di Alfonso Navarra
Spunti per una discussione
Nel 1984 lessi
con vivo piacere in carcere (pagavo la disobbedienza civile contro i
missili di Comiso), L’ecologia della libertà di Murray Bookchin.
Si parva licet, allo stesso modo di come successe poi al leader
Kurdo Ocalan, ne rimasi subito più che colpito, fulminato: un libro che
vale Il Capitale, credetemi. A mio parere, in confronto alla
approfondita elaborazione ivi contenuta (lo studio del sistema del dominio di
cui il capitalismo moderno è solo una delle forme espressive) l’“ecologia
integrale” di Papa Bergoglio, pur benedetta nel panorama culturale odierno, è
solo una formula retorica senza spessore di analisi. Bookchin poneva già
allora la distinzione tra ecologia sociale, visione complessiva ed alternativa
del cambiamento, ed ambientalismo limitato, settoriale, confinato nei
"limiti del sistema". (Ed anche tra essa - l’ecologia sociale - e le
varietà irrazionalistiche di “ecologia profonda” e simili). Per molti aspetti
credo lo si possa considerare un precursore della cultura della terrestrità.
Personalmente riconosco il Maestro e la sua grandezza, ma
ovviamente, da libertario non anarchico - democratico radicale verde (che non
rinnega il passato demoproletario), non sento affatto l’obbligo di condividere
al 100% la sua impostazione né tantomeno le sue singole posizioni.
Sono però convinto che confrontarsi con
il pensiero innovativo di Bookchin (dopo 40 anni è ancora all’avanguardia, poco
ma sicuro!) è tra le cose che valga la pena fare per spendere utilmente il
tempo, della clausura forzata che stiamo subendo, con una riflessione che
ci fa crescere in consapevolezza, libertà e autenticità. E che dà
strumenti per una visione complessa e intensa di tutte le nostre lotte
orientate a sopravvivere e a vivere con dignità.
Consigliandovi vivamente di acquistare la ristampa su carta delle
edizioni Eleuthera (quando riapriranno le librerie), lascio ora parlare
l’autore, con stralci dalla sua prefazione a mo’ di antipasto:
“Eufemismi come «società tecnologica» o «società industriale», così
diffusi nella letteratura ecologica contemporanea, tendono a mascherare con
espressioni metaforiche la brutale realtà di una società predatoria. Tendono a
distogliere la nostra attenzione dalla natura sfruttatrice di un’economia
strutturata sulla competizione anziché sui bisogni degli esseri umani e della
vita non umana. Così, la tecnologia e l’industria vengono rappresentate come i
protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e dell’illimitata
accumulazione di capitale, al posto cioè di un sistema di accumulazione, di
«crescita», che alla fine si mangerà l’intera biosfera, se gli si consentirà di
sopravvivere abbastanza a lungo.
Agli enormi problemi sistemici creati da questo ordine sociale si
devono aggiungere gli enormi problemi sistemici creati da una mentalità che
cominciò a svilupparsi assai prima della nascita del capitalismo e che in esso
è stata completamente assorbita. Mi riferisco alla mentalità strutturata
attorno alla gerarchia e al dominio, in cui il dominio dell’uomo sull’uomo ha
dato origine al concetto che dominare la natura fosse «destino», anzi necessità
dell’umanità. Ora, il fatto che nel pensiero ecologico abbia cominciato a
filtrare l’idea che questa concezione del «destino» umano sia perniciosa è
certo confortante. Tuttavia non si è ancora compreso chiaramente come questa
concezione sia sorta, perché persista e come possa essere eliminata. E invece
si devono esplorare le origini della gerarchia e del dominio, se si vuole
trovare un rimedio allo sconquasso ecologico. Il fatto che la gerarchia in
tutte le sue forme - dominio dell’anziano sul giovane, dell’uomo sulla donna,
dell’uomo sull’uomo in forma di subordinazione di classe, di casta, di etnia o
di una qualsiasi delle altre possibili stratificazioni di status sociale - non
sia stata identificata come un ambito di dominio assai più ampio del solo
dominio di classe appare come una delle carenze cruciali del pensiero radicale.
Nessuna liberazione sarà mai completa, nessun tentativo di creare un’armonia
tra gli esseri umani e tra l’umanità e la natura potrà mai avere successo,
finché non saranno state sradicate tutte le gerarchie e non solo le classi,
tutte le forme di dominio e non solo lo sfruttamento economico.
Queste idee costituiscono il nucleo essenziale della mia concezione
di ecologia sociale e di questo libro, L’ecologia della libertà.
Ho accuratamente sottolineato l’uso che faccio del termine
«sociale», quando mi occupo di questioni ecologiche, per introdurre un altro
concetto fondamentale: nessuno dei principali problemi ecologici che ci
troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un profondo mutamento
sociale. È questa un’idea le cui implicazioni non sono ancora state pienamente
assimilate dal movimento ecologico. Portata alle sue logiche conclusioni
significa che non si può pensare di trasformare la società presente un po’ alla
volta, con piccoli cambiamenti. (…)
Si deve accettare il fatto che l’attuale società capitalista debba
essere rimpiazzata da quella che io chiamo «società ecologica», cioè da una
società che implichi i radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare
gli abusi ecologici. Anche sulla natura di tale società
ecologica si deve approfonditamente riflettere e dibattere. Alcune conclusioni
in merito sono quasi ovvie. Una società ecologica, se deve eliminare il
concetto stesso di dominio sulla natura, deve essere non gerarchica e senza
classi. A questo proposito, non si può non riandare ai fondamenti
dell’ecoanarchismo di un Kropotkin e ai grandi ideali illuministi di ragione,
libertà e forza emancipatrice dell’istruzione portati avanti da un Errico
Malatesta e un Camillo Berneri. Meglio, gli ideali umanisti che guidarono i
pensatori anarchici di un tempo devono essere nel loro complesso recuperati e
fatti progredire nella forma di un umanesimo ecologico che incarni una nuova
razionalità, una nuova scienza, una nuova tecnologia. (…)
L’ecologia sociale, così come la presento in questo libro, lancia
un messaggio che non è primitivista né tecnocratico. Essa cerca di definire il
posto dell’umanità nella natura - posto singolare, posto straordinario – senza
ricadere in un mondo di cavernicoli anti-tecnologici, da un lato, e senza
volare via dal pianeta con fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali,
dall’altro.
L’umanità, sostengo, è parte della natura anche se differisce
profondamente dalla vita non umana per la capacità che ha di pensare
concettualmente e di comunicare simbolicamente. La natura, a sua volta, non è
semplicemente una scena panoramica da guardare passivamente attraverso una
finestra; essa è l’insieme dell’evoluzione, l’evoluzione nella sua totalità,
proprio come l’individuo è la sua intera biografia, non una semplice somma di
dati numerici che misurano il suo peso, la sua altezza e magari la sua
«intelligenza» e via di seguito. Gli esseri umani non sono soltanto una delle
tante forme di vita, una forma meramente specializzata per occupare una delle
tante nicchie ecologiche nel mondo naturale. Sono esseri che, per lo meno
potenzialmente, potrebbero rendere l’evoluzione biotica autocosciente e
consapevolmente autodirezionata. Con questo non voglio dire che mai l’umanità
arriverà ad avere una conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale
tale da poter prendere il «timone» dell’evoluzione naturale e dirigerla del
tutto a sua volontà. Anzi, le mie riflessioni sulla spontaneità nel primo
capitolo di questo libro mirano proprio a suggerire la prudenza negli
interventi sul mondo naturale, a sostenere che si deve modificare con grande
cautela. Ma (…) quello che veramente ci fa unici,
singolari nello schema ecologico delle cose è che possiamo intervenire in
natura con un grado di autocoscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le
altre specie. (…)
L’ecologia radicale non può essere indifferente alla realtà
materiale della vita umana, non può essere indifferente alle relazioni sociali
né a quelle economiche. Il delicato equilibrio esistente tra l’uso della
tecnologia a fini di libertà e il suo uso a fini distruttivi per il pianeta è
materia di giudizio sociale, ma un giudizio che viene insensatamente offuscato
quando ecologisti sui generis denunciano la tecnologia come un male
irrecuperabile o la esaltano come una virtù indiscutibile. È curioso, mistici e
tecnocrati hanno un’importante caratteristica in comune: né gli uni né gli
altri sanno esaminare a fondo una questione o seguirne la logica al di là delle
più elementari e semplicistiche premesse.
Una nuova politica dovrebbe, secondo me, implicare la creazione di
una sfera pubblica «di base» estremamente partecipativa, a livello di città, di
paese, di villaggio, di quartiere. Il capitalismo certamente ha prodotto tanta
distruzione dei legami comunitari quanta devastazione del mondo naturale. In
entrambi i casi, ci troviamo di fronte alla semplificazione delle relazioni
umane e non umane, alla loro riduzione alle più elementari forme interattive e
comunitarie. Ma laddove esistono ancora legami comunitari e laddove, anche
nelle più grandi città, possono nascere interessi comuni, questi devono essere
coltivati e sviluppati. (…)
Per quanto possa apparire discutibile in Europa (ma meno, ritengo,
negli Stati Uniti), credo alla possibilità di una confederazione di libere
municipalità come contropotere di base che si opponga alla crescente
centralizzazione del potere da parte dello Stato-nazione. Su questo terreno,
vorrei far notare, una politica ecologica è non solo possibile in molti casi,
ma anche coerente con l’ecologia concepita come studio delle comunità, sia
umane sia non umane. Una società ecologica presuppone quelle forme
partecipative, di base, comunitarie che tale politica si prefigge di realizzare
nel futuro. L’ecologia non è nulla se non si occupa del modo in cui le forme di
vita interagiscono tra loro per costruire comunità e per evolversi come comunità. (…)
La natura non è semplicemente un «regno della necessità», come
direbbe Marx, ma un regno di libertà nascente e potenziale che potrebbe trovare
la sua piena espressione in una società ecologica creata da esseri umani
pienamente realizzati.