di Filippo Ravizza
Filippo Ravizza |
“Sei vecchio”
gli disse l’uomo,
“credi di mangiarne i frutti?”
“Oh!” gli rispose il vecchio,
“non è per me che pianto,
non è per me”.
Inizio
queste righe dedicate alla raccolta di poesie di Angelo Gaccione (Spore, Interlinea,
Novara, 2020) con la citazione integrale di uno dei primissimi testi (il
secondo, per la precisione) che compongono questa raccolta. Inizio da lì e da
lì comincio a ragionare su questo illuminante libretto (il diminutivo è
collegato esclusivamente al fatto concreto che i titoli di Interlinea spesso si
materializzino in volumi di piccolo formato, 16 x 12, a voler essere precisi)
perché da questa prima poesia parte il cammino che si dipana lungo due sezioni
di distici prima prevalentemente epigrammatici e poi prevalentemente elegiaci;
66 composizioni, 65 poetiche e una invece sostanziata in una piccola
intensissima prosa (pagina 77); ‘Per il verso giusto’ la prima sezione, composta
di 57 testi, tutti rigorosamente privi di titolo, ma numerati, ‘La presenza dei
morti’ la seconda: anche qui volutamente nessun titolo, ma la soluzione anche
qui di una salda concatenazione numerica (da 1 a 9) a collegare strettamente
l’intero cammino concettuale del libro. Così i versi di Gaccione disegnano un
sentiero articolato in 66 stazioni concettuali in progressivo e costante
movimento, finalizzato ad aprire, sviluppare e infine chiudere una ampia
riflessione sul destino e sul mondo, sul significato possibile del nostro
esserci, alla luce però anche di una lucida consapevolezza dello iato sempre
amplissimo tra idea e realtà, tra l’idea e la possibilità dell’azione che
invera l’idea, la fa diventare, in rari felici casi, vera. Le spore nel regno
vegetale sono cellule riproduttrici, hanno la caratteristica di germinare,
cioè produrre nuovi individui; tra i batteri le spore invece servono a
resistere in condizioni avverse. Comunque le spore in entrambi i casi hanno la
capacità di disperdersi nell’ambiente germinando. Queste, mi pare di poter
dire, sono le “spore” di Gaccione: componimenti che vogliono resistere, e
vogliono disperdersi tra noi, e vogliono creare nuove situazioni. Il nostro
autore, dal canto suo, lo dichiara sin dalla seconda sua poesia, facendo
appello ai ricordi e alla saggezza contadina della sua natia Calabria (anche se
da oltre quarant’anni ormai egli vive a Milano). Mi piace immaginare che il
vecchio del testo posto ad esergo di queste note sia il nonno contadino più
volte citato da Angelo, il nonno che risponde, a chi gli chiede
perché si ostina a coltivare piante di cui non potrà mangiare i frutti: “non
è per me che pianto, / non è per me”.
Spostiamoci ora con un ampio balzo (ma poi torneremo
“nel mezzo del cammino”) all’ultima poesia del libro, la numero 9 della
sezione seconda, ‘La presenza dei morti’:
Ho consegnato il testimone a te, figlia,
e mi ricorderai.
Tu lo hai consegnato alla tua,
e ti ricorderà.
Ecco, qui c’è il senso più vero di questo lungo
cammino, senso che si dichiara mettendo in relazione al titolo del libro, la
poesia numero 2 de ‘Per il giusto verso’ e la numero 9, l’ultima,
scritta qui sopra, de ‘La presenza dei morti’: Gaccione ha tentato, riuscendoci
bravamente, una serie di riflessioni sapienziali, sociali, storiche, sulla consistenza
del nostro essere-nel-mondo; riflettendo sulle verità delle generazioni
precedenti e su quelle della nostra, cercando di indicare, come lascito
alle generazioni che verranno, lacerti di autenticità. Compito
radicale-fondativo che Angelo non teme di assegnare alla propria scrittura,
così come dovrebbe avere il coraggio di fare ciascuno scrittore, ciascun poeta.
L’interno del suo viaggio, l’interno del libro, si
avvale di una cornucopia di strumenti tattico-stilistici: l’epigramma si è
detto, soprattutto nella prima delle due sezioni, con la sua brevitas e la sua
capacità di colpire il lettore con la forza dell’ironia o con la gravità della
sentenza sapienziale, registri entrambi usati con maestria dal nostro autore.
Ma anche il paradosso, il colpo di teatro (Gaccione è anche un noto
drammaturgo, ha pubblicato tutto il suo lavoro per la scena in un unico volume
“Ostaggi a teatro. Testi teatrali 1985-2007” non molti anni fa),
infine il respiro concettuale dell’aforisma.
Qui di seguito il componimento numero 25, a pagina 33,
nella prima sezione, bell’esempio della forza fulminea e categorica delle
sentenze finali di alcuni di questi testi:
Barabba!
Barabba!
gridava la folla.
È sempre l’innocenza
che spaventa il delitto.
Sul versante del paradosso valga per tutti a mo’ di
esempio il testo numero 20, a pagina 30, sempre della prima sezione:
All’uomo! All’uomo!
Gridò il lupo.
E non fu il solo
a prendere la via del bosco.
Non posso chiudere queste riflessioni senza dire
qualche cosa, dare qualche traccia, anche sulla splendida seconda, breve (9
testi, abbiamo detto) ultima sezione, ‘La presenza dei morti’. Qui l’ironia e
l’irta categoricità dell’epigramma vengono abbandonate a favore di una
commozione evocativa, carica di fremente empatia. Qui il nostro autore rammenta
il nonno, il padre, la madre, il paese e il territorio che gli hanno dato i
natali. Qui si delinea definitivamente quel passaggio di conoscenza sapienziale
da una generazione all’altra che è una delle colonne portanti, caposaldo di
questo volume. A me poi, sin dal titolo, è venuto subito in mente un nome:
Giovanni Pascoli; non stupisca questo accostamento tra un autore, Pascoli, che
benché modernissimo nella sua epoca, traghettatore della poesia italiana dall’Ottocento
al Novecento, possa apparire oggi “antico” e il nostro autore: al di là delle
naturali profonde differenze di stile e visione del mondo, simile è il rapporto
con i morti, simile la forza evocativa messa in campo; Angelo lo dimostra sin
dalla prima poesia di questa ultima parte, a pagina 71:
È sorprendente quanto siano vive,
le cose appartenute ai morti.
Non è solo il maglione,
rimasto ripiegato sul divano,
o la vestaglia appesa alla parete.
Mio padre la vede muoversi in giardino,
e ravvivare il fuoco del camino.
Le parla spesso, dice, e lei risponde.
E per quanto incredibile, gli credo.
Oppure (lo dimostra) la penultima poesia, la numero 8
di pagina 78, in questa seconda e ultima sezione, quella subito prima del testo
di chiusura, il testo della consegna alla figlia del testimone, con cui termina
questo viaggio; questa penultima poesia invece è dedicata al padre:
Di te, non voglio che ricordare il lutto
che mi ha reso orfano.
Il vuoto che ho provato all’improvviso,
d’essere solo al mondo.
Ero padre anch’io,
ma me ne accorsi,
quando persi te.
Queste “spore” di Gaccione, al termine della lettura,
benché disseminate e distribuite su una superficie concettuale vastissima, alla
fine appaiono al lettore rinserrarsi in sé, acquisire nettezza e carattere,
senza perdere duttilità e apertura: disegnano il tracciato di un ben connotato
e riconoscibile, preciso cammino.
Angelo Gaccione
Spore
Introduzione di Alessandro Zaccuri
con una nota di Lella Costa
Interlinea, 2020,
Pagine 90 € 12,00