di
Franco Astengo
In un suo intervento pubblicato da “il Manifesto” nella rubrica “Rimediamo”,
Vincenzo Vita si pone un interrogativo fondamentale nella prospettiva del “dopo-virus”.
L’articolo riguarda la condizione materiale di chi opera nel settore dello
spettacolo, della fruizione dell’arte e di tutto quanto è legato al nostro
“immaginario dell’effimero”.
Attività
bruscamente interrotte e che si prova a proseguire attraverso l’esposizione
virtuale consentita dalle nuove tecnologie: si tratti di cinema, teatro, mostre
e quant’altro richieda l’opera di figure decisive per l’industria della
creatività. Figure che oggi si trovano abbandonate a loro stesse e che senza
iniziative esterne di sostegno rischiano di sparire dal nostro panorama
economico e di conseguenza culturale.
Non
è questo però il punto che intendevo affrontare nell’occasione.
Vita,
infatti, si domanda: “Vogliamo abituarci a fare a meno del cinema- cinema e
dello spettacolo dal vivo?”. “Tra l’altro chi non ha la pay-tivù deve o dovrà
accontentarsi dei fluviali palinsesti generalisti?”.
In
questo modo sono così formulati due quesiti che si collocano ben oltre lo
specifico cui sono rivolti.
Ci
troviamo davanti alla grande incognita riguardante il come si modificheranno,
necessariamente e/o volontariamente, gli stili di vita nel momento del
passaggio da questa fase così inedita ad una successiva dai contorni ancora
incerti.
Questo
periodo segnato dall’isolamento e da quello è stato definito “distanziamento
sociale” ha modificato non soltanto lo scorrere della nostra quotidianità ma ha
anche colpito quella che era la scala dei valori di massa stabilita a suo tempo
nell’egemonia della società affluente dei consumi individualistici.
Tutto
lo scenario dell’immaginario dell’effimero ne è stato colpito: tutto ciò
che si è situato all’interno e nei paraggi del perimetro definibile (anche a
forza) come “culturale” e si è imposto come fatto di tendenza, resterà
modificato.
Non
vedremo soltanto il prodursi di una “prudenza delle abitudini” ma anche il
ricollocarsi dei gusti, delle preferenze, delle opinioni.
Questo
discorso potrebbe valere non soltanto per il cinema, il teatro, la musica, i
diversi campi della sperimentazione artistica ma anche per l’industria della
frequentazione di mostre (diventate nel frattempo colonna portante di un pezzo
dell’industria turistica) o per l’industria dello sport iper professionistico,
tutto televisivamente globale, scandito dai grandi appuntamenti.
L’interrogativo
non potrebbe essere quello del quando riprenderà il campionato di calcio, la
formula 1 o il motomondiale? Oppure se sarà ancora possibile organizzare
l’Olimpiade nella logica del gigantismo che ha dominato quest’evento nel corso
degli ultimi decenni? Oppure, sempre per restare ai giochi olimpici, si
dovranno recuperare scenari del tipo di quelli visti nei filmati di Londra’48?
Nel
suo articolo Vita pone anche il tema dell’industria editoriale e anche in
questo caso l’interrogativo rimane: quanto rimarrà della super produzione che
si è imposta in tempi di vorticoso mercantilismo imposto anche in questo
settore attraverso la stretta connessione con il veicolo pubblicitario
alimentato dall’industria televisiva, del web, dei social network?
Non
affronto qui il tema della comunicazione e dell’informazione che ci porterebbe
troppo lontano ma è chiaro che in questo discorso “tout se tient”.
Si
tratta di rispondere a una domanda: il pubblico sarà ancora spasmodicamente
interessato a questi eventi e a questo tipo di consumo?
Ancora:
da dove arriveranno le risorse perché sia mantenuto il livello di
spettacolarizzazione nel messaggio mediatico cui si era arrivati?
Molti
invocano mutamenti epocali e si prevedono passaggi mai sperimentati prima sul
piano economico; questioni concrete al riguardo delle quali c’è da chiedersi se
sarà necessario spostare risorse in direzione di settori che come abbiamo
imparato necessitano di disporre di assolute priorità d’intervento come la
sanità.
Serviranno
meccanismi di riequilibrio, si aprirà una fase di forte conflittualità sociale,
serviranno nuove espressioni politiche e di intermediazione in un quadro che si
prevede di impoverimento generale.
Come
potremo trovarci all’altezza di disegnare il futuro senza una modifica profonda
nelle abitudini, nelle opinioni, nei gusti anche in quel campo che un tempo
sarebbe stato giudicato ai confini dell’artificiosamente ingigantito e reso
apparentemente indispensabile dall’industria della pubblicità?
Non
si dovrebbe forse pensare ad “asciugare” l’offerta e renderla più aderente
all’insieme delle prospettive economiche e sociali che si presenteranno nel
quadro di una modifica delle priorità?
Quale
spostamento nelle scelte di vita dovrà avvenire tra il bruciare le risorse in
modo egoistico nell’edonismo del consumo e l’esigenza di rafforzare gli
strumenti degli interventi destinati al collettivo, in ispecie per
corrispondere alle esigenze di recuperare elementi del welfare universalistico?
Quale
tipo di operazione di redistribuzione economica ma anche culturale sarà necessaria?
Quale distinzione dovremo essere capaci di cogliere per interpretare la reale
creatività e distinguerla da quella imposta a forza dai maghi dell’illusionismo
dell’apparire? Tanti interrogativi che racchiudono una sola incognita: quale
tipo di società di massa emergerà nei prossimi anni dopo una tale sottrazione
di futuro che ci sarà imposta dall’emergere della malattia come contraddizione
principale?
Tutte
domande alle quali dovrebbe rispondere la politica, ma anche a questo punto
sorge ancora un dilemma: quale valore avrà la politica in una società
ri-dimensionata come quella che si profila all’orizzonte?
I
segnali non sono incoraggianti.