di Alfonso Gianni*
Con questo lungo saggio
Alfonso Gianni
inizia la sua collaborazione con “Odissea”.
Una volta sconfitta la pandemia in corso che mondo
troveremo? E prima ancora dovremmo chiederci, visto che fino a quando non viene
sviluppato un vaccino efficace il virus continuerà ad essere un pericolo
costante, come sarà possibile convivere con la sua persistenza, seppure
contenuta? È una domanda a tutto tondo. Sia perché riguarda ogni ramo
dell’attività umana, da quello produttivo a quello ricreativo e riproduttivo,
sia perché coinvolge tutto il mondo. Per queste ragioni rispondere o almeno
tentare di farlo, ad una simile domanda, significa praticare molti piani e
terreni, entrare in diversi ordini di questioni. Approfittando della gentile
ospitalità di Odissea, vorrei
cominciare da qualche aspetto macroeconomico, con particolare riguardo alla
discussione in atto su quale deve essere l’intervento che la Unione europea può
immediatamente svolgere per affrontare una crisi di proporzioni gigantesche e
in parte finora ignote. Se sarà possibile in una prossima occasione cercherò di
concentrare l’attenzione su ipotesi di un possibile programma di ripresa del
paese, senza alcuna pretesa di esaustività, ovviamente, ma per offrire qualche
argomento al dibattito, anche se questo non facilita la brevità.
Mario Draghi |
Quando Mario Draghi, nel suo ormai famoso
intervento sul Financial Times del 25
marzo definì la pandemia di Covid-19 come “una tragedia umana di proporzioni
potenzialmente bibliche”, qualcuno pensò che l’insolita enfasi delle parole
usate da un uomo misurato nelle esternazioni pubbliche, nascondesse qualche
progetto di autoinvestitura nella tormentata vicenda italiana. Era una lettura
dal buco della serratura, non infrequente dalle nostre parti, ove la
dietrologia si accompagna a un provincialismo di antiche origini. In realtà con
quell’intervento Draghi forniva una lettura più che realistica della situazione
pandemica e delle sue conseguenze economiche nel quadro mondiale e allo stesso
tempo indicava la necessità, anzi la drammatica urgenza, di un intervento a
ogni livello del potere politico pubblico a partire dall’Unione europea.
D’altro canto l’ex presidente della Bce aveva da tempo ammonito che la sola
politica monetaria sarebbe stata insufficiente per fare uscire l’Europa in
salute dalla precedente crisi. Figuriamoci da questa. “Esitare adesso - scrive Draghi sempre in
quell’articolo - può avere conseguenze irreversibili: ci serva da monito la memoria delle sofferenze
degli europei durante gli anni Venti”.
Se il parallelismo tra emergenza sanitaria causata dalla pandemia e una guerra
mondiale è ovviamente sbagliato, quanto purtroppo abusato, del tutto
convincente è la previsione che, una volta sconfitto il morbo, troveremo un
mondo in condizioni tali da richiamare alla memoria i periodi di ricostruzione
postbellica.
La crisi è stata provocata da uno shock
esogeno, si è sentito dire e scrivere frequentemente. Il che è solo
parzialmente vero. Le grandi epidemie - ce lo ha ribadito quel bel libro di
Jared Diamond Armi, acciaio e malattie -
hanno segnato la storia dell’umanità e la geografia dei suoi insediamenti da
oltre tredicimila anni. Ben prima, quindi, della nascita e lo sviluppo del capitalismo.
Ma la velocità con la quale il Covid-19 ha invaso il mondo senza risparmiare
nessun luogo e nessuna popolazione, il ripetersi di fenomeni pandemici entro
lassi di tempo sempre più contratti hanno molto a che fare con le modalità di
funzionamento del capitalismo su scala mondiale, con i percorsi delle catene
del valore, con la moltiplicazione degli spostamenti di persone e cose, con lo
sfruttamento intensivo della terra, gli allevamenti concentrati di animali
destinati all’alimentazione, il deterioramento dell’aria, del suolo, delle
acque.
Si moltiplicano e diventano assai più
frequenti le crisi sanitarie così come quelle economico-finanziarie. La crisi
attuale non ha paragone che con quella del ’29, le cui conseguenze è
probabilmente destinata a superare. È una crisi universale che raccoglie in sé,
prolunga e dilata le crisi precedenti. Specialmente laddove queste non erano
state smaltite. Come quella iniziata negli Usa nel 2007 e approdata in Europa
l’anno seguente senza averla ancora abbandonata.
Le cifre della crisi economica
Gita Gopinath |
Il World
Economic Outlook del Fondo monetario internazionale pubblicato il 14 aprile
fornisce cifre impietose sul drammatico stato di salute dell’economia mondiale.
Nella prefazione al Rapporto la capoeconomista del Fmi, Gita Gopinath, afferma
che la recessione generata dalla pandemia “fa impallidire” quella prodotta
dalla crisi economico-finanziaria globale del 2009. Infatti l’economia
mondiale, secondo l’Fmi, calerà del 3% nel 2020. Un crollo di proporzioni
inedite, cui farebbe seguito nell’anno successivo una ripresa del Pil globale,
“molto incerta”, del 5,8%. Nel biennio “la perdita complessiva di Pil globale
potrebbe essere di circa 9 mila miliardi di dollari, superiore alla somma delle
economie di Giappone e Germania”, ha sottolineato Gopinath nell’intervento
introduttivo che accompagna la diffusione del Rapporto. La differenza rispetto
alla precedente già gravissima crisi di 11 anni fa è evidentissima se si
considera che nel 2009 la perdita di Pil mondiale si era limitata allo 0,1%.
«Questa - ribadisce l’economista- è una crisi veramente globale poiché nessun
paese è risparmiato» con impatti «particolarmente forti» per i paesi che
dipendono «dal turismo, dai viaggi, dall’ospitalità e dall’intrattenimento».
«Per la prima volta dalla Grande Depressione, sia le economie avanzate sia i
mercati emergenti e le economie in via di sviluppo sono in recessione»,
conclude Gopinath.
Si tratta di una crisi che aggredisce
l’economia mondiale contemporaneamente dai due lati, quello della domanda e
quello dell’offerta, il che, come vedremo, ha conseguenze rilevantissime sul
come uscirne.
Ma l’analisi del Fmi fornisce per il
prossimo futuro scenari ancora peggiori. Il rimbalzo del 2021 è incerto
soprattutto perché la sua potenzialità è legata alla scomparsa della pandemia
nella seconda metà del 2020. Ipotesi che più il tempo passa più appare
improbabile, dal momento che la sua sconfitta è legata all’esistenza di vaccini
e farmaci efficaci che per ora sono solo in via di ricerca o di prima
sperimentazione. Gli analisti del Fmi avanzano prudentemente perciò tre
possibili scenari, tutti peggiorativi di quello principale già così poco
allegro. Se il tempo per fermare il contagio fosse più lungo la recessione
sarebbe di tre punti maggiore, cui seguirebbe un rimbalzino di un solo punto
percentuale nell’anno che viene. Ma se il 2021 ci presentasse la continuazione
o la ripresa dell’ondata pandemica, anche quel punticino sparirebbe o
cambierebbe di segno. Infine, se si sommassero i due scenari di cui sopra,
l’esito sarebbe una recessione anche nel 2021 di 8 punti di Pil in meno
rispetto a + 5,8% stimato.
Per quanto riguarda l’Eurozona la
recessione penalizzerà - siamo nel primo scenario, quello meno peggiore - il
nostro paese con una caduta del Pil nell’anno in corso pari al 9,1%. Le stime
della Banca d’Italia sono un poco meno drammatiche, ma è chiaro che in poche
settimane tutto è cambiato. Dallo 0,6% in più a 8,5 in meno, mentre nel 2009 la
contrazione del Pil si fermò al 5%. Farà peggio di noi solo la povera Grecia
(-10%), mentre duramente colpite saranno anche Germania (- 7%) e Francia
(-7,2%). Anche per gli Stati uniti la prospettiva è pessima (- 5,9% di Pil),
mentre la Cina resterà in positivo, ma solo per 1,2%. Il rapporto del Fmi si
sofferma ovviamente anche sul quadro occupazionale che per l’Italia vede salire
la disoccupazione dal 10% al 12,7%, raddoppiarsi al 14% in Portogallo, salire
in Spagna al 20,8% e in Grecia al 22,3%. Solo la Germania si manterrà su
livelli di disoccupazione leggermente superiori a quella che viene definita
frizionale, sotto il 4%, mentre la media dell’Eurozona salirà al 10,4%. E
bisognerà sempre ricordare che i maquillage effettuati ai criteri di calcolo
dell’occupazione permettono di considerare in tale condizione anche chi lavora
solo un’ora alla settimana. Si tratta quindi di un’occupazione con una larga percentuale
di lavori precari, minimali e occasionali. Anche oltreoceano la disoccupazione
picchierà forte e probabilmente influenzerà gli orientamenti elettorali negli
Usa (sempre che le elezioni si tengano come previsto ai primi di novembre), dal
momento che si passerebbe dal 3,7% del 2019 al previsto 10,4% a chiusura del
2020.
Lo straordinario messaggio pasquale di Papa Francesco
Papa Francesco non ha aspettato la
pubblicazione dei dati del Fmi e nel giorno di Pasqua ha tenuto un discorso di
rara tensione morale e politica, molte spanne al di sopra delle élites
politiche europee per non dire mondiali. Ha chiesto “un cessate il fuoco
globale e immediato in tutti gli angoli del mondo” aggiungendo che “non è
questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo
ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare
vite” nella ricerca e nella costruzione di una pace definitiva. È entrato nel
merito delle grandi questioni economiche e ambientali che affliggono il mondo.
Ha incoraggiato “quanti hanno responsabilità politiche ad adoperarsi
attivamente in favore del bene comune dei cittadini, fornendo i mezzi e gli
strumenti necessari per consentire a tutti di condurre una vita dignitosa”. Ha
sottolineato la necessità che “si mettano in condizione tutti gli Stati di fare
fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura
condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri”.
Infine ha avvertito l’Unione europea della
“sfida epocale” che ha di fronte a sé “dalla quale dipenderà non solo il suo
futuro, ma quello del mondo intero”. Per questo - ha insistito il Pontefice -
“non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche
ricorrendo a soluzioni innovative” dal momento che “l’alternativa è solo
l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato,
con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo
delle prossime generazioni”. Ma non si può dire purtroppo che queste parole,
così penetranti e puntuali, abbiano trovato finora un conseguente riscontro tra
i leader europei.
Il deludente quadro delle riunioni dei vertici europei
Giuseppe Conte |
A giudicare dalle riunioni che hanno
preparato quella del Consiglio europeo non vi era da navigare nell’ottimismo.
Di questo si è accorto anche il Presidente del Consiglio. Infatti la sua
infuocata conferenza stampa in diretta televisiva del 10 aprile - che tante
critiche, per lo più a sproposito, ha ricevuto per l’aggressivo attacco
all’opposizione di destra - se aveva un pregio era certamente quello di
ridimensionare l’entusiasmo del tutto fuori luogo sparso nelle prime ore dal
ministro Gualtieri sugli esiti dell’Eurogruppo virtuale del giorno prima. Il
secondo tempo della partita si giocherà il 23 aprile, ma il primo tempo, per
rimanere nelle metafore calcistiche usate dal nostro ministro dell’economia, non
è affatto andato bene per i paesi che si contrapponevano al fronte del
rigorismo capitanato da Germania e Olanda.
La ragione è semplice. Il punto
discriminante era la messa in campo o meno degli euro o coronabonds che
dir si voglia. Ma nel documento finale non compare neppure la parola. Nella
parte dedicata al Recovery Fund, la
soluzione voluta in particolare dalla Francia e sostenuta dall’Italia, si dice
solo che si è convenuto “di lavorare su un fondo di recupero … temporaneo,
mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi … fatte salve le
indicazioni dei Capi di governo, le discussioni sugli aspetti giuridici e
pratici di tale fondo, comprese le sue relazioni con il bilancio dell’Ue, le sue fonti di
finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati
dell’Ue, prepareranno il terreno per una decisione”. Quindi tutto è stato rimandato
al Consiglio europeo del 23 aprile in una situazione di totale incertezza.
Sappiamo che il fronte del rigore non voleva neppure che si usasse il termine
“lavorare” riferito al da farsi sul Fondo di recupero, che avrebbe preferito un
termine ancora più vago, ma ciò che purtroppo conta è che il termine bonds è rimasto escluso e la
dichiarazione della Merkel contraria ai medesimi ha trovato piena conferma.
Come si faccia a presentare tutto ciò come una vittoria è francamente
incomprensibile. Si è trattato di un compromesso al ribasso, di un brutto
accordo. In sostanza il nocciolo della questione, ovvero la mutualizzazione dei
rischi del debito non è passata. Né le incertezze e le ambiguità risultano
superate dalla risoluzione, peraltro non
vincolante approvata a maggioranza dal Parlamento europeo il 17 aprile nella
quale si esortano i Ventisette a qualche forma di mutualizzazione dei debiti pubblici per rispondere allo shock
economico provocato dalla pandemia. Le cose sarebbero state più chiare e nette
se fosse passato l’emendamento proposto dai Verdi ma, appunto, così non è
stato. Naturalmente la risoluzione alternativa dal taglio programmatico
presentata dal Gue/Ngl non ha avuto miglior fortuna”. Ci si può aggrappare al
fatto che poiché il testo - appoggiato da popolari, liberali e socialisti ma
con divisioni, soprattutto nel mondo
politico italiano - invita Bruxelles a “proporre un massiccio programma di rilancio i
cui investimenti sarebbero finanziati da un accresciuto bilancio europeo cosi come da obbligazioni
per la ripresa garantite dallo stesso bilancio comunitario, senza comportare la
mutualizzazione del debito esistente”, non risulterebbe invece esplicitamente
esclusa la mutualizzazione di debiti futuri. Ma ciò che avrebbe dovuto
diventare il cuore del documento, pur non vincolante, è stato lasciato nel
vago.
La questione del Mes
Abbiamo invece un Mes (Meccanismo europeo
di stabilità), cui il governo italiano dice che non ricorrerà, come ha ribadito
con foga Conte, che prevede la non condizionalità per spese sanitarie “dirette
o indirette” - ma chi sarà in grado di porre una linea di demarcazione fra le
une e le altre? -, mentre queste tornano ad agire su un utilizzo dei prestiti
per la ripresa economica. La condizionalità non è evitata, solo limitata, nei
tempi e nei campi di applicazione, ma con un meccanismo assurdo e tutt’altro
che sicuro per chi lo dovesse accettare. Lo stesso Conte ha poi esplicitamente
riconosciuto che nulla è deciso e certo in merito alle modalità di
funzionamento del Mes, sul cui eventuale ricorso sarà il Parlamento a doversi
pronunciare. Da un lato è bene che finalmente si chiami in causa il Parlamento
per potere decidere. Ed è giusto che questo avvenga sulla base di una
conoscenza precisa delle condizioni con cui avverrebbe un eventuale ricorso al
Mes. Ma tutto ciò equivale a riconoscere il carattere indeterminato della
situazione nella quale non solo il nostro governo si trova, in balia degli
umori e dei giochi delle alleanze dei paesi più forti.
Ma vi è anche un altro aspetto che
emerge. La presunta non condizionalità vale e dura solo per il periodo della
pandemia, finita la quale tornano a funzionare le vecchie regole, come del
resto è stato scritto nel comunicato finale dell’Eurogruppo ove si chiarisce
che i prestiti (naturalmente di questo si tratta non di aiuti a fondo perduto)
sarebbero fatti nel quadro delle linee esistenti (le Eccl) “seguendo le
disposizioni del Trattato Mes”. Il Mes non è un’istituzione caritatevole, come
sanno bene i paesi che sono stati indotti a farvi ricorso, quali Grecia,
Spagna, Portogallo, ma praticamente una banca che agisce con il cuore sempre
dalla parte del creditore come del resto viene esplicitamente detto. Fornisce
prestiti, non aiuti. Da restituire e il vantaggio per l’Italia sarebbe solo per
gli interessi più bassi. Per di più la sua “potenza di fuoco”, anche se la si
usasse tutta, è limitata (410 miliardi).
Ha quindi perfettamente ragione Francesco
Saraceno (Il Sole 24 Ore del 15
aprile) a parlare di “inconsistenza temporale”, ovvero un impegno ‘politico’
assunto oggi non può vincolare le decisioni future. Perciò non è affidabile, o
non lo è sufficientemente, anche se alcune interpretazioni delle norme
statutarie traggono la conclusione che l’Italia potrebbe avere un diritto di veto
rispetto alla riproposizione di condizioni non accettabili. Non solo. Ma l’idea
- di cui abbiamo visto la ben scarsa credibilità - di fare valere la
condizionalità solo per il periodo della pandemia e quindi di rimettere la porta
sui vecchi cardini appena questa finisce, fa trapelare la convinzione che tutto
possa tornare come era prima, per quanto riguarda gli indirizzi finanziari,
economici e produttivi. Esattamente come si è fatto dopo la fase acuta della
precedente crisi economico-finanziaria.
Questa formulazione esclude in partenza
qualsiasi volontà di trasformazione o di semplice modificazione del modello di
sviluppo economico. Per fare solo un esempio, le spese per dotare il nostro
paese di un servizio sanitario nazionale efficiente in ogni angolo dello
stivale e pronto a sopportare emergenze sanitarie sempre più frequenti, non
possono essere catalogate semplicemente come spese sanitarie, ma sono un
investimento in difesa di un diritto primario che ha la forza di indirizzare e
sviluppare l’intera economia per finalità diverse da quelle del passato. Se
quindi, passata la pandemia, si dovesse sottostare in caso di prestiti alle
forche caudine della cosiddetta Troika, che la Grecia ha dolorosamente
conosciuto, non si potrebbe operare alcuna trasformazione nel modello
produttivo e sarà impossibile sviluppare forme di difesa e di prevenzione verso
nuove non improbabili epidemie.
Se si guarda poi alla modalità e
all’entità degli interventi previsti dal progetto Sure per il lavoro e dalla
Bei per le piccole e medie imprese il quadro non migliora. Complessivamente è
prevista una spesa che non supera i 500 miliardi. Ma ce ne vorranno molti di
più.
La necessità e la fattibilità dei coronabonds
Le dimensioni di questa crisi sono
mondiali, ancora più ampie di quella, tutt’altro che smaltita in Europa, che
partì nel 2007/2008. Non si intravedono né termine né vie d’uscita, anche
perché sono legati alla sconfitta del virus che solo lo sviluppo e la libera
diffusione di un vaccino possono garantire. Abbiamo già detto che siamo di
fronte ad una crisi che si accanisce sia sul lato della domanda che
dell’offerta. Soluzioni classicamente keynesiane non sono possibili. Per quanto
maggiormente desiderabile in termini di giustizia sociale, un intervento che
mirasse solo allo sviluppo dei consumi, quindi mettendo in condizione le
persone comuni di spendere avrebbe scarsa efficacia a fronte di una mancata
offerta di qualche cosa da comprare. Soprattutto perché questa nuova crisi
sottolinea il nesso terribilmente distorto fra modello di sviluppo e di vita e
la condizione sociale e ambientale.
La famosa questione del “cosa”, “quanto”
e “per chi” produrre torna di drammatica attualità. D’altro canto sono proprio
le crisi che possono offrire l’occasione imperdibile per grandi trasformazioni
o per il loro esatto e tragico contrario. Quindi bisogna intervenire sul fronte
delle imprese con un grande piano pubblico coordinato a livello europeo e
contemporaneamente e subito con un sostegno universale al reddito delle
persone. Per questa ragione se l’Europa
non vuole disintegrarsi è necessario l’intervento di uno strumento comune di
debito che distribuisca il rischio tra tutti i membri dell’Unione mettendoli
così al riparo da speculazioni di ogni genere.
Come hanno recentemente osservato un
gruppo di economisti e di giuristi su un blog tedesco (https://verfassungsblog.de/the-case-for-corona-bonds/),
qualsiasi proposta di strutturazione di emissioni di obbligazioni ordinarie in
Europa deve fare i conti con la famosa disposizione "senza
salvataggio" (art.125 del Tfue). Ma questo articolo non si applica ai
corona bonds. Il suo scopo è prevenire un salvataggio, vale a dire la
mutualizzazione del debito di uno o più Stati membri, come pure la
monetizzazione secca del debito, come hanno osservato gli stessi economisti che
in un appello l’hanno recentemente caldeggiata. I corona bonds sono invece debiti
reciproci sin dall'inizio e questo loro carattere non è solo una formalità in
quanto dovrebbero finanziare progetti europei comuni con alcune entrate. Anche
nella misura in cui i proventi dei corona bonds dovessero venire utilizzati a
beneficio dei singoli Stati membri, ciò avverrà comunque nell'ambito di
progetti europei comuni. In effetti, l’art. 125, primo comma, del Tfue afferma
che l’Unione non si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni
pubbliche ad ogni livello di qualsiasi Stato membro “fatte salve le garanzie
finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto
specifico”. Quindi l’aggiramento dei vincoli posti dai Trattati non avverrebbe
in virtù di ingegnose costruzioni finanziarie, ma in base alla finalizzazione
comune dell’investimento. D’altro canto obbligazioni comuni vennero messe in
opera a metà degli anni ’70 per aiutare i paesi europei in difficoltà a causa
della famosa crisi petrolifera verificatasi in quel periodo, come nel caso
delle obbligazioni comunitarie del 1975 stabilite dal regolamento 397/75.
Questo permetterebbe di raggiungere un
obiettivo davvero importante: mentre si risponde all’emergenza si tracciano le
strade per far fare veri passi in avanti all’unità europea dal punto di vista
politico-istituzionale, non solo monetario. Il che imporrebbe immediatamente di
ingrandire lo striminzito bilancio europeo, ora limitato all’1% del Pil
complessivo. Per farlo la Ue può, anche in base ai Trattati vigenti, “istituire
nuove categorie di risorse proprie” (art.311 Tfue) e armonizzare le norme in
materia fiscale (si pensi alla carbon
tax, alla web tax, alla Tobin tax).
La cecità delle classi dirigenti europee
Alcuni commentatori hanno fatto ironie
mal riposte sul concetto di solidarietà, sostenendo che non la si può applicare
alle vicende economiche. Lasciamo da parte un attimo il fatto che una simile
convinzione nasconde una visione della società prigioniera del peggiore modello
capitalistico. Essa è falsa anche in base a un ragionamento di pura convenienza
economica. Con la rinascita dei protezionismi, con la guerra dei dazi, con il First America di Trump (primo
importatore di merci tedesche) e la scelta cinese di puntare sul mercato
interno (la Cina è il principale partner commerciale della Germania) dove
finiranno le merci tedesche da esportare, colonna dorsale di un’economia
mercantilistica come quella teutonica, se il mercato europeo si sfarina, in un
quadro già segnato dalla Brexit? Basterebbe questa considerazione per
evidenziare tutta la cecità della classe dirigente tedesca e non solo. Eppure
gli avvertimenti non sono mancati. Nelle scorse settimane oltre 600 economisti
a livello mondiale si sono espressi per una soluzione tipo eurobond; così hanno
fatto economisti e intellettuali tedeschi, da Habermas a Honnet, fino
all’Istituto di economia di quel paese. Ma la ragione non ha prevalso. Come
dicevano i latini “Quos deus perdere vult dementat prius”.
Certo la soluzione ideale richiederebbe
che la Bce diventasse effettivamente un prestatore in ultima istanza. Infatti
questo obiettivo non è affatto alternativo a quello dei coronabonds. Anzi la
loro emissione lo avvicinerebbe, perché lo si potrebbe ottenere se la Bce
garantisse l’acquisto comunque dei titoli emessi qualora essi non venissero
assorbiti dal mercato. Ma intanto riuscire a mettere in campo concretamente i
coronabonds spezzando la resistenza del fronte rigorista sarebbe un passo
decisivo in questa direzione.
Basterebbe? No, serve un controllo sui
movimenti di capitale, una profonda riforma del prelievo fiscale che riduca la
crescente divaricazione dei redditi, una patrimoniale, un vero piano europeo di
investimenti in settori innovativi e
ambientali, insomma un social-green - new-deal, che per funzionare deve
garantire non solo lavoro ma che nessuno sia privo di reddito. E neppure
soltanto questo. Ciò che questa pandemia ci insegna è la nostra fragilità e
quella della tanto osannata globalizzazione capitalistica. La necessità di una modifica radicale del
sistema economico-sociale che il capitalismo ha prodotto non è forse mai stata
tanto evidente come oggi.
Il Consiglio europeo del 23 aprile
Chi si aspettava la soluzione dei vari
problemi aperti in questa drammatica crisi economica moltiplicata dalla
pandemia è rimasto senz’altro deluso dalle conclusioni del Consiglio europeo
del 23 Aprile. In realtà gli esiti, peraltro interlocutori o comunque non
concludenti, cui è giunto il Consiglio europeo non costituiscono certo una
sorpresa rispetto alle varie prese di posizione assunte nella immediata
vigilia. Tra le quali va sottolineato un quasi impercettibile, ma
significativo, ammorbidimento dei toni di Angela Merkel, frutto, forse, di
un’accresciuta consapevolezza della prossimità all’orlo del burrone e dei vari
pronunciamenti favorevoli all’esercizio del principio della solidarietà che si
sono manifestati crescentemente anche all’interno del suo paese.
In sostanza i Ventisette hanno incamerato
le misure prospettate dai ministri delle Finanze che appunto prevedevano
l’intervento del Mes non proprio senza condizionalità, ma comunque soft (i cui caratteri, e non sono
dettagli, sono però ancora da definire); la creazione di uno strumento per
finanziare la cassa integrazione o sistemi simili nei Paesi membri (Sure); l’utilizzo della Banca europea
degli investimenti (Bei) in aiuto alle imprese. Il complesso di questi
interventi raggiunge i 540 miliardi e dovrebbe entrare in vigore il 1° giugno.
Ma tutto ciò comporterà una ulteriore maratona negoziale, vista la quantità e
il peso delle questioni cosiddette tecniche, ma che comportano conseguenze di
sostanza, su cui i vari Paesi devono ancora trovare un preciso accordo.
Infine il Consiglio europeo ha dato
mandato alla Commissione europea di mettere a punto il Fondo per il rilancio
economico (Recovery Fund). Lo dovrà
fare entro il 6 maggio, spostando di una settimana la data precedentemente
prevista. Sul punto decisivo quindi il Consiglio ha deciso di non decidere e
non era difficile immaginarselo. La ragione è che sulla cosiddetta quarta gamba
su cui dovrebbe poggiare l’intervento europeo, permangono differenze evidenti
che si sono manifestate ampiamente anche nelle dichiarazioni successive alla
riunione da parte dei vari capi di Stato e di governo. In sostanza si prevede
che la Commissione europea dovrà prendere denaro a prestito sui mercati
finanziari e aumentare la quota delle risorse proprie nel bilancio comunitario,
che salirebbe dall’1,2% del Pil europeo al 2%. In realtà ne servirebbe di più.
Il finanziamento del Fondo potrebbe avvenire con l’emissione di titoli di
debito da parte dalla stessa Commissione, il che è perfettamente coerente con
l’art.122 del Trattato che prevede spese speciali in caso di calamità naturali
e catastrofi indipendenti dalle responsabilità dei vari Stati.
Ursula von der Leyen |
Il punto di maggiore attrito, e che
rimane del tutto aperto, è se questo fondo erogherà prestiti o sovvenzioni. A
favore di questa ultima soluzione si sono ovviamente schierati i paesi più
bisognosi, mentre sulla prima opzione stanno quelli del Nord. Ursula von der
Leyen non si è sbilanciata e ha quindi annunciato un mix tra le due cose. Ed è
su questo che probabilmente si lavorerà e si litigherà in vista del 6 maggio. A
favore di aiuti in luogo di prestiti si stanno pronunciando numerosi e
autorevoli economisti, giustamente preoccupati dall’appesantimento del debito
nei prossimi mesi nei paesi che già l’avevano alto e che hanno pagato un prezzo
maggiore alla pandemia in corso. Ad esempio, Lucas Guttemberg, vicedirettore
del Jacques Delors Centre di Berlino,
insieme ad altri economisti, sostiene nettamente la tesi che l’implementazione
del concetto di solidarietà comporta in questa fase la concessione di aiuti.
Guttenberg ritiene che gli eurobond in questa fase non sarebbero lo strumento
ideale, perché si concentra sull’immediatezza. Una cosa però potrebbe non
eliminare l’altra: aiuti subito ed emissione di eurobond, magari perpetui, tali
cioè da non prevedere il rimborso del capitale ma solo la maturazione degli
interessi, come ha sostenuto lo stesso George Soros. Il varo degli eurobond è
infatti la misura che si proietta più di altre al di là della grave contingenza
e permetterebbe un passo in avanti nel travagliato percorso dell’unità europea.
Proprio per questo incontra la netta contrarietà delle parti più retrive dell’élite
europea.
Lo si comprende facilmente prestando
attenzione alle parole di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank ed ex
consigliere di Angela Merckel. “In Germania - dichiara ad Affari&Finanza del 20 aprile - c’è un ampio sostegno a favore
di una solidarietà europea in questa grave crisi. Questo include aiuti in campo
medico e gli aiuti finanziari (…) Tuttavia - egli aggiunge - una sostanziale
espansione aggiuntiva e a lungo termine della responsabilità comune,
modificherebbe radicalmente la natura dell’unione monetaria (…) quindi -
conclude - la priorità è ora quella di fornire aiuti pragmatici e disponibili
in tempi brevi”. In altre parole ciò che potrebbe superare gli storici limiti
della Ue, cioè quella di essere solo un’unione monetaria, è esattamente inviso
a chi la vuole rinserrare entro quella costrizione. Ma è esattamente questa
condizione che la può portare al fallimento.
Dal canto suo, pur non essendo
sufficiente, la Bce il suo ruolo lo svolge. Oltre agli acquisti dei titoli sul
mercato secondario per ingenti quantità - superando di fatto la cosiddetta capital key che avrebbe imposto acquisti
in proporzione alla quota capitale di ogni singolo stato membro, comprando più
titoli italiani che tedeschi - la Bce ha assunto una decisione importante e che
ci riguarda da vicino: quella di disarmare di fatto il potere delle agenzie di
rating decidendo di accettare come garanzia collaterale dalle banche anche i
titoli di Stato che venissero considerati al di sotto dei livelli di
investimento, cioè i cosiddetti junk bonds,
ovvero i “titoli spazzatura”. Un
sollievo, viste le condizioni tristi del nostro rating.
Il cammino verso una vera e propria,
stabilizzata e organizzata, mutualizzazione del debito è ancora lungo, pieno di
incertezze e di trabocchetti. Ma diversi tabù cominciano a cadere. Persino la
modifica dei Trattati non appare più un’ipotesi fantascientifica, anche perché
la dura realtà dimostra quanto essi fossero inadatti a fronteggiare situazioni
che pur non essendo affatto imprevedibili, certamente fuoriescono da un
tracciato di tranquilla normalità. Quando un insieme di norme non riesce a fare
questo, fallisce il suo compito più importante che è quello di affrontare e
risolvere la straordinarietà. Quindi va cambiato e in modo radicale. Molti
sostengono che i Trattati siano di fatto immutabili e che dunque si farebbe
prima a pensare a un’uscita dell’Italia dall’Eurozona o addirittura dall’intera
Ue. Ma una simile soluzione getterebbe immediatamente il nostro paese nelle
mani della speculazione internazionale e dei giochi delle maggiori potenze a
livello internazionale. Se c’è una cosa non negativa in questo mare di
negatività è che la questione non solo della sospensione del Patto di
stabilità, già attuata seppure in maniera temporanea, ma anche una eventuale revisione
dei Trattati non è più un tabù. Anche se farlo concretamente richiede ancora
molti sforzi e un cammino non breve.
*Saggista. Condirettore di
“Alternative per il Socialismo”
e già parlamentare.