all’estinzione. L’essere umano, infatti, ha domato,
sterminato, confinato in riserve naturali la maggior parte degli animali e dei
vegetali: non riesce ancora a dominare il mondo microbiologico e probabilmente
non ci riuscirà mai. Un’epidemia di modesta entità (si legga ancora Braudel per
capire che cosa siano e che cosa causino quelle di grandi dimensioni) come
quella del Covid-19, ha aperto il vaso di pandora della fragilità umana e messo
in evidenza le manchevolezze del sistema sociale, economico, sanitario e
ideologico in cui viviamo. Una delle conseguenze principali è stata quella di
dar voce a una marea di opinioni, congetture, teorie che i mezzi di
comunicazione di massa e le reti a-sociali hanno amplificato a tal punto da
produrre una cacofonia assordante. Notizie dette, contraddette, asserite,
negate, riso, pianto, pietà pelosa e cinismo si sono mescolate in un pastone
molto più virulento di qualsiasi febbre e polmonite. Fra le varie tesi che si
sono susseguite all’insegna del “nulla sarà come prima” (magari!) ce ne sono
alcune che annunciano la fine dell’arte come l’abbiamo intesa fino ad ora.
Soprattutto la morte del teatro, dove non si potrà più andare perché si rischia
il contagio. Gli stessi teatri hanno fatto a gara per caricare i propri
spettacoli on line, perché “è internet il futuro delle relazioni umane”. Come
le monadi del filosofo Leibniz, tutti insieme ma ognuno solo nel proprio
appartamento. Bene: tutte queste supposizioni sono delle enormi fesserie, in
primo luogo, perché non considerano il senso profondo del teatro, in secondo
luogo, perché non prendono in esame le chiusure a cui i teatri sono andate
incontro nel corso della Storia. L’attore Massimo Popolizio si è
categoricamente rifiutato di recitare davanti a una web-cam. Il teatro, ha
asserito, è un evento che può esistere solo dal vivo.
Il senso profondo del teatro
Perché si va a teatro, ma anche al cinema?
Perché si sente l’esigenza di uscire di casa, quando è possibile, come in questi
giorni, guardare pièce teatrali o film comodamente distesi sul salotto di casa
propria (per chi ne avesse uno, il salotto e il divano sono un lusso, a
disposizione del 20% dell’umanità. Gli altri abitano in monolocali, capanne,
scantinati, sottoscala). Ci aiuta a trovare una risposta a questa solo apparentemente
semplice domanda lo psicanalista e psichiatra Jacques Lacan, il più degno
allievo di Sigmund Freud. Lacan sostiene che, nel momento in cui incontriamo
un’altra persona, l’Altro, tendiamo a con-prendere, a fagocitare il nostro
interlocutore, a inserirlo nella nostra esperienza e a giudicarlo in base alle
nostre fantasie, ai nostri pregiudizi, ai nostri complessi. Detto in altri
termini, dato che noi non possiamo uscire da noi stessi, non possiamo neanche
capire davvero l’Altro. L’esempio più banale è quello dell’esperienza amorosa: nella
maggior parte dei casi (non sempre), noi non amiamo un Altro, ma la proiezione
di noi stessi che vediamo nell’Altro. Per questo, dopo alcuni mesi o anni i
rapporti ci deludono e finiscono. Non abbiamo amato l’Altro ma l’idea che
abbiamo avuto di lui. Provocatoriamente, Lacan ha scritto che il rapporto
sessuale non esiste. Con un errore di prospettiva, noi tendiamo a pensare che
una persona ci attragga perché bionda o bruna, bella, intelligente, simpatica.
Lacan non è d’accordo: l’altra persona non ha alcun merito e alcuna colpa.
L’attrazione è in noi stessi, è una proiezione sul corpo dell’Altro di nostre
percezioni e imprinting infantili. Lo stesso discorso vale per le amicizie, le
conoscenze e i rapporti sul posto di lavoro. Il che non vuol dire che l’amore e
l’amicizia siano esperienze impossibili: sono semplicemente difficili se non
accompagnate da un buon grado di cultura e di autoconsapevolezza. Noi esseri
umani abbiamo bisogno di creare ponti; raramente ci riusciamo.
Alain Badiou |
Un allievo di Lacan, il filosofo Alain Badiou, sostiene che lo psicanalista svizzero aveva ragione ad affermare che il rapporto sessuale non è un rapporto, e che quindi non c’è comunicazione fra gli esseri umani. Aggiunge però che due monadi, due corpi, due menti possono entrare davvero in contatto, e ciò grazie all’Evento: ci vuole Qualcosa che unisca due o più persone, che le porti su un terreno comune, che le faccia davvero incontrare. Per Badiou l’Amore e il Teatro sono gli Eventi per eccellenza. Cosa succede a teatro? Ciascuno di noi guarda - da solo - uno spettacolo; a un certo punto avviene la catarsi, lo spettatore comprende cose di sé stesso che gli erano ignote, capisce di aver interpretato la realtà intorno a sé in maniera sbagliata, di aver forse chiesto troppo ai suoi simili e magari anche a sé stesso, di aver giudicato senza prima cercare di comprendere le ragioni altrui, i diversi contesti in cui noi e gli altri viviamo. Se la catarsi è collettiva, fra coloro che guardano uno spettacolo si crea un’intesa, un fluido invisibile che affratella e inghiotte. Senza bisogno di parole, si crea una comunicazione vera e profonda, che apre a tutti gli spettatori nuovi mondi, Verità che ci aiuteranno a capire e a comunicare con il mondo intorno a noi anche fuori dal teatro. Quando c’è l’Evento, anche la morte fa meno paura. Anche i virus perdono di virulenza. In primo luogo perché si accettano la malattia e la morte come fenomeni naturali, in secondo luogo, perché la conoscenza di noi stessi e l’autoconsapevolezza rafforzano il nostro sistema immunitario.
IL TEATRO CHIUSO
La rivista inglese “Stage” e “Danas”, il quotidiano
serbo su cui è uscito un ottimo articolo di Željko Jovanović, elencano in
maniera impeccabile i periodi in cui le porte dei teatri sono rimaste chiuse
nel corso della Storia. Nel XVI e nel XVII secolo, a causa della Grande Peste,
quella di cui parla anche Manzoni e che si presentò per decenni, a ondate, le
scene rimasero serrate per ben 13 anni. In Inghilterra, un giovane drammaturgo,
insieme alla propria compagnia teatrale, si ritirò nell’entroterra per fuggire
al terribile flagello (le epidemie sono come la droga: quelli ricchi con soldi
e fatica se la cavano, quelli poveri finiscono tutti male. I baldi giovani del
“Decameron” erano di famiglia nobile e poterono ritirarsi in una villa
vicino Fiesole a “sollazzarsi” con piacevoli racconti. Le classi più umili
rimasero a Firenze, in quarantena, chiusi nelle proprie case e controllati a
vista dalla polizia. La mortalità nei quartieri miseri della città fu
altissima. I giovani del “Decameron” si salvarono e a loro va la gloria
pelosa dei posteri. I poveri lavoratori morirono come mosche e furono presto
dimenticati: fanno parte solo della statistica. Lo stesso fenomeno si verifica
oggi con il Covid-19: il virus si è diffuso nelle banlieue parigine e nelle zone
povere di Stoccolma, fra gli immigrati, molto più che in centro città o nelle
ville dei ricchi. Anche la quarantena è stata più severa nelle periferie che
non nei quartieri benestanti). Non abbiamo prove tangibili, ma è probabile che
proprio nell’isolamento rurale quel giovane scrisse i propri capolavori: il suo
nome era William Shakespeare. Verso la metà del XVII secolo, dopo la guerra
civile, i puritani chiusero tutti i teatri inglesi, compreso il Globe Theatre,
perché considerati immorali. Fino alla Prima guerra mondiale non ci furono
altre interruzioni, nonostante i numerosi conflitti armati e le carestie che
colpirono ripetutamente l’Europa. Durante la Grande Guerra, le autorità
proclamarono in diversi paesi la chiusura dei luoghi di cultura a causa della
possibilità di attacchi aerei, ma il pubblico richiese a gran voce la
riapertura dei teatri e la ottenne, con la scusa che chi tornava dal fronte aveva
diritto a distrarsi un po’. I palcoscenici rimasero attivi anche fra il 1918 e
il 1920, durante la “Febbre spagnola”; accadde però qualcosa di imprevisto. Le
persone, impaurite, rimanevano a casa e gli attori recitavano davanti a vuote,
desolanti platee. Molti di loro si infettarono e morirono e così in breve
tempo, senza decisioni dall’alto, le porte dei teatri si chiusero
ermeticamente. Nel 1939, con l’inizio del secondo conflitto mondiale, molti
artisti rimasero senza lavoro a causa dell’ordine di chiudere tutti i luoghi di
cultura. Anche in questo caso, però, fu il pubblico a reclamare la riapertura
delle sale, che lavorarono ininterrottamente anche durante i bombardamenti
aerei.
Il teatro Müpa di Budapest |
Nel Dopoguerra, non ci sono stati ulteriori divieti all’attività
teatrale fino a marzo del 2020. Ancora una volta, sono stati gli spettatori a
disertare le sale prima della chiusura ufficiale. Chi scrive ne è testimone: a
Budapest, in occasione della rappresentazione del “Dardano” di Jean-Philippe Rameau,
i cui biglietti erano esauriti da tempo, la platea di Müpa, la Concert Hall di
Budapest, era pressoché deserta. Le persone hanno più paura delle epidemie che
delle guerre e le storie che abbiamo raccontato lo dimostrano. Verrà presto il
giorno in cui i teatri riapriranno i battenti. Se questo non accadrà, vorrà
dire che gli esseri umani si sono trasformati in zombi, privi della necessità
di vivere l’evento e di comunicare fra loro. Il Covid-19 è pericoloso, molto, e
bisogna evitare a ogni modo di contagiare e di essere contagiati. Se però, come
dice il filosofo Agamben, la peste è nelle nostre teste, e la proiettiamo sul
virus che in questo momento circola per il mondo, allora non c’è speranza. Il
bubbone pestifero ci lascerà vivi ma divorerà quel che resta della nostra
umanità; le porte dei teatri in questo caso rimarrebbero chiuse per sempre.
Noi, però, la minoranza, faremo di tutto per riaprirle. A presto, ci vediamo a
teatro.