di
Elio Veltri
È
la mafia che va verso la finanza o è la finanza che va verso la mafia?
Nei
giorni scorsi, quando l’Europa ha annunciato consistenti finanziamenti ai paesi
membri dell’Unione per affrontare la fase due della ripresa economica, in
Germania e in Belgio alcuni hanno commentato: i soldi in Italia andranno alle
mafie. A parte il fatto che nei due paesi le mafie e non solo italiane, sono
presenti da tempo, gestiscono comparti economici importanti e non risulta che
siano perseguite dai governi e dalle magistrature, se non quando hanno ricevuto
qualche rogatoria con mandato di cattura dalla magistratura italiana, possiamo
tranquillizzare i nostri partners europei che i soldi già stanziati per far
ripartire l’economia e gli altri che certamente l’Europa metterà a disposizione,
dovrebbero servire proprio a evitare che
le mafie entrino in azione. Il ragionamento è semplice: quando istituzioni e
imprenditoria non hanno soldi da spendere e da investire, le mafie con i loro
prestanome si fanno avanti e investono perché hanno una enorme liquidità. Se
invece le istituzioni hanno capitali da investire a scopi sociali e li
investono correttamente, l’agibilità delle mafie viene
impedita. Quindi, succede esattamente il contrario di quello che è stato detto.
A conferma cito alcuni autori che il problema lo conoscono bene. Antonio Maria
Costa, per cinque anni responsabile ONU per la criminalità organizzata, nel
2016, su La Stampa ha scritto: “Non è la mafia a cercare la finanza ma
viceversa”. Le prove abbondano. Negli Usa la Wakowia Bank ha riciclato 380
miliardi di dollari del cartello messicano di Sinaloa negli anni 2006-2010.
Grazie alla procedura differita offerta dal Tesoro Usa gli amministratori hanno
promesso di non farlo più e non hanno pagato. La banca è stata multata di spiccioli:
160 milioni di dollari pari al 2% del profitto annuale. Similmente, in Europa,
la più grande banca londinese, Hsbc, ammette di avere riciclato miliardi di narco
reddito e commesso dozzine di altri crimini, paga l’ammenda di 2 miliardi, e se
la cava evitando conseguenze penali. Un giovane con qualche grammo di droga in
tasca finisce in galera; banchieri che agevolano traffici a tonnellate si
godono Yacht e Jet privati”. A sua volta, alcuni anni fa, il senatore
democratico John Kerry in un suo libro aveva scritto: “Il vero nuovo ordine
mondiale è quello criminale. In pratica le organizzazioni mafiose formano la
terza potenza dopo l’America e la Russia”. E il capo della Cia James Woodley: “Il
crimine organizzato minaccia sia la sovranità delle nazioni sia la stabilità
mondiale: è una questione di sicurezza oltre che di legalità”.
Sono passati
anni, ma a cominciare dall’Europa e dall’Italia, le cose non sono cambiate
molto. Noi abbiamo le mafie più ricche e potenti d’Europa, a conciare dalla ’Ndrangheta,
presente in oltre 20 paesi del mondo, che ha importato negli anni centinaia di
tonnellate di cocaina, venduta in molti paesi. La liquidità della ’Ndrangheta è
enorme. Sappiamo bene che l’unico strumento per combattere le mafie è la
confisca dei soldi e dei beni. Ebbene,
la legge Rognoni- Latorre, assassinato subito dopo averla presentata, è
stata approvata nel 1982, 38 anni fa. L’Italia è l’unico paese dotato di una
legge che prevede la confisca dei beni. Ma la percentuale dei beni confiscati è
irrisoria: appena il 4-5% dei beni catalogati nelle banche dati per i quali è
iniziato il procedimento di sequestro. Quindi, la stragrande quantità dei beni
resta nelle mani dei mafiosi e delle loro famiglie. Eppure, del problema, sui
giornali e, soprattutto, in televisione non si parla mai. Nel libro Mafia
Pulita scritto con Antonio Laudati, magistrato della Procura nazionale
Antimafia, avevamo sottolineato che se avessimo confiscato almeno la metà dei
soldi e dei beni mobili e immobili delle mafie italiane, avremmo potuto
risolvere il problema del debito pubblico. Purtroppo le cose non sono cambiate.
Perché al lavoro e alla competenza straordinaria di molti magistrati antimafia,
che spesso hanno anche rischiato la vita, si è accompagnata la noncuranza della
politica e delle istituzioni.
Nicola Gratteri |
Faccio un solo esempio: alcuni mesi fa il
procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, uno dei magistrati
antimafia più competenti, ha arrestato 340 persone, dal Piemonte alla Calabria
e ha chiesto la confisca dei beni. Di fronte a una iniziativa tanto clamorosa e
senza precedenti, né la Commissione antimafia, né il Parlamento, hanno
avvertito la necessità di incontrare Gratteri e i suoi collaboratori per fare
il punto della situazione, soprattutto sulle confische, ma anche sulla
destinazione dei beni confiscati. A proposito delle mafie voglio ricordare che
oggi lo strumento utilizzato è soprattutto la corruzione perché sono diventate
mafie imprenditrici e, alcune, vere e proprie multinazionali. Eppure, la legge
anticorruzione che ha previsto l’istituzione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione
è stata approvata con almeno venti anni di ritardo rispetto alle proposte
presentate in Parlamento, e con scarsi poteri di intervento. Ricordo che da
parlamentare, la mia prima proposta di legge era sulla corruzione: “Istituzione
dell’Autorità nazionale anticorruzione con annessa anagrafe patrimoniale”.
L’avevo scritta con il contributo di studiosi competenti e quando la presentai
si scatenò il putiferio: sette parlamentari, tutti di centro destra mi
accusarono di: “Volere un regime di polizia”; “Di voler creare il comitato di
salute pubblica di Robespierre e Saint Just” ecc, e naturalmente non fu
approvata, nonostante avessi accolto molti suggerimenti. L’immane tragedia che
stiamo vivendo e che non risparmia nessuno, dovrebbe sollecitare la riflessione
dei sindaci e degli amministratori regionali e locali sulla necessità di attivarsi
per reinventare strumenti di partecipazione popolare che in passato hanno
funzionato e hanno consentito a molte amministrazioni di realizzare politiche
urbanistiche, dei servizi e sociali innovative. Parlo per esperienza personale.
Quando nel 1973 sono stato eletto sindaco di Pavia, dopo un tirocinio di 7 anni
in Consiglio comunale, che mi aveva consentito di conoscere la macchina
comunale, i problemi e i dirigenti, d’accordo con il Partito Socialista nel
quale militavo fin da ragazzo, abbiamo deciso alcune riforme radicali: cambio
delle alleanze perché con la Democrazia Cristiana sarebbe stato impossibile la
realizzazione del nostro programma; realizzazione del nuovo piano regolatore
per il quale tutte le giunte precedenti, anche a direzione socialista, non
erano riuscite nemmeno a nominare gli urbanisti, consistente realizzazione di
nuovi servizi, potenziamento della partecipazione popolare e conferimento ai
comitati di quartiere di poteri reali e strumenti per gestirli. Faccio due
esempi riguardanti l’urbanistica e la partecipazione. Il vecchio piano
regolatore prevedeva di potere aggiungere alla città romana (cardo e decumano)
che allora contava 87 mila e 500 abitanti, 200 mila stanze. Nella prima seduta
del consiglio, dopo l’elezione della giunta, nominammo gli urbanisti per la
revisione del Piano Regolatore nelle persone di Astengo e Campos Venuti,
entrambi conosciuti anche all’estero e io cancellai 185 mila stanze previste.
Così le previsioni di espansione furono portate a 100 mila abitanti dai 240
mila previsti dal vecchio piano. Ancora troppi se oggi Pavia conta migliaia di
stanze vuote e gli abitanti sono 70 mila. Ma non potevamo prevederlo. Il piano
Astengo-Campos fu richiesto da due assemblee Onu, Vancouver e Lubiana, e
un’assemblea Europea promossa dal Presidente della Repubblica Francese, Giscard
D’Estaing, gollista moderato, con relazione del sindaco che allora parlava
benino il francese. Su quel Piano i giornali italiani ed europei hanno scritto
100 articoli e il sindaco è stato invitato in 10 convegni internazionali. Si
può ripetere l’esperienza? Penso di sì. Basta volerlo e impegnarsi.