METANOIA
di
Oliviero Arzuffi
Villa D’Almè. “Sono circondato da
ombre di morte”: sono le uniche parole che mi vengono in mente in questo
momento. Parole di un salmo di oltre duemila anni fa, ma quanto mai illuminanti
per ciò che stiamo vivendo qui, tra questi pittoreschi monti e tra i verdeggianti
declivi delle Orobie, trapuntati da borghi medioevali di rara bellezza, con le
loro chiese romaniche famose nel mondo intero.
Scrivo
da Bergamo, centro della pandemia. Di più. Scrivo stando conficcato nell’occhio
del ciclone epidemico, all’imbocco delle valli bergamasche, dove solo le sirene
delle ambulanze, dopo aver squarciato continuamente per giorni e notti il silenzio
irreale di questi luoghi ameni, ora si fanno sentire quasi di soppiatto in modo
intermittente, quasi uno stridulo singulto, come per attutire la disperazione onnipresente.
Persino
le campane da morto si sono stancate di suonare, e tacciono, rendendo queste contrade
ancora più spettrali e l’atmosfera più surreale che mai. Con noi seppelliti in
casa o recintati nei pochi metri quadrati del giardino, almeno per i più
fortunati, a guardare sgomenti la vicina di casa trasportata di notte in
ospedale, e subito morta, a sentire l’affanno dell’amico del giardino di fianco
attaccato alle bombole di ossigeno, a scorgere sulla via, pochi metri più in
là, le bare di due che hanno appena esalato l’anima e vengono portati via da
camion militari per ignota destinazione. Morte, dappertutto. Così che noi, che
ancora che respiriamo, siamo afferrati alla gola dalla paura o ci sentiamo oppressi
dalla sindrome dei sopravvissuti.
Coronavirus:
un nome dal suono gentile e dall’apparenza innocua, apparso come una meteora
dall’altra parte del mondo e diventato all’improvviso simbolo di devastazione
planetaria e portatore di un severo monito, almeno per chi ha orecchie per
intendere. Ma: vogliamo davvero intendere? Se consideriamo la storia, non
sembra che il bipede umano abbia imparato molto dalle calamità naturali che gli
sono piombate addosso o tratto dei salutari insegnamenti dalle sciagure che, a
fasi alterne, si è procurato da sé. Non mi stupirei perciò che anche questa
volta, passata la paura ed esorcizzata la buriana come un incidente di percorso,
si rimettesse a fare la solita vita di prima come se nulla fosse successo, magari
con più bramosia e più cattiveria, per rifarsi del tempo perduto e delle
opportunità svanite con l’imposizione del “lock down” universale. Come dire: passato
il virus, gabbato lo santo.
Questa
volta, ignorare gli insegnamenti della pandemia risulterebbe fatale per tutta
l’umanità. E quali sono, in poche parole, questi insegnamenti da trarre, che
solo degli ottusi di mente o degli aspiranti suicidi o dei duri di cuore o degli
accecati nello spirito non saprebbero cogliere?
Il
primo di questi è quello che papa Francesco ha ben espresso con la metafora del
“siamo tutti sulla stessa barca”. Mai come oggi siamo conglobati in un unico
destino. Ciò che avviene in qualunque parte del mondo ha ripercussione sull’intera
umanità, senza vie di fuga, senza furbesche scorciatoie, senza terre promesse
da raggiungere o da conquistare, senza spazi reconditi dove poter fuggire per mettersi
in salvo. Nel mondo globalizzato o ci si salva tutti insieme o tutti siamo
condannati a perire. La solidarietà oggi non è più un optional per le
“anime candide”, un desueto orpello per i “buonisti”, e neppure una scelta
etica lasciata alla buona volontà dei singoli o degli Stati: è una necessità
per la pura sopravvivenza della specie. Punto. D’ora in poi, la politica non potrà
che fare i conti con questo dato di fatto, che implica necessariamente una
“governance” mondiale, una condivisione senza doppiezze e il disarmo totale,
per la semplice ragione che, venuta meno l’idea tribale dell’altro come nemico e
preso atto che non ci sono confini che ci possano tenere al riparo dalle
sciagure, nessuna guerra avrebbe senso.
San Tomè |
Il secondo insegnamento è la consapevolezza della nostra irriducibile fragilità.
Il
delirio di onnipotenza, che da decenni ci ha reso la vita un inferno con l’implementazione
della smania produttiva e della coazione consumatoria, con un’economia al soldo
di pochi per impoverire i più e una finanza dai connotati criminali che ha
creato immani disuguaglianze e ingiustizie, con una scienza idolatrata come ultimo
e unico criterio di giudizio sulla realtà, ci ha spinti a pensarci come degli
immortali ai quali tutto è concesso, perché il mio “io” è il tutto e gli altri
sono solo un mezzo. Abbiamo scordato da tempo che una convivenza diventa
vivibile, e una società evolve in civiltà, solo se parte dal farsi carico dei
bisogni dell’ultimo dei suoi membri, diversamente regredisce inevitabilmente nella
violenza e nella barbarie, con una platea di “scarti umani” in continua
espansione come una bomba ad orologeria. Non illudiamoci: alla fine pagheremo
il conto e sarà salatissimo!
Per
decenni abbiamo strapazzato irresponsabilmente la natura con inquinamenti di
ogni tipo, depredato le sue preziose risorse, fatto ecatombe di intere specie
viventi, come se noi stessi non appartenessimo ad un meraviglioso ed insieme
fragilissimo ecosistema, da custodire con amore e da contemplare con meraviglia,
perché fonte della nostra stessa vita. Ci siamo sentiti padroni del mondo, con
davanti un pianeta da usare a nostro piacimento e da conformare al nostro
desiderio, del tutto dimentichi che se sporco l’acqua non la posso più bene, se
inquino l’aria mi ammalo senza rimedio, se avveleno la terra muoio di fame, se
disbosco o incendio le foreste non respiro più. Abbiamo anche colpevolmente
ignorato i segnali di pericolo che madre terra ci sta mandando da tempo,
finché, esasperata, ha dovuto reagire per non soccombere alla nostra sciagurata
devastazione. Ed è bastato una sua microscopica e invisibile forma di vita per
metterci in ginocchio ed arrestare la nostra folle corsa verso
l’auto-annientamento. Nessuno mi toglie dalla testa che questo virus è una sorta
di violenza di riporto e un ultimo avvertimento al genere umano: sapremo
coglierlo?
Se
vogliamo salvarci, fraternità, umiltà, sobrietà, compassione devono tornare a
guidarci: antiche virtù da troppo tempo confinate nello spazio religioso o lasciate
all’ambito etico, considerate da una mentalità predatoria per lo più come patrimonio
dei “poveri di spirito” o come magra consolazione per gli sconfitti dalla vita,
quando non derise come anticaglie di un sentire magico-sacrale, che non hanno
più niente a che vedere con la “sana competitività del mercato”, il “giusto”
cinismo che non guarda in faccia a niente e a nessuno, la volontà di potenza
che ignora il limite e dissemina morte, più ancora del coronavirus.
Perciò
quanto mai è necessaria una “metanoia”, come dicevano i greci, ovvero un
cambiamento di mentalità, un nuovo modo di pensare e vivere il mondo e i
rapporti umani, lasciando aperto anche lo spazio al Mistero, per non diventare
schiavi e vittime della nostra stessa presunzione, se vogliamo dare continuità
al genere umano e preservare vivo l’unico pianeta che abitiamo. Ma occorre far
presto, perché di tempo non ce n’è più.
[Villa
d’Almè: 18 aprile 2020]