di Mihal Ramač
Ivan è arrivato con due borse e una chitarra. Era
indignato nei confronti dei soldati, si vergognava dell’impotenza dei propri
connazionali, era amareggiato per aver dovuto lasciare la propria patria. Era
convinto che il comunismo sarebbe scoppiato come un pallone. A me e ai miei
coetanei interessavano solo i bagni, il calcio e i balli. Va bene, anche
accarezzare le ragazze. Sapevamo che l’estate precedente si era molto parlato
dei russi e dei cecoslovacchi, non ci preoccupavamo però come si preoccupavano
gli adulti. Non volevamo saper nulla di qualsivoglia comunismo. Ivan era solo
di qualche anno più vecchio, aveva terminato il secondo anno dell’Università ma
era immerso nella politica fino al collo. Ogni sera ci raccontava di quanto gli
si era gonfiato il petto la scorsa primavera e di come aveva trovato ributtante
l’arrivo dei carri armati sulla passeggiata cittadina. Poi prendeva la chitarra
e cantava le canzoni proibite dopo l’arrivo dei russi. Con quelle canzoni e con
il suo atteggiamento da focoso anticomunista, conquistava il cuore delle
ragazze più facilmente di noi.
Sono
passati vent’anni da quell’estate. Ivan se n’era andato alcuni mesi dopo il suo
arrivo. Mi ha lasciato la chitarra. Si è fatto vivo da Roma, poi da Monaco di
Baviera. Spesso penso a lui quando sono seduto sul treno che va verso nord. In
quei treni, la cosa più importante è tenere al sicuro il passaporto, i soldi e
il biglietto di ritorno. Su quei treni ho conosciuto un infinito numero di
personaggi che nessuna letteratura socialista è mai riuscita a creare, anche se
sono i figli legittimi del socialismo reale. Non hanno studiato scienze
economiche, eppure conoscono esattamente i difetti delle politiche economiche
dei propri paesi e di quelli limitrofi. Non hanno studiato giornalistica,
eppure sanno che i giornali nei loro paesi sono utili solo per accendere il
fuoco e per avvolgere le uova. Non hanno letto gli articoli di fondo e non hanno
dato neppure un’occhiata al listino dei cambi valute. Anche senza questo, però,
sanno infallibilmente il valore del dollaro nei confronti dello zlot. Senza
calcolatrice, cambiano i fiorini in corone e i lei in dinari. Ogni denaro è
utile se si spende in maniera intelligente. Non seguono i resoconti di borsa,
ma sanno sempre e con esattezza che cosa bisogna procurarsi dall’altra parte
della frontiera per rivenderlo e guadagnarci da quest’altra parte. Non hanno
studiato Diritto, ma sanno che il Diritto è sempre dalla parte dei più forti.
Per questo hanno imparato a superare in astuzia quelli che sanno di non poter
in alcun modo vincere in politica. A differenza dei loro Stati, sono sempre in
attivo quando vendono e quando comprano. Non si dichiarano internazionalisti,
anche se si sentono perfettamente a casa in tutti i mercati del mondo, dove
colmano le mancanze delle economie socialiste, che sono sempre esemplari e
perfette, ma solo sulla carta.
Il
libero mercato si manifesta soprattutto lì dove l’economia pianificata non
lascia libertà. I passeggeri dei treni strapieni che vanno dal Baltico al
Mediterraneo sanno che i loro politici mentono appena aprono bocca. Conoscono
l’antica regola per cui non sarà certo chi l’ha distrutta a rimettere a posto
l’economia domestica. Sanno che la casa non si salva dalla distruzione
semplicemente ridipingendone la facciata. Non si preoccupano troppo della
politica, non sanno quanto dureranno gli Stati fondati sulle menzogne, ma sanno
che devono darsi da fare se vogliono sopravvivere. Per questo, riempiono le
borse di tutto cià che possono comprare, si stipano sui treni, risolvono i
numerosi problemi che i poliziotti di frontiera danno loro e alla fine
trasformano la roba trasportata in denaro. Con quei soldi comprano altra roba,
preziosa e ricercata nei posti di provenienza. Dadi per il brodo, vestiti e
calze, abiti per bambini, porcellana e cristalli, stoffe, cotone e lana, attrezzi
per tutti i mestieri, tester e chiavi inglesi, rotoli di cavi, materiale
elettrico, scaffali, candele di automobili, spine e interruttori, pezzi di
ricambio per automobili e biciclette, magnetofoni e giacche di pelle, tessuti
ricamati e centrini di pizzo, pentole e padelle, binocoli e compassi, fornelli
elettrici, camicie e stivali militari, asciugamani, medicine, vernici e
tempere, profumi per ogni gusto e portafoglio, cioccolate e vodka, tende e
tappeti, spumanti, conserve, quadri senza cornici e cornici d’oro... Tutto al
prezzo di uno o pochissimi spiccioli.
Nelle
stazioni o nei parchi vicino, nelle vie centrali o periferiche, davanti agli
stadi, nei passaggi sotterranei, ovunque ci sia un posto utile, il mercato nero
corregge gli errori che il grande Lenin e il suo allievo Stalin hanno creato
nel sistema. Un centinaio di persone più coraggiose e intraprendenti della maggioranza
dei propri conterranei crepano di caldo o di freddo sui treni che si scuotono
fino all’inverosimile, tollerano la puzza e la polvere, i ladri, i poliziotti e
i doganieri, portano con sé borsette e attaccano pacchi di soldi sotto
l’ascella o alla cintura, nascondono catenine d’oro nelle calze o nelle
mutande, mangiano kifle, burek e pastette, mercanteggiano e
litigano, arrivano a destinazione, tornano a casa e finalmente tirano un
sospiro di sollievo: ancora una volta sono riusciti ad aver ragione
dell’onnipresente vita mostruosa a cui la vita nel bisogno e nell’obbedienza li
ha costretti. Non appena si riposano e si riprendono, partono per una nuova
avventura. Chi non vuole rischiare, rimane nella propria povera casa, si
lamenta e li invidia. E aspetta che lo Stato gli offra ciò che gli serve. A
ciascuno secondo il proprio bisogno, come è scritto nei manuali.
Gli
Stati socialisti-modello con i loro Politburo, i comitati centrali, le
accademie della scienza e i vari istituti, con migliaia di scienziati pagati profumatamente
e pluripremiati, professori e propagandisti, non sono neanche lontanamente lucidi ed efficienti come i loro cittadini. Non si sono ricordati di produrre o
di importare quello che è necessario. Non si sono ricordati che le dame di
tutti i paesi vogliono vestiti decenti e belli, che tutti gli artigiani del
mondo hanno bisogno di smerigliatrici e trapani... che il mondo cambia
continuamente e non ci sono frontiere ed eserciti che possano fermare il tempo.
Ho
cercato di spiegare tutto questo a un ragazzo dell’Ohio
sul treno Budapest-Praga in una notte di maggio, 12 anni dopo la
Primavera di Praga. Grazie ai libri, lui conosceva molto più di me i sistemi
politici ed economici al di là della cortina di ferro. Non aveva però mai visto
la follia con i propri occhi. Non aveva mai visto i vagoni di seconda classe da
cui per poco non cadono fuori le persone esauste, che da giorni non si lavano, e
le valigie, e i pacchetti. Non ha mai venduto di contrabbando nemmeno una penna
biro. Non riusciva a capire perché i poliziotti alla frontiera lo interrogavano
e lo controllavano come se fosse sospetto. I suoi appunti sembravano più
pericolosi dei pacchi di 30 kg pieni di chissà quali merci. Lo mandava fuori di
testa ciò che in questa parte del mondo è normale.
A
me hanno chiesto solamente dove andassi e che cosa ci fosse nella piccola
borraccia che stava sul tavolino. Con un sorriso hanno declinato il mio gentile
invito a favorire. Andavo a Praga a seguire, per poi farne un resoconto, la visita
del Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia alla
Repubblica Socialista della Cecoslovacchia. Allora avevo già ben capito perché
Ivan se ne fosse andato dalla propria patria, dopo aver messo in due valigie
tutto ciò che era necessario per cominciare una nuova vita nel mondo libero.
Ho
scritto con un linguaggio sterile il mio articolo nelle sale del quartiere di
Hradčany perché potevo esclusivamente riportare quello che dicevano i due capi
di governo e i loro collaboratori. Non era ancora tempo - solo due anni fa - di
scrivere che al socialismo di quelle parti non restava che scoppiare come fosse
un palloncino. I treni del contrabbando che partono già in ritardo e i mercati
dell’Europa dell’Est erano la più viva testimonianza che una storia stava per
finire. (1989)
PS:
Ivan dell’inizio della storia vive oggi nella sua patria libera con una
pensione tedesca. La maggior parte dei suoi coetanei ha pensioni ceche, ma in
ogni caso europee. I miei coetanei e io - che un tempo compativamo coloro che
venivano dai paesi comunisti, e qualche volta li insultavamo anche - adesso
siamo da compatire. Ora è il nostro paese a trovarsi dietro la cortina di
ferro, e tutto quello che da qui si potrebbe vendere di contrabbando è già
stato venduto.
[Da
“Zov Vedrih Vidika”, Mediterran Publishing, Novi Sad. Trad. it. di
Christian Eccher]