Lettera-appello di 13 medici dell'Ospedale
Papa Giovanni XXIII di Bergamo
«Lavoriamo
all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, una struttura all’avanguardia con
48 posti di terapia intensiva. Nonostante Bergamo sia una città relativamente
piccola, è l’epicentro dell’epidemia con 4.305 casi, più di Milano e di
qualsiasi altro comune nel paese. Il nostro ospedale è altamente contaminato e
siamo già oltre il punto del collasso: 300 letti su 900 sono occupati da malati
di Covid-19. Più del 70% dei posti in terapia intensiva sono riservati ai
malati gravi di Covid-19 che abbiano una ragionevole speranza di sopravvivere.
La
situazione è così grave che siamo costretti a operare ben al di sotto dei
nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva
durano ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono in
solitudine senza neanche il conforto di appropriate cure palliative. Le
famiglie non possono avere alcun contatto coi malati terminali e sono avvisate
del decesso dei loro cari per telefono, da medici benintenzionati ma esausti ed
emotivamente distrutti. Nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore.
Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso, e mancano le
medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e le mascherine e le tute
protettive per il personale sanitario. I pazienti giacciono su materassi
appoggiati sul pavimento. Il sistema sanitario fatica a fornire i servizi
essenziali come l’ostetricia, mentre i cimiteri sono saturi e (l’accumulazione
dei cadaveri, ndt) crea un ulteriore problema di salute pubblica. Il personale
sanitario è abbandonato a se stesso mentre tenta di mantenere gli ospedali in
funzione. Fuori dagli ospedali, le comunità sono parimenti abbandonate, i programmi
di vaccinazione sono sospesi e la situazione nelle prigioni sta diventando
esplosiva a causa della mancanza di qualsiasi distanziamento sociale. Siamo in
quarantena dal 10 marzo. Purtroppo il resto del mondo sembra non essersi
accorto che a Bergamo l’epidemia è fuori controllo.
I
sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di
patient-centered care (un approccio per
cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai
valori del paziente, ndt). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva
verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che
c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie. A livello nazionale,
regionale e di ogni singolo ospedale ancora non ci si è resi conto della
necessità di coinvolgere nei processi decisionali chi abbia le competenze
appropriate per contenere i comportamenti epidemiologicamente pericolosi. Per
esempio, stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli
di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti
che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale
contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale
sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori
asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza. Alcuni
rischiano di morire, compresi i più giovani, aumentando ulteriormente le
difficoltà e lo stress di quelli in prima linea.
Questo
disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio spiegamento di servizi
alla comunità, sul territorio. Per affrontare la pandemia servono soluzioni per
l’intera popolazione, non solo per gli ospedali. Cure a domicilio e cliniche
mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli
ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti
adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o
in convalescenza. Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che
garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli
strumenti della telemedicina.Un tale approccio limiterebbe l’ospedalizzazione a
un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo così il contagio, proteggendo i
pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti
protettivi. Negli ospedali si deve dare priorità alla protezione del personale
medico. Non si possono fare compromessi sui protocolli; l’equipaggiamento deve
essere disponibile. Le misure per prevenire il contagio devono essere
implementate massicciamente, in tutti i luoghi compresi i veicoli. Abbiamo
bisogno di strutture ospedaliere interamente dedicate al Covid-19 e separate
dalle aree non contagiate. Questa epidemia non è un fenomeno che riguarda
soltanto la terapia intensiva, è una crisi umanitaria e di salute pubblica.
Richiede l’intervento di scienziati sociali, epidemiologi, esperti di
logistica, psicologi e assistenti sociali. Abbiamo urgente bisogno di agenzie
umanitarie che operino a livello locale.L’Oms ha lanciato l’allarme sugli
allarmanti livelli di inazione (dei paesi
occidentali, ndt). Sono necessarie misure coraggiose per rallentare
l’infezione. Il lockdown è fondamentale: in Cina il distanziamento sociale ha
ridotto la trasmissione del contagio di circa il 60%. Ma non appena le misure
restrittive saranno rilassate per evitare di fermare l’economia, il contagio
ricomincerà a diffondersi.
Abbiamo
bisogno di un piano di lungo periodo per contrastare la pandemia.Il coronavirus
è l’Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è
particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e
centralizzata, più si diffonde il virus. La
catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi
ovunque».