di
Franco Astengo
In
questi giorni in cui l’emergenza sanitaria si intreccia con una difficile
prospettiva economica si sente spesso evocare la necessità di un “Piano
Marshall” quale indicazione per l’utilizzo di uno strumento economico-
finanziario capace di spingere in avanti il tessuto produttivo, stimolare i
consumi e far ripartire in una qualche misura il “sistema-Paese”.
Sarà
bene allora, sia pure in maniera schematica, inquadrare sul piano storico ciò
che significò per l’Europa e l’Italia nelle complicate vicende del dopoguerra
il Piano Marshall. Andando per ordine.
Il
31 maggio 1947
De Gasperi varava il monocolore democristiano con i “tecnici” liberisti
(Einaudi vice-presidente del Consiglio e ministro del Bilancio). In quel
momento il Dipartimento di Stato con un’inconsueta dichiarazione evidenziava il
proprio impegno a fianco della svolta di rottura della solidarietà antifascista
attuata dalla DC.
Il
5 giugno
Marshall (nominato segretario di Stato da Truman il 21 gennaio) annunciava nel
discorso di Harvard il nuovo progetto di aiuti all’Europa Occidentale. Con
l’attuazione di questo progetto la politica di De Gasperi trovava le risorse
economiche, la cornice di cooperazione internazionale e, soprattutto, riceveva
l’appoggio strategico degli Stati Uniti.
L’appoggio
americano era essenziale per la credibilità politica e la fattibilità economica
del progetto di De Gasperi, abile a ricollegare la crisi interna all’evolversi
della guerra fredda. Da quel momento gli USA sarebbero stati alleati strategici
del centrismo, fattori di primo piano nella vicenda economica e politica
italiana. Per ottenere l’aiuto degli americani De Gasperi fece leva sulla
debolezza del paese, sulla sua vulnerabilità strategica e sulla precarietà
delle forze che si riconoscevano nell’Occidente.
Negli
anni successivi questa accentuazione della dipendenza avrebbe non solo
condizionato la vicenda interna all’Italia ma anche la sua politica estera.
La
divisione dell’Europa originava dai risultati della guerra e non fu creata dal
Piano Marshall. Ma questo ne rappresentò il riconoscimento e l’accettazione da
parte degli Stati Uniti. Il governo americano, con l’annuncio dato da Marshall
circa la disponibilità a predisporre un piano straordinario di aiuti finanziari
ai governi europei, abbandonava l’irrealistico disegno di un multilateralismo
universale e passava a organizzare la crescita e gli scambi sulla scala più
ridotta dell’Europa Occidentale e dell’area atlantica.
La
potenza economica americana veniva posta al servizio dell’esigenza strategica
del contenimento (la dottrina Kennan) e l’assioma della prosperità come
fondamento della stabilità democratica si traduceva in una concreta iniziativa
politica che, per la prima volta nel dopoguerra, integrava gli obiettivi
economici e di sicurezza della potenza americana.
In
sostanza gli USA avevano preso atto che con la conclusione della Seconda guerra
mondiale “la storia non era finita”, come invece si cercò di far credere quarant’anni
dopo con la caduta del muro di Berlino.
Il
31 marzo 1948
il Congresso votava l’European Recovery Act (ERP) che dall’estate diventò
operativo. Un’agenzia autonoma, la Economic Cooperation Administration (ECA)
avrebbe gestito per quattro anni con apposite missioni in ogni paese
partecipante, un flusso complessivo di aiuti per 12,3 miliardi di dollari. L’Erp
nasceva intorno all’idea di riorganizzare in maniera funzionale la produzione e
gli scambi europei prendendo finalmente atto delle dislocazioni portate dalla
guerra e dalla divisione del continente.
Il
principio dell’apertura dei mercati e dell’integrazione economica su scala
continentale rispondeva al doppio scopo di accrescere la produttività
attraverso la concorrenza e le economie di scala e di rimodellare la geografia
dei flussi commerciali. Il tradizionale scambio prebellico tra i prodotti
industriali dell’Occidente e quelli agricoli dell’Est fu rapidamente
soppiantato dalla creazione di un mercato parzialmente liberalizzato
dell’Europa Occidentale.
Dal
1949 in
poi, la sua crescita si fondò intorno alla ripresa dell’economia tedesca che
divenne progressivamente l’epicentro di un massiccio flusso di scambi
industriali tra tutti i principali centri produttivi dell’Europa Occidentale. Il
messaggio ideologico dell’ERP che avanzava la promessa di una società beneficata dagli aumenti di produttività
nella quale i conflitti redistributivi sarebbero stati depurati dai loro
aspetti politici e di classe in favore di una contrattazione pluralista ed eminentemente
tecnica (come in in Italia pensavano le appena formate CISL e UIL dopo la
scissione dalla CGIL) si sarebbe rivelato un “sogno americano” ampiamente
inadatto alla società europea degli anni ’50 - ’60 che avrebbe invece elaborato
modelli propri di corporativismo statalista, di rappresentanza
socialdemocratica del lavoro e di relazioni industriali centralizzate. L’analisi
degli effetti dell’ERP in Italia mette però in evidenza importanti peculiarità
nazionali rispetto allo scenario europeo appena delineato. Fino agli anni’70
inoltrati infatti l’Italia rappresentò “un caso”. Nei quarantacinque mesi di
attività dell’ECA l’Italia ricevette 1387 milioni di dollari, corrispondenti al
2% del Prodotto nazionale; essi coprirono un’ampia quota delle importazioni (il
33% nel 48-49; il 29% nel 49-50; il 13% nel 50-51) ed equivalsero al 14% degli
investimenti lordi italiani per il periodo 1948-52.
La
grande importanza propagandistica del Piano Marshall nelle elezioni del 18
aprile 1948 aveva avuto quindi una effettiva corrispondenza sul piano economico
poiché gli aiuti fornirono un margine cruciale di sopravvivenza al governo di
un paese socialmente lacerato e sottoposto a una contestata manovra deflattiva.
Dopo
il 18 aprile la DC iniziò a estendere il proprio dominio sull’apparato statale
e sui centri di spesa, e il controllo sulla destinazione degli aiuti e dei
crediti ERP, divenne una leva nodale della mediazione politica democristiana.
La
centralità democristiana nella vita economica della Repubblica nasceva così
intorno all’uso pilotato di specifiche facilitazioni economiche che,
naturalmente, favorivano i soggetti dotati di maggiore autorità negoziale e di
progetti per l’espansione di produzioni strategiche come la siderurgia,
l’elettricità, la meccanica, i grandi gruppi pubblici come la Finsider e quelli
privati come la Fiat e l’Edison, che alla fine ottennero circa il 70% dei fondi
agevolati messi a disposizione attraverso l’ERP .
La
spesa pubblica italiana acquisiva già i suoi tratti caratteristici dell’intero
dopoguerra: non il sostegno alla domanda aggregata ma gli aiuti mirati alla
grande industria; invece di un sistema di welfare universale, l’assistenza
distribuita in chiave clientelare ad aree e gruppi particolari.
La
concentrazione degli investimenti in settori con grandi mercati europei e un
forte potenziale di sviluppo domestico, l’innovazione degli impianti con
tecnologie americane per la produzione di massa e il contenimento dei salari
permisero una vigorosa crescita della produttività e furono alla base di un
ciclo di rapido sviluppo.
Problemi
cruciali quali la riforma agraria (al centro di una fase di violenti scontri
sociali nel Mezzogiorno), l’innovazione della riforma fiscale (iniziata
soltanto nel 1951 con la riforma Vanoni), la disciplina della concorrenza o
l’assistenza ai redditi più deboli venivano affrontati precipuamente in
funzione delle esigenze politiche di insediamento della Dc, dando vita a un
peculiare intreccio di liberismo e statalismo dominato dalla centralità
dell’intermediazione politica e burocratica dei partiti di governo con totale
oscuramento del principale obiettivo dei keynesiani dell’ECA rappresentato
dalla crescita dell’occupazione e dei redditi operai.
Obiettivi
quelli della crescita dell’occupazione e dei redditi operai su cui avrebbe
dovuto misurarsi il modello su cui imperniare, nella visione degli americani,
la contesa verso le rappresentanze sociali del PCI e del PSI.
Per
tutti gli anni ’50 i lavoratori dell’industria rimasero ai margini dello
sviluppo; la disoccupazione si mantenne alta.
La
classe operaia rimase così debole in una capacità contrattuale esclusivamente
difensiva, sottoposta al ricatto della ristrutturazione industriale e
sottoposta a una pesante repressione poliziesca.
I salari si mantennero costantemente al di
sotto della crescita dell’ indice di produttività.
La
filosofia di modernizzazione sociale propagandata dal Piano Marshall non
trovava in Italia l’interlocutore politico. La gestione degli aiuti rimase
completamente nelle mani dei ceti conservatori e del progetto democristiano,
considerata anche la sostanziale subalternità alla DC del partito
socialdemocratico nato nel 1947 dalla scissione di Palazzo Barberini.
Nell’aprile
1950 il National Security Council riconsiderava la politica americana verso
l’Italia, individuando il principale pericolo per gli interessi statunitensi
nel “forte e persistente assalto comunista” cui il governo era sottoposto. Il
mantenimento di questa capacità di contesa dell’egemonia sociale e di pressione
politica pur dentro alla guerra fredda, fu dovuta all’espressione di
rappresentanza della classe operaia realizzata dal PCI.
Una
capacità di “rappresentanza nazionale” della classe operaia dentro al “partito
nuovo” che può ben essere considerata, assieme all’elaborazione realizzata
nella Costituente, come il vero capolavoro compiuto dalla segreteria Togliatti.
Per la potenza americana si trattava allora di mantenere la stabilità di
governo in Italia dentro la rigida divisione bipolare dell’Europa.
Fu
accentuata allora la logica del “contenimento” inasprendo il conflitto sociale
attraverso la repressione anche violenta delle lotte operaie e contadine.
Gli
USA (nel 1953 fu ambasciatrice in Italia Clara Boothe Luce perfetta interprete
della dottrina Kennan e appoggiata dai settori più conservatori della DC)
operarono così saldamente con chi poteva incarnare l’anticomunismo e
realizzarlo vittoriosamente ed in Italia questo protagonista era comunque la
DC, nonostante che l’ERP in Italia fosse stato interpretato in chiave
contrastante con la filosofia sociale di cui avrebbe dovuto essere portatore.
Tornando
all’oggi sono evidenti le ragioni per le quali evocare nell’attualità un “Piano
Marshall” appare assolutamente un richiamo di dimensione mitologica, una delle tante
distorsioni storiche che alimentano nel nostro Paese ricostruzioni
assolutamente errate addirittura raccontando che i comunisti furono a lungo al
governo e che il periodo della ricostruzione post-bellica avesse rappresentato
una sorta di Arcadia della perfetta armonia.
Per
questa elaborazione è stato assunto come testo di riferimento il volume 1 della
“Storia dell’Italia Repubblicana” Einaudi Torino 1995