di Stefano Zamagni*
Stefano Zamagni |
Un commento al testo di Marco
Vitale
Il testo
di Marco Vitale che il lettore ha per mano merita più di una lode per la
chiarezza espositiva, per l’acume dell’analisi della situazione italiana, per
la ricchezza degli stimoli e dei suggerimenti avanzati. Qui di seguito, alcune
mie considerazioni e chiose sui paragrafi in cui si articola lo scritto.
1.- Il grosso
bivio di fronte al quale si trova oggi il paese è quello che concerne la scelta
della strategia di uscita dalla crisi. La storia insegna che si può uscirne in
due modi. Per un verso quello del ritorno alla situazione ex-ante, con gli
aggiustamenti necessari. È questo il “modello dell’alluvione”: si attende che
l’acqua rientri nell’alveo del fiume, si rinforzano gli argini e poi “business
as usual”. Per l’altro verso, c’è il modo della resilienza trasformativa: si
interviene per arricchire la capacità di resistenza del sistema contro la sua
vulnerabilità, e lo si fa trasformando interi pezzi dell’assetto istituzionale
pre-esistente. Non bastano le riforme, che sono adatte per la prima strategia.
Vitale, al pari di chi scrive, si spende per la seconda via d’uscita. Infatti,
perché sprecare l’occasione di una crisi così profonda per imprimere alla nostra
società un cambio radicale di passo? D’altro canto, a che servirebbe diventare
più resilienti per conservare l’esistente?
2.- Tutti
sanno che la struttura del nostro sistema produttivo è caratterizzata dalla
prevalenza delle piccole e medie imprese. È dunque scorretto - anche
metodologicamente - applicare ad una realtà come le nostre, ricette che sono
state pensate e poste in atto in realtà affatto diverse. È questo un limite di
non poco conto della nostra cultura: il limite di chi subisce il fascino di quel
che accade altrove, ritenendolo comunque superiore. L’esterofilia è segno di
sudditanza culturale che è sempre dannosa perché conduce, tanto o poco, al
misoneismo, che è la disposizione d’animo di chi odia il cambiamento.
Dimentichiamo così di ricordarci che l’economia di mercato, intesa quale
modello di ordine sociale, è nata in terra d’Italia (Toscana) durante il secolo
dell’Umanesimo civile (il Quattrocento). Un solo esempio di conseguenza
negativa derivante da tale dimenticanza. Abbiamo depotenziato, fino alla
scomparsa, quelle banche di comunità e del territorio, di cui oggi avremmo
grande necessità per la rinascita del nostro sistema produttivo. Questo perché?
Per l’irragionevole scelta di accogliere l’assurda tesi secondo cui nel settore
bancario “one size fits all” - una tesi priva di ogni fondamento scientifico.
Lo stesso potrebbe dirsi per lo smantellamento dei distretti industriali, che
anziché essere profondamente rinnovati, sono stati dati in pasto alle forze del
globalismo (da non confondersi con la globalizzazione). E così via.
3.-Sulla
“debolezza e cattiveria della burocrazia”, Vitale ha scritto pagine
lungimiranti. La burocratizzazione, - cioè l’elefantiasi della burocrazia - è
l’effetto, non la causa, del male. La causa va rintracciata, piuttosto, nel rent-seeking
(ricerca della rendita). È questo il vero cancro all’origine del nostro
declino, perché, al pari di quella terribile patologia, la rendita vive e
prospera estraendo valore dai fattori che creano valore, cioè lavoro e
capitale. Tante sono le forme della rendita: finanziaria, immobiliare,
fondiaria, burocratica; ma tutte hanno in comune il medesimo elemento: la non
generatività. Si leggano le pagine che Achille Loria (1857-1943) dedica alla
rendita quale più grave patologia del capitalismo. Ebbene, la burocrazia è lo
strumento principale nelle mani del potere politico per assicurarsi la
conservazione (e il potenziamento) delle posizioni di rendita. Ecco perché
tutte le forze politiche si stracciano le vesti per l’eccessiva burocratizzazione,
ma nulla succede. In realtà basterebbe: disboscare la normativa e renderla
leggibile; selezionare i capi della burocrazia, anziché nominarli; dotare gli
uffici di tecnologie adeguate per aumentarne la produttività, etc. Non ci sarà
mai una rinascita, se non si va alla radice del male che pure viene denunciato -
ha ricordato di recente papa Francesco. È in vista di ciò che occorre portare
avanti il progetto di democrazia deliberativa - da non confondere con la
democrazia decidente. Perché non si salva l’economia se prima non si salva la
democrazia.
4.- “Evitare
il ritorno dello statalismo”. Parole sagge e da sottoscrivere. È evidente che
nelle fasi emergenziali lo Stato debba intervenire, anche in modo pesante per
svolgere ruoli di supplenza degli attori privai e civili in una pluralità di
ambiti. Ma deve farlo tenendo fermo lo sguardo sul dopo (nel caso di specie,
sul dopo pandemia). Per scongiurare il rischio del “crowding-out” (cioè
l’effetto spiazzamento). Così, va bene l’elargizione di denaro, ma a condizione
che questo avvenga in modo da trasformare i settori produttivi. Inoltre, il
governo deve intervenire per creare le condizioni affinché mercato e comunità
possano librarsi con le loro ali, senza sostituirsi paternalisticamente ad
essi. Ad esempio, il Decreto Liquidità non deve far tornare il sistema
economico al 1933, quando venne creata l’IRI. L’immagine che favorisco è quella
dello Stato come levatrice che, dopo la venuta alla luce di una nuova vita, si
ritira. Come ricordava, con forza, Luigi Sturzo, lo Stato non può diventare
un’istituzione totale, perché esso appartiene all’ordine dei mezzi e non dei
fini. Il fine è il bene comune della nazione ed è rispetto a ciò che lo Stato
va giudicato - sempre che si voglia rimanere entro il modello della democrazia
liberale. Concretamente, ciò postula l’accoglimento del principio di
sussidiarietà, ma nella versione dell’art. 118 della Costituzione, modificato
nel 2001. Spiace dirlo, ma nella gestione della crisi tuttora in corso, non si
è voluto dare applicazione a tale principio - per primo formulato da
Bonaventura da Bagnoregio alla fine del XIII secolo! - e stiamo vedendo le
conseguenze.
Termino
con una osservazione di carattere generale. La pandemia della Sars2 (Covid-19)
è una grande opportunità per lasciarsi alle spalle il sentiero di crescita
finora percorso e per dare inizio ad un sentiero di sviluppo umano
integrale. Non cogliere tale opportunità sarebbe un atto di grave mancanza di
responsabilità. Essere responsabili, oggi, significa caricarsi sulle spalle il
“peso delle cose” (res pondus), e non semplicemente non commettere reati
o manchevolezze varie. Quest’ultima è la responsabilità come imputabilità; la
prima è la responsabilità come prendersi cura. È di quest’ultima che c’è
soprattutto un grande bisogno nel nostro paese, come Marco Vitale ci sollecita
a considerare.
*Economista,
Dipartimento di Scienze Economiche
Università
di Bologna
[Bologna,
sabato 18 aprile 2020]