di
Franco Astengo
Sul tema della riduzione del numero dei parlamentari chi ha
ancora a cuore la democrazia repubblicana ha il dovere di essere
particolarmente chiaro, questa volta senza sfumature: Il Comitato per la
Democrazia Costituzionale dovrebbe chiedere udienza al Presidente della
Repubblica, naturalmente non per chiedere un suo intervento che sicuramente non
può eventualmente oltrepassare il limite di una “moral suasion”.
L’occasione
dovrebbe però essere colta per fare in modo che alla più Alta Magistratura
della Repubblica possano essere direttamente illustrate le ragioni di chi si
oppone a questo sicuramente nefasto provvedimento.
La
riduzione nel numero dei parlamentari, nelle condizioni in cui questo
provvedimento potrebbe realizzarsi se il voto del Parlamento dovesse essere
confermato nel referendum, rappresenterebbe il “vulnus” più grave inferto alla
Costituzione dal 1948 in avanti.
Si
tratterebbe, infatti, del frutto avvelenato dell’antipolitica accettato dai
gruppi parlamentari soltanto per pavidità e opportunismo, al di fuori dai 5 Stelle
che ne sono stati promotori all’insegna “dell’aprire le Camere come una scatola
di tonno” (discorso che echeggiava “l’aula sorda e grigia, bivacco di
manipoli”).
Un’
emergenza questa della pavidità e dell’opportunismo che rappresenta un vero
problema per il corretto funzionamento delle istituzioni, come abbiamo
constatato anche nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, suggellando
così la davvero mediocre qualità politica e di dimensione istituzionale che fin
qui è stata espressa dal combinato disposto Governo-Parlamento.
Un
Parlamento eletto ancora una volta attraverso una legge elettorale nel cui
testo si ravvisano diversi profili di incostituzionalità.
Del
resto i Parlamenti della XV, XVI, XVII legislatura erano stati eletti con leggi
elettorali dichiarate incostituzionali dall’Alta Corte.
Quello
dell’incostituzionalità delle leggi elettorali rappresenta un altro particolare
dimenticato quando si cerca di definire un profilo della classe politica che ha
agito sul piano istituzionale nel corso degli ultimi anni.
Appare
meschino il tentativo di confondere una scadenza come quella referendaria, di
massima importanza per il futuro della qualità della democrazia italiana, con
la canea di basso profilo che si misurerà con l’elezione diretta dei Presidenti
di Regione (si tralascia, in questa occasione, il discorso sulla vera e propria
“disgrazia democratica” rappresentata dall’elezione diretta a cariche
monocratiche).
È
necessario far emergere con chiarezza i termini della questione in gioco che
ancora una volta, come nell’occasione dei due altri referendum confermativi del
2006 e del 2016, riguarda il cuore stesso dell’impianto previsto dalla Carta
fondamentale sui temi delicatissimi della forma di governo, del ruolo delle
Camere, della rappresentatività dei soggetti politici in entrambe le direzioni
della piena rappresentatività delle più significative sensibilità culturali e
dei territori.
Dobbiamo
sollevare il tema al massimo livello.
Il
voto referendario necessita di una accurata e specifica preparazione, nel corso
della quale le diverse ragioni in campo debbono poter disporre dello spazio
temporale e fisico per essere esposte all’intero corpo elettorale, senza
interferenze varie e senza asimmetrie nel numero di schede da votare da
territorio a territorio, come accadrebbe nel caso dell’accorpamento. Si sta
compiendo, in questi giorni, un vero e proprio “sopruso” al riguardo
dell’esercizio pieno e legittimo della democrazia nella sua espressione più
alta che è quella del diritto di voto dal punto di vista della libertà personale
di espressione. Occorre riprendere da subito la mobilitazione e portare al
massimo della visibilità e della presa di coscienza collettiva, i motivi che
sostengono la necessità di un regolare svolgimento del voto.