di
Marco Vitale
Marco Vitale |
Con questo lungo saggio di Marco Vitale "Odissea" apre un articolato dibattito la lui coordinato, sull'attraversamento di una delle fasi più drammatiche del dopoguerra.
“L’ipocrisia
non è il linguaggio di Gesù”
né
deve esserlo dei cristiani,
giacché
“L’ipocrisia è capace di uccidere una comunità”.
(Dall’omelia
di Papa Francesco
nella
Messa mattutina del 6.6.2017 a Casa Santa Marta)
Mi ha sempre disturbato la frase: si vede la luce alla fine del tunnel, frase molto gettonata quando si verificano prolungate sofferenze collettive. Essa, ad esempio, fu molto usata nel 2009, pochi mesi dopo l’esplosione della crisi finanziaria. Spesso la usò, allora, il Presidente del Consiglio in carica, così confondendo e male indirizzando gli italiani e tanti imprenditori che avevano in lui cieca fiducia. Ritorna oggi appena si colgono i primi segnali di rallentamento dell’aggressione del Coronavirus. Gli esperti temono, giustamente, che messaggi di questo tipo preludano al rallentamento dei comportamenti prudenti e responsabili con i quali la maggioranza degli italiani ha esercitato l’unica difesa efficace contro la diffusione dell’epidemia.
Il
mio disagio ha ragioni più profonde. Temo che per molti quella luce in fondo al
tunnel voglia dire: tra breve usciremo dal tunnel e potremo finalmente
ricominciare come prima, come se niente fosse accaduto. E proprio qui si radica
l’errore più profondo e pericoloso. I più dimenticano che quando si esce dal
tunnel si esce in un altro versante, in una diversa valle e non nella stessa
valle e nello stesso versante dai quali si era partiti. Ignorare questa ovvia
verità vuol dire rifiutare ogni e qualsiasi insegnamento contenuto nella crisi,
respingere la necessità di una lettura responsabile e approfondita delle
ragioni della crisi, negare alle sofferenze il significato di una lezione, di
uno stimolo, e insieme di una occasione di cambiamento e di miglioramento dei
nostri comportamenti. E’, come detto, già avvenuto in occasione della crisi
finanziaria ed economica del 2008/2011, quando nessuno degli storici mali
nazionali (che io allora chiamai: le nostre piaghe bibliche) che resero la
crisi italiana tanto più prolungata e dolorosa di quella della maggioranza
degli altri paesi sviluppati fu affrontato, corretto, curato. E ciò in nessun
campo e meno che mai in campo finanziario dove uscimmo (o credemmo di essere
usciti) dal tunnel con un sistema finanziario e bancario, se possibile, ancora
peggiore di prima.
All’inizio
dell’ultimo dopoguerra, il grandissimo Luigi Einaudi, ricominciò la sua
collaborazione con il Corriere della Sera, dopo la prolungata sospensione
causata dal fascismo, con un articolo che inizia con: Heri dicebamus. E questa
è l’unica cosa sbagliata che mi è mai capitato di leggere di Luigi Einaudi
forse come tanti titoli era stato scelto dalla redazione. Il fascismo infatti
non era stata una parentesi della vita italiana, da dimenticare il più in
fretta possibile, ma un lungo periodo storico travagliato e chiuso con una
guerra disastrosa, dopo il quale nessuno poteva ricominciare come prima. Fatte
le debite proporzioni questo rischio è presente in ogni prolungato periodo di
crisi e sofferenze collettive e in tutti coloro che anelano a vedere la luce in
fondo al tunnel senza pensare che al di là dello stesso non c’è solo la luce,
ma un versante ed una valle nuovi da scoprire e conoscere.
L. Einaudi |
Questa
lunga premessa può aiutare a comprendere lo spirito e il senso di alcune
riflessioni e proposte in campo economico che svilupperò di seguito. Si tratta
di proposte che derivano dalle mie esperienze e dal mio pensiero ma che fanno
proprie anche alcune delle proposte che mi sembrano più convincenti tra quelle
emerse dal dibattito connesso all’esplosione del Coronavirus. Terrò ovviamente
anche conto dei progetti realizzati o annunciati dal Governo. Ma alcune delle
mie riflessioni e proposte sono così diverse da quelle del pensiero economico
convenzionale e dominante da richiedere alcuni commenti esplicativi. La mia,
forse ingenua, speranza è che la crisi
da Coronavirus, anche per la sua novità e forza dirompente, riesca a fare
qualche crepa nella tetragona cultura economica dominante da alcuni decenni nel
nostro Paese e che, al di là del mutare delle formule politiche, lo inchiodano
ai suoi tradizionali errori officiati dalle burocrazie del Tesoro, della Banca
d’Italia, della Confindustria, dei mandarini che dominano i circoli di governo,
in alcuni influenti economisti e nella grande stampa.
Smetterla
di ragionare solo per grandi aggregati. Sviluppare soluzioni specifiche per
temi specifici basati sulla realtà del Paese
È
già ricominciata la solita solfa del PIL con uno studio della Confindustria che
stima la riduzione dello stesso del 6%. Probabilmente è una stima giusta anche
se temo che sia notevolmente ottimista. Ma se fosse del 7% sarebbe altrettanto
giusta. E giusta sarebbe anche se fosse del 5%. In ogni caso si tratta di
previsioni prive di utilità concreta.
Sappiamo
che comunque la recessione sarà molto grave e che bisogna ripartire dove è
utile e possibile ripartire sulla base di una visione non congiunturale ma
strutturale. La politica economica italiana, da almeno venti anni è solo una
successione di interventi tampone per fronteggiare crisi sempre lette in chiave
congiunturale e per grandi aggregati. Viene così soffocato in culla ogni
tentativo di pensiero strutturale, cioè ogni possibile innovazione. Quali
settori e segmenti hanno reali possibilità di sviluppo? Quali fattori sono
necessari per sostenere tale potenziale di sviluppo (quali scuole, competenze,
profili di imprese, categorie di enti finanziari, amministrazioni pubbliche),
quali attività emergenti vanno potenziate, quali centri di ricerca vanno
finanziati, quali territori possono essere focolai di nuove energie e cosa si
può fare per incoraggiarli, perché è economicamente conveniente investire nella
sanità, nella cultura, nella ricerca e via dicendo? La nostra spesa per la
sanità rappresenta il 6.5% del PIL, quella della Germania il 9,5%, quella della
Francia il 9,3%, quella del Regno Unito il 7,5%. Abbiamo bisogno di altri dati
per spiegare perché il numero dei nostri morti è tanto più alto di quelli della
Germania e di ogni altro paese? Lo spiazzamento strutturale dell’Azienda Italia
(entrate e uscite dei bilanci pubblici) ha finito per offuscare la conoscenza
della realtà dell’economia italiana, intesa come somma dei frutti del lavoro di
60 milioni di italiani ed ha ridotto il dibattito alla discussione di alcune
grandezze contabili e dei rapporti fra loro (PIL, deficit, debito), dando così ragione
a P. J. Proudhon che nel 1846, in Filosofia della miseria scriveva: “Il
contabile, per dire tutto, è il vero economista cui una banda di falsi
letterati ha rubato il nome senza che egli se ne accorgesse e senza che essi
abbiano mai immaginato che la materia intorno alla quale facevano tanto chiasso
chiamandola economia politica, non era che pretta verbosità sulla tenuta dei
libri contabili” (Citazione da Sergio Ricossa, Maledetti economisti, le idiozie di una scienza inesistente, 1996).
Forse
proprio qui, sul fatto che siamo diventati tutti contabili, o aspiranti tali, con
tutto il rispetto per questa nobile professione assai importante ma non
sufficiente, che si radica la Caporetto della sanità pubblica che abbiamo
recentemente vissuto. È certo possiamo rivolgere al nostro sistema attuale la
domanda che Pareto rivolgeva all’amico Matteo Pantaleoni in una lettera del
1896: “Mi persuado ogni giorno di più che non c’è studio più inutile di
quello dell’economia politica. Dimmi un poco: se non si fosse mai studiata
quella scienza saremmo noi in peggior stato di ciò che siamo ora?”.
Io
non condivido lo scoraggiamento totale di Pareto ma, per l’amor di Dio!,
smettetela di giocare solo con il PIL. Andiamo a fondo delle debolezze strutturali
dell’economia italiana e incominciamo a correggerle davvero. E andiamo a fondo
nei punti di forza dell’economia italiana, che ci sono e sono importanti,
attuali e potenziali e puntiamo su questi. È un’operazione da tempo dovuta ma
non siamo mai riusciti a farla. Se non riusciremo a farla neppure con lo
stimolo e la paura del Coronavirus saremo veramente spacciati. Soluzioni
specifiche per temi e situazioni specifiche.
P. J. Proudhon |
Conoscere
e segmentare la realtà della struttura imprenditoriale commisurando gli
interventi a tale segmentazione.
La
struttura imprenditoriale italiana (in primo luogo quella manifatturiera ma
anche quella della filiera agricola strettamente legata alla qualità della
ristorazione e di quella dei fondamentali servizi turistici e culturali) è la
nostra forza e la nostra speranza. L’intellighenzia economica italiana continua
a dare dimostrazioni di non conoscere questa realtà e quindi a sfornare
provvedimenti che solo casualmente possono essere corretti. Anche in questa
vicenda si continua a ragionare con la superatissima distinzione tra grandi
imprese da un lato e tutte le altre, le c.d. PMI (piccole e medie imprese)
dall’altro. È invece necessario distinguere e segmentare, per pensare
interventi diversi e adatti a ciascuna specifica categoria.
Grandi
imprese: sono poche, grandi, ricche, potenti, prepotenti, e sono quasi tutte ex
partecipazioni statali (Enel - Eni - Leonardo - FS - Fincantieri e poche altre).
Non hanno bisogno di niente ma solo che siano richieste di utilizzare la loro
forza a sostegno della loro filiera (fornitori, clienti, operatori delle loro
reti, colpiti dalla fermata forzosa da Coronavirus).
Piccole
imprese: mi riferisco a quelle veramente piccole, basate su singoli piccoli
imprenditori o famiglie imprenditoriali e artigiani, basate insomma più sul lavoro
che sul capitale. Queste sono tante, piccole, fragili, senza riserve interne e
sono quelle più a rischio dalla fermata da Coronavirus. Hanno bisogno assoluto
di sostegni finanziari di sopravvivenza IMMEDIATI, SEMPLICI, NON BUROCRATICI.
Questo
è possibile solo con una garanzia dello Stato agli enti finanziatori erogatori
se si vuole ricorrere a dei prestiti. Ma in questa categoria sono più utili dei
contributi forfettari. La dissennata politica di super concentrazione bancaria
con conseguente distruzione o assorbimento di tante preziose piccole banche
territoriali rende comunque molto difficile per queste piccole imprese
interfacciarsi con una grande banca. La maggior parte dei funzionari di queste
infatti non sono neanche più attrezzati mentalmente ad interagire con questi
piccoli imprenditori che sono da loro visti prevalentemente come un fastidio. E
invece sono loro il vivaio naturale della continuità imprenditoriale del Paese
e dunque vanno aiutati efficacemente e velocemente, prima che si arrendano,
come già troppi hanno fatto nella crisi del 2008 o prima che vengano sostenuti
dalla ndrangheta o altre strutture criminali, secondo i timori già manifestati
in varie sedi da magistrati di grande valore impegnati sul fronte della lotta
alle organizzazioni criminali, le più floride finanziariamente. Queste piccole imprese,
tutte, purché dimostrino semplicemente di essersi
obbligatoriamente fermate per il Coronavirus e di essere pronte a ripartire
devono ricevere un contributo a fondo perduto da fissare in misura forfettaria.
Questo non deve essere erogato da nessuna branca dell’amministrazione pubblica
né da enti bancari ma da un canale ad hoc che potrebbe essere, ad esempio,
quello delle Camere di Commercio. Per quelle che effettivamente partiranno lo
stato darà poi una garanzia alle BCC e alle Banche popolari sopravvissute per
un periodo di un anno per consolidare la ripartenza.
Medie
imprese: questa categoria, tradizionalmente e confusamente compresa nella
categoria delle PMI rappresenta L’ATTUALE ARCHITRAVE della nostra economia
produttiva. In generale è composta da imprese bene organizzate, bene guidate,
sufficientemente capitalizzate, con risultati positivi, operanti su base
internazionale. Descriverle, come fanno tanti commentatori superficiali,
soprattutto televisivi, come una armata Brancaleone allo sbando e a rischio di
morire da Coronavirus, è una pericolosa stupidaggine. In verità esse
rappresentano la parte più solida, matura, civile, resiliente del Paese
produttivo. Tante di queste imprese sono state duramente colpite da una crisi
così inattesa ma non ne conosco nessuna che si sia veramente fermata. Quelle
che non possono più vendere hanno continuato a pensare, fare piani,
riorganizzarsi, imparare a usare gli strumenti telematici in modo da venir
fuori dalla crisi ancora meglio organizzate di prima. Esse stanno dando prova
di grande resilienza per sopravvivere e vincere la battaglia (secondo certi
studiosi la resilienza è proprio la qualità che permette ai virus di
sopravvivere da alcuni miliardi di anni). Esse sono quindi in grande
maggioranza vive e pronte a ripartire. Ve ne sono anche parecchie che con la
crisi hanno portato i turni produttivi da 1 a 3, al massimo della capacità
produttiva. Luca Orlando, un giornalista bravissimo e profondo conoscitore di
questo mondo, ha dedicato un esauriente articolo (24 Ore 31 marzo) a questo
gruppo non irrilevante, anche se certamente molto minoritario, di imprese
intitolandolo: “Imprese, c’è anche chi lavora giorno e notte”, nel quale
illustra vari esempi molto interessanti, nel campo alimentare, dei gas
medicali, dei farmaci, dei ventilatori polmonari. Ma sarebbe possibile
aggiungere altri esempi, dalla produzione di tamponi (a Brescia c’è uno dei
migliori produttori di tamponi del mondo), alla distribuzione alimentare, dove
alcuni piccoli negozi, grazie alla qualità di nuovi servizi sviluppati nelle
circostanze, stanno vivendo uno sviluppo impensato, almeno nelle maggiori
città.
Ma
il maggior numero di medie aziende, anche ottime, ha dovuto registrare un fermo
totale delle vendite, degli ordini e degli incassi, soprattutto nel settore
tessile abbigliamento, in certa componentistica meccanica, nel turismo. È da
queste aziende che dobbiamo aspettarci una ripartenza al più presto possibile.
Perché ciò avvenga, esse devono venire rapidamente risarcite dai danni
dello tsunami o terremoto che sia, soprattutto su tre fronti:
accelerare
la ripartenza il più possibile compatibilmente con le esigenze reali della
salute. Molte di esse si sono date una organizzazione interna e delle procedure
igieniche che le rendono un luogo più sicuro e salubre della media degli
ospedali lombardi;
registrando
ricavi e incassi fermi mentre non fermi sono gli affitti, gli stipendi e altri
costi, esse stanno subendo delle perdite economiche che devono essere
alleggerite con un uso rapido, ampio e senza limiti e riserve della cassa
integrazione ordinaria;
conseguentemente
e per le stesse ragioni esse registrano anche uno squilibrio finanziario
inatteso che per alcune di esse può essere molto rischioso. Esse devono anche far
fronte ai bisogni della propria filiera, come ha opportunamente richiesto il
presidente di Confindustria: “La tenuta del sistema economico e delle filiere
dipende anche da noi, dalla nostra etica della responsabilità e dei nostri
comportamenti”. Questo squilibrio
finanziario temporaneo deve essere risanato da finanziamenti bancari sorretti
da una garanzia statale per eliminare ritardi e discussioni con le banche.
Dunque,
gli interventi da fare e dovuti a questo settore portante del Paese sono
chiarissimi:
-
riavvio della produzione più in fretta possibile;
-
cassa integrazione a tutti a prescindere dal settore e dalle dimensioni
(compreso naturalmente il commercio al dettaglio che in certi settori è quello
che soffre di più);
-
garanzia statale per coprire il 100% dei prestiti aggiuntivi a cui le aziende
medie devono ricorrere per coprire lo sbilancio finanziario temporaneo determinato
dalla fermata delle vendite per Coronavirus, anche qui senza differenze di
settore e di dimensione.
Se
poi una volta per tutte lo Stato facesse il miracolo di riuscire a pagare i
suoi enormi debiti arretrati, cosa che viene richiesta da decenni e da decenni
viene ignorata, sarebbe una festa di risanamento del settore del sistema
finanziario italiano di grande portata. Se si riesce a fare tutto ciò con
rapidità ed efficienza la ripartenza sorprenderà molti almeno nel campo
manifatturiero, per tutte le medie aziende internazionalizzate e per i servizi
a rete, vero e proprio tessuto connettivo del Paese, come abbiamo imparato a
capire proprio in questi giorni grazie al Coronavirus. Temo che il settore dove
la ripresa sarà più lenta sarà proprio il turismo e data l’importanza che esso
riveste per l’economia e l’occupazione italiana forse un piano speciale da
studiare insieme agli operatori del settore potrebbe essere qui molto utile.
Tenere
conto della debolezza e cattiveria strutturale della burocrazia italiana.
Nessuna decisione senza CONTESTUALE COMPLETA PROCEDURA ESECUTIVA.
Valorizzare la responsabilità dei cittadini. Utilizzare le disponibilità e le
competenze del volontariato e degli organi professionali. Questa è una grande
occasione per una riforma parziale ma reale della PA.
Nessun
provvedimento ha senso se non si tiene conto della “debolezza” della burocrazia
italiana. Ho messo debolezza tra virgolette perché da un lato si tratta di
debolezza vera se la rapportiamo agli obiettivi che dovrebbe raggiungere e che
vorremmo raggiungesse. Ma dall’altro lato essa dimostra una forza straordinaria
nel suo tenere inchiodato il Paese ad un approccio perdente, arcaico e ostile.
Io credo che non sia improprio parlare di vera e propria “cattiveria
strutturale” della burocrazia italiana, e cioè di un odio profondo radicato nei
suoi “caporali” (copyright Totò) e di una sfiducia totale verso i cittadini
italiani. Tutti i tentativi di riformare questa realtà sono regolarmente
falliti. E non poteva essere diversamente perché sono sempre stati affrontati
con metodi profondamente sbagliati: con riforme generali e omnicomprensive,
impraticabili proprio perché troppo generali e con prediche per tentare
improbabili conversioni. Il nemico non si riforma né si cerca di convertire ma
lo si combatte. Ma quando il nemico è più forte non lo si prende di petto come
si è tentato di fare con le riforme generali ma con azioni di guerriglia come
fece Fabio il temporeggiatore con Annibale e come fece il generale Giap con i
suoi guerriglieri vietcong che, pochi e poco armati, riuscirono a battere i
super tecnologici e super armati eserciti americani di McNamara in
Vietnam.
Molti anni dopo la fine della
vittoriosa guerra di liberazione a un giornalista francese che gli chiedeva
come aveva fatto a vincere con così pochi mezzi, il generale Giap rispose: “gli
americani volevano combattere nella giungla con la matematica ma la matematica
nella giungla non funziona”. Si tratta di un antico principio strategico: quando
incontri un nemico più forte di te in un determinato gioco cerca di portarlo ad
un gioco diverso. Quella che stiamo vivendo rappresenta l’occasione storica per
qualche azione di guerriglia vittoriosa contro le fortezze della burocrazia per i seguenti
motivi: perché gli italiani hanno veramente avuto paura che è sempre una
convincente consigliera; perché i lombardi oltre alla paura hanno vissuto la
enorme tristezza di vedere i propri cari morti portati via su carri militari senza neanche poterli salutare con un ufficio funebre; perché, per
caso, si ritrovano un Presidente del Consiglio galantuomo che non ha avuto
ancora tempo di infettarsi dei veleni che la burocrazia inietta sempre nei
politici (è una delle sue maggiori armi
segrete); perché si sono ritrovati come popolo e di ciò si sono compiaciuti;
perché hanno dimostrato di essere in grande maggioranza responsabili e persino
disciplinati; perché hanno scoperto che sotto la cenere della mala sanità,
creata dalla cattiva politica partitante, si nascondevano, in solitaria sofferenza,
tanti bravi e coraggiosi sanitari e hanno loro voluto bene; perché hanno dato
tante prove di solidarietà (dalle generose donazioni di denaro e di
volontariato agli ospedali, dai giovani medici e infermieri del sud che vengono
a rischiare in Lombardia nel cuore
dell’epidemia, alla spesa sospesa a Napoli
e in altre città del sud), perché hanno riscoperto che nord e sud, giovani
e vecchi, siamo tutti un paese, ricco di problemi ma anche di competenze e di
umanità che ha continuato a bruciare sotto la cenere. E allora proviamo a
vincere anche qualche mano nell’eterna partita contro la burocrazia, ma senza
prenderla di petto, in pianura come fecero i Romani a Cannes ma aggirandola sui
colli come faceva Fabio o attirandola nella giungla come fecero i vietcong di
Giap con gli americani di McNamara.
R. McNamara |
S. Abe |
Qualche
suggerimento concreto:
non
prendere e non comunicare nessun provvedimento che non sia accompagnato contestualmente
da una procedura attuativa. In caso contrario l’effetto annuncio non seguito
contestualmente dall’esecuzione determina un effetto controproducente suscitando
nuova sfiducia. È questo un principio ben conosciuto e ben osservato dai
migliori dirigenti di marketing in campo aziendale: non si pubblicizza un nuovo
modello di automobile o di altro prodotto se esso non è già pronto ad essere
consegnato in misura adeguata ai concessionari e alla rete;
basare
ogni provvedimento sulla responsabilità e non sulla sfiducia nei cittadini. Una delle armi segrete
più potenti della burocrazia è che ogni provvedimento deve essere basato sulla
totale sfiducia nei cittadini. Perciò ogni cosa deve essere minutamente
regolamentata. È da qui che nascono, per parlare di un peccato veniale, quei
grotteschi ed irridenti moduli di “autocertificazione” per chi deve muoversi,
mutati più o meno ogni due giorni, scritti in una lingua che richiede la
traduzione di un esperto e quelle ridicole circolari sui 100 o 200 metri da
casa con bambini o senza bambini, documenti semplicemente deliranti e offensivi
della dignità personale di ogni cittadino. La vita normale si basa sulla
fiducia. Talora la fiducia è male riposta e crolla qualche ponte Morandi. Ma
noi continuiamo a pensare che la maggior parte di progettisti di ponti siano affidabili,
che i manutentori siano responsabili e che i controllori non siano comprati.
Perciò anche dopo la caduta del Morandi continuiamo, con fiducia, a passare su
ponti e viadotti, magari prendendoci qualche rischio. Ed è questo che permette
alla vita di andare avanti nonostante le disgrazie e gli errori. Ma come è
possibile che sia uno oscuro e misterioso funzionario romano a stabilire se una
mamma che porta il figlio sotto casa a fare due passi debba fare cento o
duecento metri e se il bambino debba essere tenuto sulla destra o sulla sinistra
o distaccato. Ribelliamoci a queste offese alla dignità personale di cittadini
responsabili. La risposta pratica a tutto ciò sta nel fatto che i provvedimenti
legislativi devono contenere precetti chiari, comprensibili e completi e devono
chiudersi con una clausola espressa: è interdetta qualunque circolare applicativa.
Sarà caso mai il giudice a stabilire se la mamma si è comportata
responsabilmente o meno. Così fece San Francesco con il suo testamento che
richiese espressamente venisse usato dai suoi fraticelli senza circolari
esplicative (sine glossa). Gli italiani hanno dimostrato proprio con il
Coronavirus, dopo che il Governo è riuscito a mettere un po’ di ordine nella
confusione iniziale incominciando a dare ordini precisi, senza fughe di
notizie, di essere perlopiù, cittadini responsabili. Trattiamoli come tali
anche nei provvedimenti Coronavirus che a loro si rivolgono;
aggirare
le fortezze della burocrazia utilizzando il più possibile canali diversi.
Questa è una grande occasione che illustrerò con alcuni esempi e che altri potranno ulteriormente arricchire con altri esempi.
Nicola Gratteri |
Questa è una grande occasione che illustrerò con alcuni esempi e che altri potranno ulteriormente arricchire con altri esempi.
È
fondamentale che i cittadini più soli e indifesi ricevevano aiuti urgenti di
sopravvivenza. Finalmente, anche se tardivamente, il Governo ha capito che
questi aiuti, che devono essere erogati in misura molto maggiore, vanno
assegnasti per la loro distribuzione ai Comuni. Ma nel dar corso alla
distribuzione i Comuni non devono affidarsi alla propria burocrazia ma
all’ultima catena operativa più vicina ai cittadini bisognosi, cioè alle reti
di volontariato che in ogni città, nel nord come nel sud, operano con risultati
quasi sempre positivi e talora quasi miracolosi. Prendiamo magari qualche
piccolo rischio che si infili qualche imbroglio ma il grosso andrà comunque a
rete in tempi e con modalità efficaci. Il procuratore Gratteri, coraggioso e
valoroso combattente, contro la malavita organizzata e in particolare contro la
ndrangheta, ha espresso alla televisione la preoccupazione che in alcuni comuni
queste liste di contributi di sostegno vengano utilizzate per scopi
politico-elettorali da qualche sindaco male intenzionato, magari oscuramente
manovrato dalla ndrangheta. Bisogna avere lavorato in Calabria, come è successo
a chi scrive, per capire come questo avvertimento sia fondato. Prendiamoci
magari qualche rischio ed erigiamo nei Comuni più pericolosi delle zone rosse
speciali come difese contro questi rischi
ma non blocchiamo l’operazione che nella maggior parte dei casi sarà
benefica e sarà gestita da sindaci per bene. Magari collaboriamo (e questo è un
suggerimento anche alla magistratura inquirente impegnata) con i sindaci per
cercare di attrarre alla vita normale quei cittadini disposti a cessare di
elemosinare in nero. Così anche sotto questo profilo questa emergenza potrebbe
offrire risvolti interessanti.
Come già detto è indispensabile distribuire
contributi forfettari di sopravvivenza alle piccole imprese e alle imprese artigiane
che vogliono continuare a lottare oltre il Coronavirus. Non affidiamo però l’esecuzione di questa operazione
ai soliti canali dell’amministrazione pubblica o alle grandi banche. Affidiamoli,
ad esempio, alle Camere di commercio chiedendo alle stesse di costituire dei
comitati ristretti di consulenza (non più di tre persone) nominati tra esperti
aziendali e del lavoro. In via alternativa questo intervento può essere
affidato alle BCC.
Le
medie imprese obbligate ad una fermata da Coronavirus hanno bisogno, come già
detto, di prestiti bancari, per finanziare il vuoto di circolante determinato
dalla fermata. È una necessità urgente. Per dare una risposta in tempi adeguati
è indispensabile una garanzia statale del 100% agli istituti bancari eroganti.
Credo
che questi esempi siano sufficienti ad illustrare il principio che affidare i
provvedimenti di sostegno e soprattutto quelli urgenti ai consueti canali della
PA è un grave errore. Fare ciò rischia di funzionare come un boomerang dando un
colpo mortale alla rinnovata speranza e voglia di responsabilità e di impegno
che il Coronavirus ha fatto nascere in tanti italiani. Bisogna cogliere l’occasione
per cambiare alcuni tavoli di gioco. Purtroppo, l’ignoranza di questi
elementari principi strategici ed organizzativi che, in gran parte, risalgono
al più grande libro di strategia della storia umana scritto dallo stratega
cinese Sun Tzu oltre 2500 anni fa, hanno già portato il governo a perdere, in
gran parte, questa straordinaria occasione. Così invece di ricorrere a Camere
di commercio, consulenti del lavoro, altri strumenti professionali, reti di
volontariato, BCC, il governo ha preferito seguire, in gran parte, i vecchi
canali impantanandosi nelle tradizionali paludi operative. La grottesca storia
delle mascherine è la più eloquente dimostrazione di quello che sto cercando di
dire. Il governo aveva una straordinaria possibilità con un unico articolo di
legge di fare piazza pulita di tanti passaggi burocratici che hanno impedito
che i medici sul fronte avessero tempestivamente un numero adeguato di
mascherine. Dico ciò con dispiacere perché penso che, nell’ultimo periodo, abbia
fatto abbastanza bene. Purtroppo l’inosservanza dei principi elementari che ho
cercato di illustrare in questo paragrafo è una sconfitta per il governo e con esso
per la Protezione Civile e quindi per tutto il Paese. Probabilmente nessuno di
loro ha mai letto Sun Tzu, l’Arte della Guerra (nella bella edizione di Guida Editore
con un commento particolarmente intelligente di Alessandro Corneli).
Forse
il governo ha perso definitivamente l’occasione di aprire qualche reale varco
innovativo nella muraglia della burocrazia centrale. Speriamo che i Comuni non
seguano la stessa via e facciano innovazione organizzativa ricorrendo alle
preziose risorse del volontariato. Mi sembra di avere capito che qualche comune
sta incominciando a farlo. Ma forse anche il Governo è ancora in tempo per
correggere qualche cosa, ad esempio mettendo un po’ di ordine nel guazzabuglio
che hanno fatto della procedura della Cassa integrazione guadagni (una babele
di 20 casuali e 14 strumenti con uno sperpero di tempo e di energie
spropositato). È significativo che sia il Presidente dei consulenti del lavoro
(Marina Calderone) che il Presidente dell’Ordine Nazionale dei Commercialisti
(Massimo Miani), cioè di due Ordini professionali che potrebbero essere di
grande ausilio nell’applicazione degli aiuti, abbiano entrambi sottolineato che
si sta pagando l’errore di aver affrontato una crisi straordinaria con
strumenti e procedure ordinarie.
Interventi
generali senza distinzioni. Evitare il ritorno allo statalismo. Limitati
interventi speciali.
I
necessari interventi di risarcimento, analizzati nei paragrafi precedenti,
devono essere generali e senza distinzioni se non quelle tra le varie categorie
di imprese già illustrati e per gli aiuti di sopravvivenza ai più bisognosi che
devono essere immediati, generosi, affidati ai Comuni e al volontariato oltre
che alla solidarietà dei singoli cittadini, cosa buona per chi li riceve ma
anche per chi li dà. Ma Dio ci salvi da economisti di partito che incomincino a
dilettarsi tra settori strategici e non strategici, tra filiere, territori, imprese
esportatrici e non, imprese prioritarie o meno da inserire nei calendari di
riapertura. L’unica cosa importante è fissare, appena ragionevolmente
possibile, un calendario della graduale riapertura, magari dopo aver effettuato
qualche test come è stato autorevolmente suggerito. E l’unico criterio
ragionevole e generale per ammettere le imprese alla riapertura è quello della
sicurezza sul lavoro e sull’ambiente. Bisogna sin d’ora fissare per legge (e
con divieto di circolari applicative cioè “sine glossa”) in
base a quali parametri e controlli questo criterio deve essere assicurato e
verificato. Sul Sole 24 Ore del 1° aprile 2020 (e non si tratta di un pesce
d’aprile) ho letto, a tutta pagina, un titolo terrorizzante: “Occorre un Piano
per arginare la desertificazione industriale”. L’unica cosa di cui non abbiamo
bisogno è un Piano (e già intravedo, con terrore, i volti degli aspiranti
gestori di una tale minaccia). E la seconda cosa di cui non abbiamo bisogno è
proprio di diffondere il terrorismo economico evocato dalle parole: “arginare
la desertificazione industriale”. Quanta
sfiducia totale nell’imprenditoria e nella struttura imprenditoriale italiana è
racchiusa in queste poche parole, pubblica proprio per giunta sul giornale
dell’imprenditoria italiana!
Dunque,
la desertificazione sarebbe certa e, se siamo proprio bravi, possiamo solo
arginarla. E invece no! Se non facciamo errori catastrofici non c’è nessun
pericolo di desertificazione. Ben poca cosa sarebbe l’impresa italiana se
bastassero due mesi di fermata forzosa da pandemia mondiale per ridurla a un
deserto. Una volta avviato un ragionevole possibile calendario di apertura, “le
imprese italiane potranno rientrare nei mercati addirittura in posizione di
vantaggio se saranno messe in condizioni di mitigare gli effetti delle due
criticità che stanno affrontando, quella della perdita di fatturato e quella di
uscita dalla filiera di fornitura”. Questo corretto giudizio si legge, per
fortuna, nello stesso giornale, nello stesso 1° aprile, nella stessa pagina che
ospita il titolo terroristico sopra commentato. Nello stesso senso si muove il commento
di un bravissimo giornalista specialista nei temi dell’innovazione tecnologica
e delle imprese innovative, Luca De Biase (Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2020) che
scrive: “La resilienza italiana alla fine della crisi. La vitalità delle
aziende italiane non cessa di stupire.
In questo periodo di emergenza il governo ha lanciato alcune chiamate
rivolte a imprese innovative che sono in grado di offrire soluzioni per le
principali questioni quali: la mancanza di tamponi per l’analisi a tappeto
della popolazione italiana e di mascherine per il contenimento della diffusione
del virus, per telemedicina, per il monitoraggio dei movimenti delle persone.
Solo per l’ultimo tema sono arrivate più di 830 proposte. Segno di una forte
capacità innovativa: basta cercarla ed emerge. E nel percorso di rinnovamento
dell’eco sistema dell’innovazione italiana è stato registrato dal Financial
Times che nella sua recente classifica delle imprese innovative in
Europa negli ultimi tre anni l’impresa italiana ha coperto un quarto del totale”.
Ma voglio anche citare uno dei
migliori imprenditori italiani, Sandro Veronesi, creatore del gruppo
multinazionale Calzedonia, 2.4 miliardi di fatturato, testimone vivente che si
può fare grande innovazione anche in settori super maturi. Pur con grande
consapevolezza delle difficoltà anche internazionali della ripresa e della
necessità di interventi di risarcimento simili a quelli da me descritti nei
paragrafi precedenti, Veronesi sta con i suoi a lavorare per la ripresa. Così
ce lo descrive Maria Silvia Sacchi (Economia del Corriere della Sera del
30.03.2020): “Sta sottocoperta aspettando che passi la bufera nel mentre
lavora per rinforzare l’azienda (“dovremo avere – dice - non solo
energie finanziare ma anche mentali”) e studiare idee per quando arriverà il
momento di rimettere fuori il naso. Afferma Veronesi: “Ci sarà da
rimboccarsi le maniche. È sempre stato così in Italia. Tutti pensano che dal
Governo arriveranno aiuti di chissà cosa. Invece nella storia del nostro Paese
gli imprenditori hanno sempre dovuto fare da soli e sarà così anche questa
volta. Appena possiamo siamo pronti a dare il massimo per ripartire.”
Sandro Veronesi |
Cento,
mille come lui. Altro che desertificazione. Per avviare più rapidamente
possibile la fase 2, cioè quella della graduale ripartenza delle attività produttive
contenendo i rischi di contagio, le imprese partiranno più motivate di prima.
Ma anche il sistema deve fare la sua parte evitando nuovi clamorosi errori e
ritardi e copiando, se possibile, dalla Corea del Sud. Così suggerisce anche
una pregevolissima e utilissima lettera/appello di 150 studiosi ed esperti
scientifici dal titolo: Serve una strategia per ripartire. Il Paese va salvato.
Si riferiscono a una strategia sanitaria non imprenditoriale (Il Sole 24 Ore 2
aprile 2020).
Dunque,
niente strategie e piani industriali per favore! ma strategia generale e
strategia sanitaria corrette. Trovate qualche altra occupazione meno pericolosa
per i vostri economisti di partito. Farei solo due eccezioni.
Un
fondo straordinario per le imprese del Sud.
Il
Sud oltre al Coronavirus, per fortuna sembra in misura più modesta del Nord,
deve fronteggiare due altre minacce. La prima è rappresentata dalla
sottigliezza e fragilità del suo tessuto imprenditoriale. Il numero delle buone
imprese è esiguo e ciò le rende ancora più preziose. Negli ultimi anni, anche se il fenomeno è
poco percepito, si sono sviluppate parecchie imprese giovani, innovative,
finanziariamente fragili ma imprenditorialmente interessanti. Questo nuovo
tessuto imprenditoriale che è anche l’unica speranza vera del Sud, va tutelato
dai rischi di Coronavirus ma anche dall’assenza di un sistema bancario locale
in grado di svolgere un compito di sostegno con intelligenza e responsabilità,
e dal fatto che sul loro territorio ha le proprie radici l’industria più
potente e liquida del Paese, la malavita organizzata. È stato osservato dal
procuratore Gratteri che in Calabria la regione forse più povera d’Europa ha le
sue radici quella che è probabilmente attualmente l’organizzazione più ricca
d’Europa, la ndrangheta. Parecchi specialisti di questo mondo hanno lanciato
allarmi formulando il timore che imprese fragili ma di qualità possono venire
assorbite da imprese criminali finanziariamente potenti. Per questo io penso
che, stimolato anche dal Coronavirus, ma con una impostazione più ampia e
duratura, sia utile dare vita ad un fondo speciale per la sopravvivenza e il
consolidamento delle imprese minori di qualità nel Mezzogiorno. Il fondo dovrà
fornire finanza (non molta!) ma anche e soprattutto tutoraggio, sostegno
manageriale, consulenza organizzativa, collegamenti con il resto del mondo. Il
fondo potrebbe far capo alla Fondazione con il Sud, come soggetto attuatore,
che non solo conosce profondamente il Sud, ma ha una comprovata tradizione di
onestà e competenza ed è già stata utilizzata, con soddisfazione, dal Governo
per progetti analoghi come quello per combattere le povertà educative.
Naturalmente investitori istituzionali ed anche imprese grandi potranno
partecipare a fianco della Fondazione con il Sud in un progetto di questo
genere.
Un
piano straordinario per il turismo. Il settore che a me desta maggiore preoccupazione
è il turismo per la posizione centrale che esso occupa nel nostro Paese, per il
grande numero di occupati diretti e indiretti che allo stesso fanno capo, per
la vasta gamma di altre attività che sono collegate alla attività turistica,
perché in gran parte dipende da grandi correnti di viaggiatori da paesi a loro
volta colpiti dal virus, perché la ripresa sarà qui necessariamente più lenta
che nella maggior parte di altri settori. La mia scarsa esperienza pratica del
campo mi induce a non cercare di andare più a fondo sullo stesso. Ma forse,
come già detto, qui un piano speciale a medio termine, in aggiunta agli
interventi per tappare gli squilibri immediati, può, se affidato a mani capaci,
tramutare il pericolo in opportunità.
Raddrizziamo
l’azienda Italia come premessa per una politica europea credibile. Liberiamo
l’Italia dal ricatto del debito pubblico.
L’economia
italiana è sana e solida. La sua industria manifatturiera, rappresentata
fondamentalmente dalle medie imprese di cui ho parlato resta tra le migliori
del mondo. Il suo turismo (compreso il turismo culturale) pre Coronavirus è vivo e in crescita; la sua industria della
ristorazione ha conquistato negli ultimi due decenni un livello qualitativo
molto alto e una posizione internazionale di grande interesse e, nell’insieme,
la filiera ristorazione – industria alimentare- agricoltura specializzata – è
assai importante ma è solo all’inizio del suo grande potenziale; la posizione
dell’Italia nel commercio internazionale è più che soddisfacente e, in certi
settori, molto brillante. Naturalmente non dimentichiamo le sue debolezze:
tecnologiche, territoriali, occupazionali, formative, istituzionali. Ma
soprattutto non dobbiamo dimenticare le sue grandi piaghe bibliche (evasione
fiscale anche se in misura minore di quello che si vocifera, lavoro nero molto
diffuso, corruzione largamente superiore alla media dei paesi evoluti,
potentissime e ricchissime organizzazioni criminali, PA sostanzialmente nemiche
del Paese, istituzioni in genere mal funzionanti, un numero molto elevato di
poveri).
Ma
che nonostante tutti questi mali l’economia italiana sia solida trova conferma
non solo nella sua capacità di esportazione ma nel fatto che l’Italia non ha
mai avuto difficoltà a collocare sui mercati finanziari il suo elevato debito
pubblico. Gli operatori finanziari internazionali sanno bene che, a differenza
di altri paesi europei compresa la Germania, l’Italia non ha mai nella sua
storia dichiarato default per il suo debito pubblico e che è sempre stata, come
è oggi, una fonte di generosi interessi per gli investitori. L’amico Giancarlo
Pagliarini ha calcolato che lo Stato italiano dal 1980 al 2018 ha pagato
interessi passivi per 3872 miliardi di euro mentre dal 2010 al 2018 il debito pubblico
è costato allo Stato in media 74.295 milioni all’anno (grazie all’euro,
altrimenti il costo sarebbe stato doppio). Nel solo 2018 lo Stato ha pagato per
interessi passivi 64.662 milioni, equivalenti a 177 milioni al giorno. Dunque,
non hanno torto quelli che dicono che il debito pubblico italiano è
sostenibile, cioè che trova sempre un mercato internazionale che lo finanzia.
Ma dire che è sostenibile vuole anche dire che gran parte del valore aggiunto
che il popolo italiano produce ogni anno se ne va in interessi passivi invece
che essere reinvestito in opere pubbliche utili, in una sanità meno indecente
di quella che abbiamo visto all’opera in alcune regioni con il Coronavirus, in
formazione, in interventi per l’occupazione giovanile e in tante altre cose che
ci aiuterebbero a vivere meglio. Per questo da vari anni vado dicendo che il
debito pubblico eccessivo è come un GRANDE RICATTO che pesa sul popolo
italiano, una corda per impiccati ben legata intorno al nostro collo pronta a
scattare se facciamo una mossa sbagliata facendo scivolare via il seggiolino
sul quale siamo appoggiati in precario equilibrio. È difficile stabilire se un
debito pubblico sia eccessivo o meno. Hamilton, primo grande ministro del
Tesoro americano, diceva che il debito pubblico, se in giusta misura, è una
vera e propria benedizione per i popoli.
Ed è vero. Ma cosa è la giusta misura?
Dipende dal contesto in cui si opera. Il Giappone ha per esempio un
debito pubblico tanto più alto del nostro in relazione al suo PIL. Ma il Giappone
non fa parte di una comunità con le sue regole e i suoi vincoli che vanno
rispettate o consensualmente cambiate. Rispetto alle attuali regole della Unione
Europea, della quale fortunatamente facciamo parte, il nostro debito pubblico
pre Coronavirus, è da molto tempo, eccessivo.
Da tempo la comunità della quale facciamo parte attende dai governi
italiani un piano di riequilibrio ragionevole, credibile, ancorché distribuito
nel tempo. Ma i nostri governi non hanno mai fatto ciò e noi abbiamo preferito
rimanere dei ricattati con la corda appesa al collo. Le ragioni di questa
masochistica preferenza sono tante e sarebbe inutile analizzarle in questa
sede. Parecchi esperti italiani di valore hanno, nel corso degli anni, proposto
piani di rientro. Ma non hanno mai trovato ascolto per debolezze politiche ma
anche perché il pensiero dominante dell’establishment economico pubblico italiano
ha sempre sostenuto che esiste una unica via per ridurre il debito: aumentare
la crescita del PIL. Tutto il resto sarebbero chiacchiere inutili. Questo
infatti dicono i loro modelli econometrici (in gran parte superati), ai quali
loro danno sempre ascolto.
Ora
il Coronavirus ha fatto piazza pulita di tutto ciò, compreso questo
contestabile articolo di fede ed ha, al contempo, mostrato la assurda rigidità
delle regole del patto di stabilità europeo forzando così tutti gli europei a
investire a debito e scoprendo che, da solo, nessuno ce la può fare. Perciò
appena si è intuito il danno che farà il Coronavirus tutti gli italiani,
compresi i, per fortuna, sempre più evanescenti sovranisti hanno giustamente
incominciato a guardare all’Europa e a invocare solidarietà e aiuti. Tutto
giusto, ma per chiedere ciò in modo convincente e credibile dobbiamo prima
mettere in ordine l’Azienda Pubblica Italia, cioè i conti pubblici dell’azienda
che fa capo al Governo e alle sue articolazioni territoriali. Dobbiamo fare
insomma quello che potevamo o dovevamo fare con calma negli ultimi dieci anni,
e cioè avviare un piano ordinato di riequilibrio distribuito nel tempo ma
credibile, usando tutti gli strumenti a disposizione: controllo reale della
spesa pubblica, smobilizzo di attività pubbliche non necessarie; cessazione di
sprechi e taglieggiamenti nelle c.d. grandi opere pubbliche, tagli di sussidi
non necessari e intelligenti operazioni di mercato per distribuire nel tempo
più lungo il debito pubblico residuo. Ora è il tempo di fare le cose che non
abbiamo mai voluto fare per neghittosità. Il Coronavirus ci ha risvegliati
dall’ebetismo finanziario che ci aveva avvolto. Oggi dobbiamo smetterla di
giocare e di imbrogliare noi stessi. Dobbiamo certamente richiedere alla Unione
Europea un impegno serio e solidale e il Governo l’ha fatto. Ma per portare avanti la richiesta con la
credibilità e la dignità necessarie, sia come soci fondatori che come esponenti
di una grande economia indispensabile all’Europa tutta, dobbiamo prima,
nell’interesse comune e quindi anche nel nostro, mettere a posto la sgangherata
Azienda Italia con i suoi sgangherati conti pubblici. Ora il primo passo da
fare è quello di lanciare una grande EMISSIONE DELLA RICOSTRUZIONE, come fecero
i nostri padri e nonni dopo la fine dell’ultima guerra. Il piano Marshall è
venuto dopo.
Prima è venuto il PRESTITO DELLA RICOSTRUZIONE, sottoscritto dagli italiani che mostrarono così di avere fiducia nel loro Paese cioè in loro stessi. Conservo appeso nel mio ufficio un poster originale di quel prestito ed ho letto tutte le relazioni e documenti di quella bella pagina di storia italiana. Oggi dobbiamo fare un passo simile e liberare i nostri figli e nipoti dal RICATTO del debito pubblico eccessivo.
Prima è venuto il PRESTITO DELLA RICOSTRUZIONE, sottoscritto dagli italiani che mostrarono così di avere fiducia nel loro Paese cioè in loro stessi. Conservo appeso nel mio ufficio un poster originale di quel prestito ed ho letto tutte le relazioni e documenti di quella bella pagina di storia italiana. Oggi dobbiamo fare un passo simile e liberare i nostri figli e nipoti dal RICATTO del debito pubblico eccessivo.
Con
grande soddisfazione vedo che aumentano le voci autorevoli che chiedono
sostanzialmente la stessa cosa. Giulio Tremonti (Corriere della Sera del 30
marzo 2020) sollecita un “Piano di difesa e ricostruzione nazionale” che non
sia molto diverso nello spirito da quello del 1948. Ho apprezzato che Tremonti
abbia sostenuto la sua proposta con parole molto belle e coraggiose: “È in
ogni caso e comunque essenziale che tutti insieme e ora più che mai si abbia
una proiezione patriottica, comunitaria, e sociale, il sentimento di essere
parte di una stessa Patria, perché ancora una volta nella nostra storia, è
arrivato il momento della “unum necessarium”. Tremonti giustamente non si inoltra in
dettagli tecnici che devono essere approfonditi ma si limita a fissare il punto
centrale: “Un Piano basato sull’emissione di titoli pubblici a lunghissima
scadenza con rendimenti moderati ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante
patrimonio della Repubblica, titoli assistiti, come in un tempo che è stato
felice, da questa formula: esenti da ogni imposta presente e futura”.
In
direzione analoga si esprime Gianni Tognolo (profondo conoscitore della storia
italiana) che auspica l’emissione di titoli perpetui non rimborsabili ma
negoziabili sul mercato a basso tasso (Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020). Con la
massima chiarezza si è espresso anche Giovanni Bazoli (Corriere della Sera, 5
aprile 2020) c he pensa che gli eurobond verranno ma non prima che noi avremo
avviato le nostre riforme: “A queste devono provvedere gli italiani… Resta
il fatto che abbiamo un anomalo rapporto tra grande debito pubblico ed enorme ricchezza
privata: 4374 miliardi di attività finanziarie delle famiglie (contro 926
miliardi di passività), 1840 miliardi di attività finanziarie delle società non
finanziarie; contro 2409 miliardi di debito pubblico. Penso a un grande
prestito non forzoso finanziato dagli italiani e garantito dai beni dello
Stato… non bastano 100 miliardi ne servono 300. Meno del 7% della ricchezza
finanziaria delle sole famiglie potrebbe segnare la svolta che cambia la storia
d’Italia”.
È
quello che penso e auspico da parecchi anni con una grande preferenza per i
titoli non redimibili di cui parla Tognolo. Non volevo quantificare la mia
proposta ma dato che Bazoli ci ha provato ci provo anche io. Io penso che
l’emissione dovrebbe essere non di 300 ma di 500 miliardi. Io penso che se
viene presentata da una guida politica credibile e con una coinvolgente
comunicazione che non si vergogni di usare le parole usate da Tremonti una tale
emissione avrà un grande successo come ebbe quella del dopoguerra. In ogni caso
sulla quantificazione suggerisco una formula alternativa: chiedetelo agli
esperti del Tesoro e raddoppiate quello che diranno. Avrete così la risposta
più vicina ad essere quella giusta.
La
grande operazione di rifinanziamento e consolidamento a lunghissimo termine o
con titoli irredimibili per il debito pubblico eccedente pre Coronavirus,
dell’Azienda Italia, accompagnato da un piano di contenimento del debito
pubblico residuo con riduzione di sperperi nella spesa pubblica e negli investimenti
per le c.d grandi opere e con lo smobilizzo di attività pubbliche non
strumentali, è il primo indispensabile passo per una storica svolta nella
sgangherata finanza pubblica italiana e per riconquistare una posizione molto
più dignitosa nel concerto europeo. Il secondo passo è che gli interventi di
risarcimento per i danni da Coronavirus siano adeguati ma al contempo siano
rigorosamente e seriamente gestiti. Non bisogna essere profeti per predire che
il rischio che si infilino qui, molte infondate pretese è piuttosto alto.
Dobbiamo certamente sostenere la ripartenza dell’Italia produttiva, risarcendo
i danni subiti dal terremoto Coronavirus ma prendiamo come esempio la gestione
dei terremoti del Friuli e di quello più recente dell’Emilia (prima le fabbriche,
poi le case e le chiese) e non quelli del Belice, dell’Irpinia e dell’Aquila. I
risarcimenti devono essere rigorosamente limitati alle attività produttive che
hanno subito dei danni economici e finanziari effettivi, stabiliti con criteri
appropriati per ogni singola categoria di impresa, al netto degli eventuali
risarcimenti assicurativi. La liquidazione dei danni deve essere rapida ma
rigorosa. Per questo è necessario inventare una procedura ad hoc. Butto sul
tavolo un’idea solo per discussione: propongo che il canale da usare sia quello
delle Camere di Commercio presso le quali si costituirà una commissione
deliberante presieduta dal presidente della Camera di Commercio e composta da
rappresentanti dei principali settori produttivi, da un rappresentante degli
organi professionali dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e da un
rappresentante sindacale.
Ci
potranno essere altre più brillanti soluzioni ma è importante che si operi in
un canale speciale ad hoc e non attraverso quelli tradizionali della PA e che
il mandato dato a chi deciderà sia molto chiaro: onestà, velocità, efficacia e
rigore.
Questi
due passi sono fondamentali per la ripresa dell’economia italiana ma sono anche
fondamentali per portare avanti un discorso molto serio con i nostri partner
dell’Unione Europea, per superare le diffidenze, in parte fondate, che alcuni
gruppi dei nostri partner nutrono nei confronti dell’Italia.
Impegno
massimo per una politica europea che lanci un grande programma di sviluppo
economico e civile in linea dei principi solidaristici sulla base dei quali è
nata la comunità e secondo la migliore tradizione europea, principi
profondamente diversi da quelli dell’economia predatoria neoliberista di
matrice americana, che hanno purtroppo avuto troppo seguito anche in Europa
negli ultimi venti anni.
La
partenza del dibattito europeo tra i paesi “cicala” (con l’Italia in testa) e i
paesi “frugali” (con in testa Olanda e Germania) non è stata felice. Da parte
italiana si è partiti con una richiesta esclusiva e perentoria di un ricorso
agli eurobond, come unica via e unico strumento, dando l’impressione di volere attaccare
a questo attaccapanni tutti i propri panni sporchi passati presenti e futuri, e
di voler cogliere l’occasione del Coronavirus per avviare quella
mutualizzazione dei debiti che i paesi “frugali” (debito/PIL del 58,6% per la
Germania e del 49,2% per l’Olanda) hanno sempre, comprensibilmente, respinto. È
vero che vari esponenti del nostro Governo a partire dal Presidente del
Consiglio, hanno precisato che: “non stiamo chiedendo che venga preso a carico
dell’Europa il nostro debito, stiamo ragionando sul debito aggiuntivo legato
all’attuale situazione” (Pierpaolo Baretta, sottosegretario dell’economia). Ma
un antico e saggio detto napoletano afferma: “chiacchiere e tabacchiere di legno
il banco non prende in pegno”. Se quella enunciata da Baretta è la volontà del
Governo, e io certamente non ne dubito, essa deve concretizzarsi in impegni
strumenti ed azioni specifiche. È necessaria qualche forma di cesura tra il
vecchio e il nuovo e il vecchio deve essere ristrutturato su basi solide e
convincenti come illustrato nel paragrafo precedente. L’approccio italiano,
accompagnato da improbabili ultimatum, da parte del Governo, da prese di
posizioni minacciose e grossolane dell’opposizione sovranista italiana, da
esternazioni più che discutibili di commentatori italiani spesso miserabili,
piagnucolose, umilianti ed offensive verso i nostri partner, ha portato ad un
irrigidimento di alcune componenti importanti dei paesi “frugali”. Queste due
posizioni e alcune dichiarazioni in sé corrette ma poco tempestive della
presidente della Commissione europea, hanno avviato il dibattito in modo, come
dicevo, non felice. Ciò ha portato molti commentatori e politici italiani alla
frettolosa conclusione che: “anche questa volta l’Europa non c’è” e
questo slogan continua imperterrito anche se i fatti dimostrano esattamente il
contrario.
La
verità è che questa volta, finalmente, l’Europa c’è come dimostrano i
provvedimenti già velocemente presi o programmati:
una
vera svolta è quella della BCE che tra marzo e dicembre dell’anno acquisterà un
ammontare addizionale di titoli di stato pari al 4,5% del PIL;
i vincoli del patto di stabilità sono stati
immediatamente sospesi, permettendo ai singoli paesi di ricorrere al debito
pubblico aggiuntivo per sostenere la sanità, per l’occupazione, per gli enti di
sopravvivenza ai più deboli e per contenere il rischio di sparizione di tante
aziende minori;
è
stato lanciato dalla Commissione UE il piano “Sure” di 100 miliardi per
finanziare le casse integrazioni nazionali e combattere la disoccupazione;
la
Commissione UE ha annunciato che nel nuovo bilancio 2021-2027 tutti i fondi
strutturali saranno diretti a fronteggiare gli effetti della crisi da
Coronavirus. “Il bilancio 2021-2027 - ha detto Ursula von den Leyern,
presidente della Commissione – sarà il nostro Piano Marshall affinché la UE
abbia un ruolo cruciale nella ripresa economica; sarà la più ampia risposta
finanziaria mai data nella storia europea”.
Questi
provvedimenti assai incisivi e decisi in tempi rapidissimi sono già una prova
che l’Europa questa volta c’è. Ora il dibattito continuerà, a partire proprio
da domani, sui provvedimenti da prendere di più largo respiro. Le proposte sul
tavolo sono tante e tutte interessanti e il negoziato non sarà né facile né
semplice e sarà scandito da alti e bassi. Ma ora sappiamo che un dibattito
serio è iniziato e che, come tutti i dibattiti seri, arriverà a mediazioni e
compromessi ragionevoli. Il punto centrale della discussione è tra chi vuole
che i paesi che hanno maggiori problemi di finanza pubblica (come l’Italia)
ricorrano agli strumenti di prestito immediatamente disponibili come sono
quelli del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità o fondo salva stati) e paesi,
come l’Italia ed altri, che richiedono strumenti di indebitamente comune per
dare una risposta europea ad una crisi che non è di un singolo paese (come presupposto dal meccanismo MES) ma è
comune a tutta la comunità. La posizione italiana, che il presidente Conte, ha
molto opportunamente illustrato direttamente ai cittadini tedeschi in una
intervista alla televisione tedesca è, politicamente e culturalmente,
ineccepibile. Il profilo giuridico – istituzionale del MES è stato illustrato
in maniera chiarissimo da Paolo Maddalena, già vice presidente della Corte
Istituzionale Italiana: non è uno strumento della Unione Europea, è un trattato
intergovernativo proprio della politica predatoria neo liberale che serve per
stringere il cappio a singoli paesi in difficoltà e a porli sotto tutela di
qualche forma di troika con metodi non dissimili a quelli che hanno creato
indicibile sofferenza alla Grecia. Da parte loro i paesi “frugali” e poco
indebitati non vogliono che i paesi “cicala” possano continuare a spendere a
piacere indebitandosi a piacere, senza filtri, paletti, controlli. Entrambe le
posizioni sono ragionevoli. Personalmente apprezzo molto la posizione italiana
che rigetta il MES, così come è oggi, in linea di principio, ma sono anche
molto grato come cittadino europeo e contribuente italiano verso i
rappresentanti dei paesi “frugali”, che vogliono porre dei paletti solidi alla
voracità di spesa dei governi italiani. Non dimentichiamo che tutti i debiti
vecchi o nuovi, determinati dall’emergenza Coronavirus o da qualunque altra
causa, vanno alla fine onorati.
Probabilmente
verrà fuori una soluzione mista e graduale: per le necessità immediate si potrà
fare ricorso ai finanziamenti del MES, però con
regole e condizionamenti profondamente mutati (cioè un MES che non sarà
più il MES); poi si passerà ad una politica attiva della BEI ricapitalizzata e autorizzata
a finanziarsi con titoli emessi sul mercato (una specie di eurobond parziale);
la stessa commissione potrà dar vita poi ad emissioni dirette di titoli sul
mercato per obiettivi specifici per arrivare, alla fine, ai veri e propri
eurobond. Io mi auguro che essi non vengano sprecati per sanare i guasti del
Coronavirus ma per sostenere, più avanti, un grande piano di rinascita europea
con investimenti nella green economy, nella ricerca, nella formazione e in
tutte le altre attività necessarie per entrare nel futuro e a testa alta e per
porre l’Europa nel posto che le compete nel contesto mondiale.
Dunque,
l’Europa dei fatti per fortuna c’è. E senza di essa noi, cittadini italiani,
aggrediti con tanta violenza dal Coronavirus, che viene a sommarsi alle nostre
antiche piaghe bibliche, saremmo semplicemente spacciati ed espropriati, in una
forma o nell’altra, dei risparmi che abbiamo messo da parte come formichine
negli ultimi 60 anni.
Ma
c’è anche l’Europa delle idee e dei sentimenti e anche questa è assai
importante. Lo testimoniano tante e significative testimonianze e dichiarazioni
che si vanno infittendo. Ne farò una veloce e incompleta rassegna, perché anche
chi continua a ripetere che l’Europa non c’è, si ravveda.
“Se
il Nord non avesse il Sud perderebbe se stesso ma anche l’Europa”. È questo il cuore di un
appello lanciato sulle pagine del Die Zeit da un gruppo di assai importanti e
credibili politici ed intellettuali tedeschi capitanati da J. Habermas, il
maggior filosofo tedesco vivente e da J. Fischer, ex ministro tedesco degli
Esteri.
“European
solidarity now, in the interest of all Member States” è il titolo di un
profondo e bellissimo “Joint German-Italian Appeal to the Governments of all Member
States to EU institutions”, lanciato il 2 aprile 2020 da un nutrito gruppo di
importanti intellettuali, accademici, studiosi, politici, amministratori
pubblici italiani e tedeschi.
In
tema di eurobonds il vice presidente della BCE, Luis de Guindes, ha detto di
essere a favore: “perché si tratta di una pandemia che avrà ripercussioni su
tutti”. Nello stesso senso si era espressa una decina di giorni fa Isabelle
Schnabel, componente tedesca del board della BCE e persino J. Weidman, rigoroso
e rispettabilissimo presidente della Bundesbank avrebbe consigliato al governo
tedesco di essere più flessibile sul tema.
“L’inutilità
o meglio il danno evidente di una guerra di religioni e di pregiudizi fuori dal
tempo poiché contraria all’interesse collettivo europeo” è quanto
sottolinea Nout Wellink influentissimo governatore della Banca centrale
olandese dal 1997 al 2011 e uno dei padri dell’euro.
“Per
rilanciare l’economia europea - afferma il presidente del consiglio europeo
Charles Michell - dovremo utilizzare tutte le leve disponibili a livello
nazionale ed europeo. Il bilancio dell’unione dovrà essere adattato. È tempo di
pensare fuori dagli schemi.”
N. Wellink |
Il
dibattito è particolarmente vivace in Olanda. Ad aprire il fuoco è stato Rob
Jetten, capo del gruppo di liberali europei di D66: “l’Olanda è diventata
ricca grazie all’Unione Europea. Ora che in Europa posti di lavoro e redditi
sono a rischio a causa dell’emergenza virus non possiamo lasciar soffocare i
nostri amici”. Sul quotidiano economico olandese Jetten ha rincarato la
dose attaccando la posizione “da contabile” del ministro delle finanze Hoeksra
(leader dei Falchi) che rischia scrive Jetten di provocare un “grave
disastro diplomatico volendo insistere nell’insegnare al Sud la disciplina di
come tenere i conti”. L’attuale governatore della Banca centrale olandese
Knot ha detto: “quando si vede cosa accade con il virus in paesi come
l’Italia e la Spagna credo che la richiesta di solidarietà sia estremamente
logica”. E il già citato past
governatore Wellink in una intervista radiofonica si è detto convinto che i
Paesi Bassi e i loro alleati, Germania in testa, non possono continuare a
opporsi agli eurobonds se vogliono stroncare sul nascere la prossima crisi
economica: ”Se il Sud cade - ha aggiunto - il ricco Nord smette di
esistere”. Gli attacchi diretti a lui e alla sua posizione hanno indotto il
super falco ministro delle finanze Hoeksra ad un parziale rettifica: “dobbiamo
valutare in modo solidale cosa è ragionevole fare”.
Il
ministro delle finanze tedesco Olaf Schulz dichiara:”siamo pronti alla
solidarietà ma ad una solidarietà ben meditata”.
Lo
stesso direttore generale del MES, Klaus Regling, conclude una sua analisi
approfondita ed equilibrata della situazione, nel corso della quale offre i
servizi finanziari del MES, inquadrandoli peraltro in una prospettiva più ampia
insieme ad altri strumenti, con queste parole: “il tempo della solidarietà
in Europa è adesso se si vuole la sopravvivenza del mercato unico non basta
salvare la propria economia. È interesse di ogni stato membro dell’Unione che
anche tutti gli altri riescano a superare questa crisi”.
Sono
proprio questi scontri e differenze di opinioni all’interno di vari paesi e che
hanno natura trasversale ed eventi come il Presidente del Consiglio italiano
che parla direttamente ai cittadini tedeschi ad una televisione tedesca a darci
la certezza che questa volta l’Europa esiste.
Di
grandissimo interesse per la sua capacità di combinare una soluzione europea e
solidale con realismo politico e con semplicità tecnica è la proposta divulgata
il 4 aprile 2020 a firma di Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli, Enrico Letta,
così formulata: “Oltre agli importantissimi interventi della BCE una
risposta congiunta e solidale da parte di tutti i governi dell’area euro
sarebbe molto utile. Una tale risposta per essere politicamente accettabile
deve rispettare tre principi: non deve alterare l’architettura dell’Unione
Europea, non deve portare alla mutualizzazione del debito pubblico e deve
implicare politiche di spesa concordate e condivise. La nostra proposta prevede
l’istituzione di un organismo chiamato Special Health Emergency (SHE)
Arrangment, e dovrebbe emettere una tantum strumenti finanziari a lunga
scadenza (Special Issue European Security). Le risorse raccolte verrebbero poi
spese secondo politiche definite in comune e controllate dalla SHE. Questa
proposta alleggerirebbe la pressione sulla BCE permettendo di dare un segnale
forte di comunanza di intenti tra i paesi dell’Unione Europea ed aiuterebbe i
paesi che hanno più difficoltà ad emettere debito”.
Dunque,
per fortuna:
*l’Europa
esiste,
*l’imprenditoria italiana
esiste ed è solida,
*i sanitari italiani
esistono e sono coraggiosi e generosi,
*i cittadini italiani con
la loro, in parte sorprendente, disciplina, con la loro generosità
e con l’affascinante pratica della spesa sospesa esistono e sono stati
apprezzati,
*la primavera è magnifica,
*domenica è Pasqua e io
guardo al futuro con relativa fiducia, anche se so bene che le nostre enormi
piaghe bibliche sono per ora ancora intatte e minacciose e che, con
l’aggravamento delle conseguenze negative del Coronavirus, ci aspettano anni di
severi sacrifici e di grandi fatiche. Ma forse il popolo italiano si è
risvegliato e ritrovato come comunità, e su questo si basa la mia relativa fiducia.