Caro Direttore, finalmente ho trovato risposta ai miei rovelli di questi ultimi giorni, e cioè come incidere politicamente per ripristinare una sanità pubblica territoriale, mai come in questo frangente necessaria a curare tempestivamente chi dovesse essere colpito da covid19 prima che degeneri in ricovero ospedaliero, ecco perché ti chiedo, ove tu fossi d'accordo, di dare visibilità su Odissea a queste petizioni promosse dal personale sanitario lombardo a favore del ripristino di una sanità pubblica e territoriale. Per questo mi rivolgo a quanti auspicano una inversione di tendenza nella gestione della sanità lombarda, ed in particolar modo a quanti, intellettuali e uomini di cultura, hanno firmato l'appello a sostegno della libertà di circolazione degli over65, affinché sostanzino questo diritto alla libertà con una messa in sicurezza della loro e della nostra incolumità.
Gabriella Galzio
Con l’evoluzione del contagio e dei decessi per
Covid-19, da febbraio in avanti, abbiamo visto frantumarsi il mito
dell’eccellenza sanitaria lombarda, un mito che si è basato per molti anni
sulla privatizzazione del servizio sanitario a discapito della sanità pubblica
e territoriale.
La Lombardia è la regione che ha creato un mercato sanitario nel quale l’offerta di servizi da parte di soggetti privati era di fatto equiparata a quelli pubblici. Dal decreto legislativo 502/92, che trasforma le Usl in aziende, sino alla riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce nuovi poteri e autonomia alle Regioni, passando per la riforma Bindi del 1999 e la legge 133, che lascia alle Regioni il compito di finanziare direttamente la sanità, in Lombardia il peso del privato accreditato è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi 25 anni, favorendo lo spostamento sul privato della maggior parte delle prestazioni non urgenti e delle strutture di ricovero ordinario mentre gli ospedali pubblici sono stati accorpati, chiusi o fortemente ridimensionati.
Tutte queste tendenze sono diventate chiare durante l’epidemia, quando è stato evidente che:
La Lombardia è la regione che ha creato un mercato sanitario nel quale l’offerta di servizi da parte di soggetti privati era di fatto equiparata a quelli pubblici. Dal decreto legislativo 502/92, che trasforma le Usl in aziende, sino alla riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce nuovi poteri e autonomia alle Regioni, passando per la riforma Bindi del 1999 e la legge 133, che lascia alle Regioni il compito di finanziare direttamente la sanità, in Lombardia il peso del privato accreditato è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi 25 anni, favorendo lo spostamento sul privato della maggior parte delle prestazioni non urgenti e delle strutture di ricovero ordinario mentre gli ospedali pubblici sono stati accorpati, chiusi o fortemente ridimensionati.
Tutte queste tendenze sono diventate chiare durante l’epidemia, quando è stato evidente che:
Attilio Fontana |
1. le “eccellenze” lombarde erano poco attrezzate a gestire le emergenze, specializzate come sono nella medicina ordinaria mentre l’emergenza e i letti di terapia intensiva rimangono per la maggior parte delegate al pubblico;
2. l’assenza di una forte rete di medicina territoriale, su cui si fonda la sanità pubblica, impediva la prevenzione del diffondersi dell’infezione sul territorio;
3. in assenza di questa rete, si aggravava la diffusione dell’epidemia dentro alle case e tra le famiglie: in molti casi chi aveva bisogno di un tampone si è trovato solo, mentre chi arrivava in ospedale era spesso agli ultimi stadi dell’infezione;
4. in questa situazione, la gravità dei casi trattati non ha fatto che acuirsi, portando il numero dei decessi a circa cinque volte quelli della media nazionale, mentre il personale sanitario si è trovato a combattere l’infezione negli ospedali con rischi e sacrifici personali troppo elevati.
Per noi, l’eccellenza lombarda è diventata il simbolo stesso della “crisi della cura”, quel modello neoliberale di privatizzazione dei servizi alla comunità e alla persona che, nell’ultima metà di secolo, si è basato sull’erosione dell’idea stessa di un’idea di welfare e di salute accessibile e democratica.
Dallo scoppio dell'epidemia, diverse categorie del settore sanitario sono intervenute nel dibattito per evidenziare gli errori di Regione Lombardia nella gestione della crisi e dare indicazioni strategiche: dalla Federazione regionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fromceo), ai medici di base, dottori, medici, anestesisti, infermieri, OSS e operatori hanno sottolineato la necessità di applicare da subito una strategia di cura idonea all’emergenza, fondata sul rafforzamento della medicina territoriale e sul ritorno di significativi e strutturali finanziamenti alla sanità pubblica e ai lavoratori che ne garantiscono la tenuta.
Anche le indicazioni sanitarie che l’OMS suggerisce in questa fase di pandemia, ovvero l’applicazione delle tre T - Test, Trace, Treat - e, quindi, la capacità dei territori di testare, rintracciare gli infetti, isolarli e curarli, ci ricordano come non si possa prescindere dalla capillarità del servizio di medicina territoriale - lo stesso sistema territoriale che, come denunciato dagli stessi operatori del settore, negli ultimi 25 anni è stato smantellato.
In questo contesto, il dramma delle RSA, la delibera XI/2906 dell’8 marzo con cui la Regione Lombardia chiedeva alle ATS di individuare nelle RSA strutture autonome per trattare pazienti Covid-19 e l’incapacità di fornire, velocemente, adeguati DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) all’interno di strutture non ospedaliere, sono l’ultimo tassello in una sequenza di decisioni scellerate, che tutto fanno salvo che garantire la salute della società.
Alla vigilia della ‘Fase 2’ siamo sgomenti per quanto accaduto in queste settimane e molto preoccupati di quanto può accadere in Lombardia al momento della riapertura. Ad oggi, infatti, non c’è traccia di investimenti per la cura e la prevenzione nel territorio; nessuna strategia per aumentare la diffusione dei tamponi o per attuare un meccanismo di tracciatura, test e isolamento dei casi positivi. Nessuna traccia di ripensamenti circa gli errori commessi nella ‘Fase 1’, ma la pretesa di riaprire le attività produttive e commerciali come nel resto del territorio nazionale, facendo valere la propria “autonomia” e il proprio peso economico, nonostante i numeri indichino che l’emergenza non è passata. La corsa alla riapertura fortemente voluta da Regione Lombardia, in un territorio nazionale caratterizzato da contesti epidemiologici fortemente diseguali nelle diverse regioni, dimostra come la Fase 2 risponda a pressioni economiche e politiche più che di salute pubblica, il cui fine è riaprire al più presto il sistema produttivo Lombardo, ripetutamente definito come il motore dell’intero paese dalle associazioni di categoria e da Confindustria. Tuttavia, la decisione di riaprire la Lombardia nel momento in cui il contagio non è ancora sotto controllo, appare problematica, perché se da un lato rischia di accelerare una nuova ondata di infezioni, dall’altro si fa beffa di tutte quelle regioni che sono state costrette a chiudere per settimane, nonostante avessero molti meno casi.
Non sorprende che, a pochi giorni dalla riapertura, il dibattito tra il personale medico e i governatori sia tornato ad accendersi, ma ancora una volta è venuta meno la capacità di ascoltare tutti coloro che per due mesi sono state definiti eroi, nel momento in cui hanno messo in discussione le politiche sanitarie intraprese ai vertici della Regione. Non siamo disposti a vedere ripetersi nella Fase 2 gli stessi errori della Fase 1. Pensiamo che sia necessario chiedere le dimissioni immediate dei politici che attualmente governano la Regione Lombardia. Pensiamo che le indicazioni dei lavoratori della sanità non possano essere ignorate, perché mostrano prospettive ‘essenziali’ per ricostruire un servizio di sanità pubblica territoriale, non ricattabile e universale.