di
Franco Astengo
Nella
fase dell’emergenza sanitaria si sono avuti effetti molto rilevanti sulle
prospettive di assetto istituzionale della Repubblica.
L’utilizzo
reiterato dello strumento del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
(DPCM) annunciati dallo stesso Presidente del Consiglio (erroneamente definito
“Premier”) in messaggi Facebook e televisivi condotti in solitario, ha aperto
un dibattito di livello costituzionale nel corso del quale si sono espressi
pareri molto diversi fra loro.
Del
resto lo stesso fenomeno era accaduto anche all’epoca delle deformazioni
costituzionali proposte dal PD nel periodo della segreteria (e presidenza del
Consiglio) Renzi: deformazioni costituzionali votate dal Parlamento usando il
voto di fiducia e poi bocciate dal corpo elettorale che, a grande maggioranza,
il 4 dicembre 2016 si era espresso per il “NO” nel referendum confermativo.
In
allora e anche oggi si è molto evocata la “centralità del Parlamento” stabilita
a suo tempo nell’interpretazione prevalente dell’articolato costituzionale
sulla forma di governo.
Va
chiarito, prima di tutto, che la forma parlamentare di governo è rimasta
inalterata nel tempo, nonostante che giornalisticamente si sia abusato nel numerare
presunte Prima, Seconda e perfino Terza repubblica.
Per
precisare meglio i termini della questione può essere il caso di cercare di
rileggere, sia pure in maniera molto parziale, gli atti dell’Assemblea Costituente.
La
discussione che si svolse a partire dal 23 settembre 1947 sugli articoli 53 e
seguenti del progetto di Costituzione presentato all’assemblea dalla
commissione dei 75, dimostrò che fra la fase della discussione nella seconda
sottocommissione e quella dell’Assemblea, i partiti politici avessero
notevolmente maturato le loro convinzioni sulla forma parlamentare di governo,
armonizzando così gli intenti e gli obiettivi tra i partiti maggiori a partire
dal riconoscimento della stessa opportunità dell’adozione di un sistema
bicamerale fino alla necessità di differenziare le elezioni della Camera e del
Senato in base a leggi elettorali ispirate a principi diversi tra loro.
Uno
dei temi fondamentali che affiorò durante tutta la discussione fu quella della
stretta connessione che avrebbe dovuto realizzarsi tra le decisioni che
l’Assemblea avrebbe dovuto assumere in tema di struttura del Parlamento e i
principi fondamentali che avrebbero dovuto essere enunciati e rispettati in
tema di rappresentanza politica.
Da
questo punto di vista le decisioni da prendere in tema di elezione e di
composizione della Camera e del Senato (oltre che, naturalmente, sul tema delle
loro funzioni) costituirono il completamento del dibattito che era avvenuto
sull’articolo 48, dedicato al diritto di voto e sull’articolo 49 dedicato ai
partiti politici. Fu subito dopo l’inizio della discussione sull’articolo 52
del progetto che conteneva, nel primo comma, la sintesi della scelta bicamerale
che il dibattito affrontò il tema generale della rappresentanza politica in
relazione alla dizione dell’art.5 del progetto che prevedeva che la Camera
fosse eletta a suffragio universale e diretto in ragione di un deputato per
ottantamila abitanti o frazione superiore a quarantamila.
Com’è
noto Giolitti presentò un emendamento in base al quale dopo le parole suffragio
universale e diretto si sarebbe dovuto aggiungere la frase: “(…) e segreto,
secondo il sistema proporzionale”; emendamento la cui presentazione fu
giustificata proprio in considerazione “(...) dell’’influenza grandissima del
sistema di elezione sulla fisionomia della rappresentanza…” e perché il sistema
proporzionale era quello che consentiva “(…)di esprimere nell’assemblea
legislativa la reale influenza che i Partiti hanno nel Paese…” e di garantire
meglio la tutela delle minoranze.
Giolitti
acconsentì a ritirare il suo emendamento e a trasformarlo in un ordine del
giorno (che fu approvato a larga maggioranza) dopo che Ruini ricordò
all’Assemblea che la seconda sottocommissione aveva già votato un emendamento
volto nella stessa direzione che conteneva, però, la raccomandazione di non
inserire (per “ragioni tecniche”) nella Costituzione nessuna norma che
privilegiasse un sistema elettorale al di sopra degli altri.
Per
la verità, fra le “ragioni tecniche” ricordate da Ruini, ce n’era una che
sovrastava tutte le altre: nella seconda sottocommissione era già affiorato, a
proposito dei sistemi elettorali, lo scontro tra i grandi partiti di massa
tutti favorevoli al proporzionale di lista, e i partiti minori, soprattutto quelli
di tradizione liberale e liberal-democratica, favorevoli, invece,
all’uninominale e, quindi, a un sistema tendenzialmente maggioritario.
In
questa complessa partita è interessante far notare che la composizione della
Camera e del Senato assunse da subito un grande rilievo, apparendo chiaro ai
Costituenti che la maggiore o minore numerosità della Camera dei deputati (la
cui prevalenza numerica era comunque scontata) sarebbe stata ieri, come nel
dibattito odierno, uno degli elementi fondamentali che avrebbero determinato
non solo il peso ma anche il carattere politico del bicameralismo italiano.
Partendo
da questo assunto si deve collegare anche il discorso riguardante il numero dei
parlamentari: numero la cui determinazione sarà sottoposta a referendum non
appena conclusa la fase emergenziale che stiamo attraversando.
La
riduzione del numero dei parlamentari è stata voluta essenzialmente dal M5S e
subita dagli altri partiti accondiscendenti a una visione meramente populistica
dell’uso delle Istituzioni.
Nell’Assemblea
Costituente proprio sulla discussione sull’art.53 del Progetto (“La Camera dei
Deputati è eletta a suffragio universale e diretto in ragione di un deputato
ogni ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila”)
intervennero subito Togliatti, da un lato, Nitti e Conti dall’altro.
Favorevole, il primo, all’adozione dell’articolo nella sua formula originaria,
favorevoli, i secondi, a innalzare a centomila (Nitti) o a centoventimila
(Conti) il rapporto fra gli abitanti e i seggi.
È
molto interessante, a questo proposito, riflettere sui due motivi che Togliatti
volle porre alla base della scelta adottata dal gruppo comunista a favore del
rapporto tra eletti/abitanti numericamente più basso.
Anzitutto
perché la scelta di un numero più alto avrebbe distaccato troppo l’eletto
dall’elettore e in secondo luogo, distaccandosi troppo l’elettore dall’eletto
quest’ultimo avrebbe acquistato di più la figura di un rappresentante di
partito e non più di rappresentante di una porzione di popolo che egli, in
qualche modo, avrebbe dovuto conoscere mantenendo anche rapporti personali e
diretti.
Togliatti
rivendicava così la necessità di istituzioni che consentissero alla
rappresentanza politica di operare al meglio al di là di riduttive
considerazioni sui loro costi (questione dei costi che sta alla base della
semplicistica valutazione dei proponenti la riforma oggi in discussione).
Con
questo suo intervento il segretario del PCI aveva fornito uno dei più
interessanti contributi al tema della rappresentanza politica che siano stati
sviluppati nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente.
Se
si ricordano, infatti, le pagine dedicate da Bernard Manin alle discussioni sui
principi della rappresentanza politica che divisero i federalisti e gli
antifederalisti alla Convenzione di Filadelfia (1787) si osserverà che le idee
di Togliatti e del PCI, (favorevole, come tutti i grandi partiti, al
proporzionale di lista) finivano
singolarmente per coincidere con le opinioni del democratico e
federalista Madison, convinto che l’esistenza di grandi collegi elettorali
avrebbe rafforzato la rappresentatività degli eletti senza favorire
necessariamente l’elezione di candidati sostenuti dall’aristocrazia mercantile
e terriera. Secondo l’interpretazione togliattiana in una situazione qual era
quella italiana del secondo dopoguerra, la concentrazione della competizione
elettorale in grandi collegi avrebbe, anzi, consentito ai partiti politici (e
particolarmente a quelli più grandi) di contrastare la forza del grande
capitale e dei poteri costituiti consentendo una vera e paritaria competizione
democratica a livello nazionale. Allora era chiaro che questa interpretazione
data da Togliatti al sistema della rappresentanza politica coincideva
pienamente con le esigenze e le opinioni di democristiani e socialisti e più in
generale con quella “convenzione proporzionalistica” che tendeva ad allargare
al massimo la partecipazione politica attraverso il sistema dei partiti e che
aveva consentito, dopo l’unanimismo del CLN, di eleggere la Costituente e di
iniziare il processo di ricostruzione di uno stato democratico: cosicché
l’interesse comune dei più grandi partiti a un allargamento della loro
rappresentanza nella Camera dei deputati segnò l’affermazione definitiva di
quella “convenzione proporzionalista” appena ricordata.
Così
fu adottato quel sistema proporzionale attraverso la cui adozione di metodo
avrebbe reso la Camera dei deputati la camera rappresentativa per eccellenza e
che avrebbe poi condotto, nella terza legislatura, a determinare in numero di
trecento quindici i senatori e in seicento trenta i membri della Camera stessa.
La
decisione circa l’elettività del Senato e la presenza costituzionale della
seconda camera come organo di garanzia costituisce l’altro punto sul quale, in
questo momento, prestare il massimo di attenzione rispetto all’analisi
riguardante l’andamento dei lavori nell’Assemblea Costituente.
Il
Senato elettivo nacque, infatti, come custode contro le “prevaricazioni della
maggioranza” e i possibili attentati ai diritti politici e di libertà garantiti
dalla Costituzione. Principi fondamentali che non possono essere cancellati da
alcuna revisione costituzionale.
D’altra
parte l’impossibilità di abolizione del Senato, al di là della partecipazione
alla funzione legislativa, deriva dall’attribuzione di concorso, in una
dimensione piena e paritaria, alla nomina delle funzioni che appartengono alla
sfera delle garanzie costituzionali e che assicurano l’equilibrio fra il
principio di maggioranza e quello di rigidità e prevalenza effettiva della
Costituzione: Presidente della Repubblica, giudici della Corte Costituzionale,
componenti laici del Consiglio superiore della magistratura.
Se
per quel che riguarda la nomina dei membri di questi organi costituzionali o di
rilievo costituzionale, la nostra Costituzione ha scelto il metodo di elezione
di secondo grado da parte dei parlamentari (o, per quel che riguarda il
Presidente della Repubblica anche con il concorso dei delegati regionali)
appare del tutto evidente che i parlamentari esercitano quelle funzioni non in
rappresentanza della Camera cui appartengono ma in diretta rappresentanza del
corpo elettorale che li ha designati: rimanendo essi direttamente responsabili
di fronte a esso delle scelte compiute in quelle occasioni.
Con
particolare riferimento alla forma di governo le riforme elettorali realizzate
a partire dal 1993, con l’adozione di sistemi prevalentemente maggioritari (o
proporzionali corretti con premio di maggioranza) hanno contribuito ad
indirizzare, almeno fino alle ultime elezioni politiche del 2018, il sistema
politico italiano verso un indirizzo tendenzialmente bipolare.
Tuttavia
tale meccanismo, pur realizzando l’alternanza tra coalizioni, non è riuscito ad
assicurare stabilità politica e istituzionale soprattutto a causa del carattere
preminentemente elettorale e non politico – programmatico delle coalizioni.
È
inutile sottolineare, al di là dei giudizi pronunziati dall’Alta Corte sui
profili di incostituzionalità presenti in quegli articolati di legge, sul piano
della stabilità di governo e della partecipazione democratica dei cittadini
(apparsa sostanzialmente in progressivo calo) sono stati senz’altro deludenti.
Si
è verificato un fenomeno di vera e propria “dispersione” nel rapporto tra
eletti ed elettori con lo svilimento del potere di scelta e di decisione da
parte di cittadine e cittadini derivante dalla previsione del voto senza
possibilità di espressione di preferenze, essendo previste liste bloccate di
candidati indicati secondo un ordine di lista stabilito dai vertici dei partiti
politici.
Il
problema che si pone, tuttavia, è quello di comprendere se e in che modo possa
essere possibile recuperare, anche attraverso un ripensamento della forma
partito nel frattempo degenerata nel partito personale o indiscriminatamente “catch
all party”, un ruolo centrale degli organi di rappresentanza politica oppure
se risultino ineluttabili le tendenze verso il superamento dei modelli attuali
di democrazia rappresentativa e la loro sostituzione con sistemi di democrazia
populistica e plebiscitaria.
Da
un lato la crisi della sovranità dello Stato riconducibile al processo di
globalizzazione e, all’interno del continente europeo, alla connotazione
prevalentemente economica del processo di integrazione dell’UE, unitamente alla
crisi finanziaria che ha caratterizzato l’ultimo decennio e oggi accentuata
dall’emergenza sanitaria, hanno attivato spinte sovraniste contraddistinte da
una forte contrapposizione verso gli organismi internazionali e sovranazionali
e da una esaltazione delle politiche identitarie.
Sono
stati così alimentati movimenti politici di matrice populista che si ispirano
al popolo come entità unica e omogenea posta in contrapposizione con altre
diversamente articolate.
Ne
è così discesa una critica alla stessa nozione di rappresentanza politica e al
parlamentarismo, ritenuti in questa fase storica un male necessario, da
superare attraverso “l’affermazione di una compita democrazia elettronica”
maldestramente confusa con forme di democrazia diretta, l’unica ritenuta idonea
ad affermare il principio “uno vale uno” e il pieno coinvolgimento del popolo
nei meccanismi decisionali.
Come
rispondere allora a questa deriva e quanto vale la riaffermazione della
centralità del parlamento nello svolgimento dei processi legislativi e di
quelli politici? Oggi la politica ha bisogno di dibattiti pubblici accesi,
perché le decisioni devono essere discusse e corrette in pubblico.
I
politici devono spiegare le loro posizioni, assumere le loro responsabilità
anche di fronte agli oracoli della “tecnica”.
I
politici debbono parlare con elettrici ed elettori confrontando le loro
posizioni anche quelle opposte per rendere visibile la competizione politica.
I
dibattiti debbono rappresentare il pluralismo. Non debbono essere concessi
accenti autoritari assunti in nome di una presunta razionalità “tecnica” che
non può essere definita come patrimonio esclusivo di qualcuno. Si ravvede la
necessità di ritornare a coltivare la tolleranza nei confronti delle divergenze
e dei contrasti, rischiando la presentazione di punti di vista controversi,
rivedendo e riformulando le politiche e ammettendo i propri errori.
Proprio
ciò che non sta succedendo in questi tempi così difficili.