di Luciano Abbonato*
Un commento al saggio di Marco Vitale
Carissimo Professore,
come sempre i suoi scritti sono fonte di grande
ispirazione e aprono numerose vie ove il pensiero si può incanalare.
Mi piacerebbe seguire tutti gli spunti che lei ci
offre per fornire un contributo di buon senso, se non tecnico, ma credo che la
metafora del tunnel sia la via principale da seguire.
Per capire quale valle ci attende fuori dal tunnel
credo dovremmo interrogarci preliminarmente su due risvolti di questa Pandemia:
uno di natura metafisica e uno di natura geopolitica.
Questa disgrazia, le cui dimensioni, alla fine,
potranno a ragione definirsi bibliche, potrebbe cambiare l’umanità e la
direzione e le dimensioni di tale cambiamento non sono prevedibili al momento.
Ma un effetto già lo osserviamo: si sono
improvvisamente assopite le tensioni legate al credo religioso; il mondo sembra
essersi immerso in una pausa meditativa e nel fronte cristiano il Papa è
diventato una presenza costante e un riferimento, non solo spirituale,
essenziale.
Esula da queste brevi riflessioni la possibilità di
indagare sugli effetti della Pandemia sullo spirito umano, sui futuri stili di
vita, sulla capacità di approcciarsi diversamente a fenomeni globali come l’inquinamento,
il surriscaldamento globale, la povertà, la salute pubblica, il reale accesso
ai diritti umani inalienabili e tra questi al diritto alla mobilità.
Ma il mondo sarà diverso alla fine di questa crisi;
non sappiamo quanto, perché nonostante la scienza non sappiamo quanto durerà e
quante sofferenze ancora porterà, ma sarà diverso.
Leoluca Orlando in un suo recente discorso ha detto
che “si stanno creando le condizioni per una nuova umanità, una nuova
solidarietà, una nuova dimensione culturale di vita”.
Questo tunnel quindi potrebbe essere, mi perdoni la
metafora scientifica, un vero e proprio tunnel spazio-temporale, che ci porta
non solo in una nuova valle, ma in una nuova epoca.
Non solo non siamo in grado di predire con certezza
l’entità di questo cambiamento, ma non siamo neanche in grado di contrastare
questa grande forza. Possiamo però prepararci.
E veniamo al secondo aspetto che vorrei sottoporre
alla sua attenzione. La dimensione geopolitica. Non voglio porre il problema
solo su un piano mercantilistico, ma c’è anche questo. La parola d’ordine che
risuona martellante sui social-media americani in questo momento è: alla fine
di questa crisi, comprate americano.
Le tensioni sovraniste sembrano essere destinate a
crescere e la scarsa mobilità di uomini e merci con cui dovremo fare i conti
per molto tempo sarà un ulteriore detonatore. In Europa ci troveremo ancor più
schiacciati tra tre blocchi: la Cina, gli Stati Uniti e la Russia.
Hanno ragione Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che
in un editoriale del Corriere della Sera (5 aprile 2020) parlano di un secondo
virus nel pianeta, il populismo che si manifesta in almeno quattro forme e
attacca le democrazie del mondo: “… Proprio per evitare il ripetersi di
quelle catastrofi si è iniziato, negli anni Cinquanta, il processo di
cooperazione europea. Sparita l’Europa, come vorrebbero i sovranisti, Stati
Uniti, Russia e Cina deciderebbero da soli le sorti dell’umanità, da come
proteggerci contro i cambiamenti climatici, alle regole del commercio fra nazioni…
I falchi del Nord Europa sembrano non capire che qui non si tratta di
disquisizioni tecniche su eurobond e Mes, ma di compiere scelte che
determineranno la sopravvivenza, o meno, dell’Europa… in un mondo in cui
l’Unione Europea è rimasto uno dei rarissimi esempi di collaborazione tra
stati”.
E veniamo allo snodo, a quello che potrebbe essere un
collante tra la dimensione metafisica della crisi e la dimensione geopolitica e
che oggi è soltanto un elemento disgregante: la politica.
Ernesto Galli della Loggia sempre sul Corriere della Sera,
il 7 aprile scrive: “Nell’esperienza occidentale la politica è sempre stata
debitrice verso la religione delle sue categorie fondamentali”… Ma è stata
dalla cultura classica e insieme dal quella religiosa, da queste due decisive
dimensioni del passato e del nostro legame con esso, che nel corso della storia
gli europei hanno anche personalmente tratto la scala dei propri valori,
l’insieme delle disposizioni psichiche, emotive ed ideali, che nelle più
diverse circostanze li hanno orientati personalmente ai modelli della virtù
individuale e del bene collettivo. Modelli che si sono rilevati così decisivi
nel definire il rapporto del nostro continente con la politica, tanto intenso
quanto fecondo. C’è bisogno di dire quanto oggi la fonte religiosa e quella
della cultura classica appaiano inaridite, disertate dalle coscienze e perfino
dalle conoscenze dei più? Da qui dunque la domanda se sia solo per un caso che
proprio in coincidenza di un tale abbandono si manifesti la drammatica
impotenza politico ideale della costruzione europea. Se sia solo per caso che
oggi ci manchi qualsiasi pensiero forte, qualsiasi visione lungimirante,
qualsiasi volontà generosa e grande”.
A ricordare quella scala di valori europei, e in
particolare la solidarietà, interviene Papa Francesco, nel bellissimo messaggio
Ubi et Orbi pronunciato oggi in San Pietro in occasione della santa Pasqua: “Tra
le tante aree del mondo colpite dal Coronavirus rivolgo uno speciale pensiero
all’Europa. Dopo la Seconda guerra mondiale questo continente è potuto
risorgere grazie ad un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di
superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle
circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore ma che tutti si
riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione
Europea ha difronte a sé una sfida epocale dalla quale dipenderà non
solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda occasione
di dare ulteriore prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni innovative.
L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di
un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza
pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.
Voglio essere ottimista Professore. Voglio credere che
il messaggio del Papa non cadrà nel vuoto. Voglio credere che questa tragedia
possa essere un una straordinaria occasione di riflessione e apprendimento.
Voglio credere che quelle grandi forze ideali siano soltanto sopite dentro di
noi. Anzi ne sono convinto, perché sotto la crosta miserabile
politico-affaristica di questo grande Paese ci sono persone come Lei che sono
profondamente radicate in quel pensiero forte e generoso.
Al punto in cui siamo oggi, tocca a noi riprendere
quel pensiero forte e generoso, alla politica trovare ispirazione, trovare la
propria ragion d’essere. E ciò forse attraverso nuovi protagonisti.
Credo che oggi noi europei dovremmo dedicare tutti i nostri
sforzi verso un unico punto: la costruzione urgente degli Stati Uniti d’Europa.
Ce lo chiede la storia, ce lo chiede il momento. E ciò non solo per lo stato di
necessità in cui ci troviamo e in cui ci troveremo ancora nel futuro stante la
scala delle crisi economiche, sociali e sanitarie; non solo per non ridurci in
tanti staterelli in competizione tra loro, solo apparentemente sovrani, ma di
fatto alla mercé delle tre grandi concentrazioni di potere mondiale; ma
perché l’Europa è la nostra identità ed è l’unica strada per salvare l’ultra
millenario patrimonio dell’umanità rappresentato dal nostro sistema di valori,
fortemente radicato nella cultura classica e nella cristianità.
Sono convinto che tutto il resto seguirebbe in maniera
naturale, con soluzioni e tempi oggi impensabili. Non mi sottraggo tuttavia a
brevi notazioni su due temi centrali del suo scritto: debito pubblico e
burocrazia, argomenti che, lo premetto, vedo strettamente collegati al nodo
politico.
Da anni diciamo che l’Italia soffre di due grandi
mali: il deficit e il debito pubblico.
Ma l’attenzione è stata distratta da due indicatori,
deficit/Pil e debito/Pil, i cosiddetti “parametri di Maastricht”, con l’effetto
da lei denunciato che la maggior parte degli addetti ai lavori si è conformata
alla comoda idea che la crescita del Pil (nominale) potesse essere uno
strumento per conseguire il rispetto degli indicatori e di conseguenza il
governo del problema. Ragionamento matematico, ma ampiamente fallace alla luce
dei fatti.
Da economisti d’impresa abbiamo cercato di proporre
visioni, se non alternative, quanto meno complementari, guardando, ad esempio,
il debito in valore assoluto. Sotto questo profilo, il problema del cosiddetto
“ricatto del debito pubblico” non riguarda soltanto il pagamento degli
interessi che ogni anno gravano sul bilancio dello Stato, ma forse
principalmente l’ammontare complessivo delle rate (capitale e interessi) che
vanno rimborsate e che dipendono anche dai tassi d’interesse ma in misura
principale dall’entità e dalla vita media del debito.
Il debito pubblico italiano alla fine del 2019 ammonta
a 2.400 miliardi di euro ed è composto per 2.000 miliardi di euro da titoli di
Stato. La vita media residua è 7,3 anni, mentre la vita media residua ponderata
dei titoli di stato è 6,8 anni, valore estremamente basso per un Paese che ha
un rapporto debito/Pil superiore al 130%.
Il nostro debito pubblico è costituito per 561
miliardi, cioè quasi un quarto, da debiti a breve termine, con scadenza
inferiore ad un anno, mentre se guardiamo ai soli Titoli di Stato nel corso del
2020 scadranno obbligazioni per 328 miliardi di euro.
Questo vuol dire che nel 2020 lo Stato italiano, oltre
a dover stanziare sul proprio bilancio circa 70 miliardi di euro per pagare gli
interessi, dovrà riuscire, per rimborsare i titoli in scadenza, a far
sottoscrivere nuove emissioni per un pari controvalore (328 miliardi, appunto),
risorse che inevitabilmente vengono drenate dall’economia, con un significativo
effetto di definanziamento degli investimenti privati (effetto spiazzamento).
Noi italiani avremmo da tempo dovuto cercare,
attraverso nuove emissioni a lunghissimo termine, di avvicinare la vita media
del nostro debito pubblico a quella del Regno Unito (15 anni) e comunque a
quello di Svizzera e Belgio (9-10 anni), circostanza quest’ultima che
consentirebbe, a parità di condizioni (e di entità di debito), di liberare
circa 100 miliardi di euro annui di liquidità per il sistema economico.
Naturalmente in questa fase il debito dovrà crescere
significativamente per finanziare le minori entrate fiscali e la spesa
aggiuntiva anticrisi e diventa più che mai necessario allungarne il profilo di
ammortamento.
Ecco perché la sua idea di un “Nuovo prestito della
ricostruzione” - con una scadenza minima di 30 anni e una quota rilevante di
irredimibile - mi convince: sarebbe contestualmente una straordinaria occasione
per rendere realmente sostenibile il nostro debito pubblico - senza scaricarlo
sull’Europa - e mobilitare risorse pubbliche e private utili per sostenere
l’economia e rilanciare gli investimenti. E in questo quadro la prospettiva
Eurobond diventerebbe allo stesso tempo secondaria e maggiormente percorribile.
Gli investimenti privati ripartiranno, ma quello che
mi preoccupa di più è la spesa pubblica, a partire dai fondi europei anticrisi,
dove ci scontriamo con un’altra “mala bestia”: la burocrazia.
Ma qui devo premettere un giudizio di valore: la mia
esperienza mi dice che la forza della burocrazia è la debolezza della politica
e quanto più la politica è debole, inesperta e insicura, tanto più essa tende
ad accentrare e burocratizzare. Voglio fare qualche esempio.
La protezione civile, che dovrebbe essere finanziata
interamente sul bilancio dello Stato, ha avviato a metà marzo una raccolta di
fondi privati per l’emergenza Covid-19 al fine di acquistare dispositivi di
protezione individuale e ventilatori. Poiché in una fase iniziale vari
soggetti, tra cui i singoli ospedali, avevano avviato iniziative analoghe, il
Codacons è addirittura intervenuto sull’Anac e sulla Presidenza del Consiglio
affinché la raccolta, previo immancabile tavolo tecnico, venisse concentrata
sulla Protezione civile. Ed è stato accontentato. Risultato: a un mese di
distanza, in una fase in cui mancano ancora perfino le mascherine per i medici,
sono stati raccolti 120 milioni di euro e spesi appena 25 milioni. Anche in
questo ambito, se vogliamo banale, dove si poteva e si doveva operare spediti
senza pubblicare un bando di gara in Gazzetta Ufficiale per una spesa di
qualche centinaio di migliaia di euro, la politica ha fatto entrare la
burocrazia.
Neoliberisti |
Non posso dimenticare che nel 1999, per la gestione dei fondi privati dell’emergenza Kosovo (Missione Arcobaleno-gestione fondi privati), il Governo si orientò diversamente, nominando un Commissario indipendente, mi pare si chiamasse Marco Vitale, che operò con efficienza e trasparenza, spendendo in tempi record, in progetti talvolta estremamente complessi, i 129 miliardi di lire raccolti.
Lei ricorderà che qualche tempo fa le scrissi
auspicando che il Governo potesse emanare un decreto di due righe autorizzando
procedure dirette e snelle per gli approvvigionamenti Covid-19. E invece nulla
è stato fatto per anticipare e semplificare le forniture e nonostante
l’emergenza sanitaria fosse stata dichiarata il 31 gennaio, le prime procedure
“d’urgenza”, bandite ovviamente tramite Consip, sono state pubblicate soltanto
a metà marzo, alcune sono andate male (con conseguenti scandali e arresti), e
ad oggi risultano aggiudicate gare per appena 307 milioni di euro,
probabilmente non ancora effettivamente spesi, con l’effetto che i dispositivi
di protezione individuale e i reagenti per i tamponi scarseggiano
drammaticamente.
La colpa è della burocrazia? Come dare la colpa alla
sola burocrazia quando gli indirizzi sono tardivi e confusi e le norme sono
degne di un’enciclopedia?
Quando la politica ha orizzonti limitati finisce per
non distinguersi più dalla burocrazia, la visione diventa propaganda, la
strategia diventa tattica e l’azione, procedura.
Lei ha ricordato che questo Paese ha ancora un grande
patrimonio: i comuni.
Non possiamo dimenticare che anche le procedure
centralizzate per l’urgentissimo sussidio di 600 euro e per la cassa
integrazione sono fallite e che non un solo euro è pervenuto ancora per questa
via nelle tasche dei cittadini italiani (e forse qui ha ragione qualche
consulente del lavoro illuminato che sostiene che alla ripresa la migliore
forma di sostegno ai lavoratori e alle imprese è una forte riduzione del cuneo
fiscale).
I Comuni invece, non a caso, hanno già speso le poche
risorse ricevute e continuano a fronteggiare in isolamento, insieme agli
ospedali, questa prima grande ondata, garantendo il welfare e la pace sociale.
Molti sindaci, oltre a spendere quel poco che gli è
stato assegnato, hanno realizzato autonomamente una iniziativa seria sul piano
fiscale: sospendere la tassazione locale per manifesta inesigibilità. Si
aspetta da settimane il decreto che dovrebbe avallare questa operazione, ma è
già stato comunicato che gli oneri rimarranno a carico dei bilanci dei Comuni
che in cambio riceveranno un prestito dalla Cassa depositi e prestiti. Un
prestito!!!
Una politica forte e lungimirante avrebbe dirottato 10
miliardi di euro, dei 400 promessi al sistema imprenditoriale italiano, agli
enti locali, ripristinando l’entità dei trasferimenti statali inopinatamente
azzerati a partire dal 2011 da questo finto federalismo fiscale.
E anche qui non credo che il problema sia burocratico,
ma concordo che a livello locale la burocrazia si governa molto meglio.
Caro Professore, la politica spesso ci ricorda il
proprio primato. Concordo! E allora dico che oggi, nel nostro Paese, l’Europa,
il debito, la spesa pubblica e la burocrazia sono parte un unico grande
problema… Politico!
*Economista d’impresa, Magistrato della Corte dei
conti
[Palermo, domenica di Pasqua 12 aprile 2020]