di
Laura Cantelmo
Quello
che nel suo Breviario delle stagioni (Ed. Agorà & CO 2018) Gabriella
Galzio compie con regolarità liturgica, immersa nella purezza edenica del suo giardino,
è un cammino iniziatico. Cammino di conoscenza scandito giorno dopo giorno
dall’avvicendarsi delle stagioni “mitiche e cosmiche, cioè generate nella
bellezza” (v. Postfazione
dell’Autrice). Hortus conclusus sospeso
in un’atmosfera metafisica, esso è
luogo di meditazione investito di sacrale ritualità contemplativa, dove l’Autrice
come Vestale si addentra nel mistero della
Natura e della poesia sollevandone con stupore estatico il mistico Velo, cui la poesia stessa dà voce: “sogno
una poesia/avvolta in una tela di lino/scritta su immacolata parete/candore del
pane/sulla tavola”. Un vero percorso di conoscenza e di purificazione, simile a
quello che nei riti Misterici di Eleusi le antiche culture Mediterranee riservavano
agli iniziati al culto della dea delle messi, Demetra, e di sua figlia Persefone,
la Kore simbolo della primavera. Nell’abbandono alla libertà dell’Es, al flusso
della percezione e della visione trova voce e impulso amoroso ciò che per
l’Autrice è nutrimento di vita: “questo ho amato, questa poesia”. Esperienza che
trascende i limiti del giardino fino a sollevare il Velo rarefatto, “gentile”,
che adombra il reale. Ed è oltrepassando le “porte della percezione” cui
alludeva Blake che la visione della Vestale
lambisce il cuore del mistero: dalla magia di ciascun fiore, dalla vita che
anima il giardino e dallo stupore di fronte alla vista degli animali riceve
alimento l’ispirazione poetica: “Sai che le anatre /hanno trovato la via del
torrente? /… e il giardino si espande/per vie d’acqua/e poesia cresce/in acqua
chiara”. La poesia è dunque una forma di estasi amorosa ed è al contempo
veicolo di conoscenza. Laddove il Velo consente di avvicinare il mistero, si
manifesta nella natura una condizione speculare a quella dell’esistenza umana, un’alternanza
di dolore, di perdita e di amore che introduce momenti epifanici della vita personale
dell’Autrice e riflessioni sul suo vissuto “pubblico” nella società.
Velo, Acqua, Tempo, Casa, Giardino, Amore sono
parole chiave e simboli di valenza polisemica, collegate al desiderio di
purezza e di purificazione “dai veleni” e dai rumori/rumours della città, che le rende paradigmatiche del tema del
sacro. Ad esse si associano ricordi di viaggio, immagini di altri giardini,
quelli andalusi dell’Alhambra, lussureggianti evocazioni del paradiso islamico
dove risuonano i versi del Poema del Cante Jondo di García Lorca e il ritmo
del più voluttuoso tra i balli di coppia, il
tango argentino, investito a sua volta di valore simbolico.
Ma
è il tema del Tempo, quello della
Natura - il Tempo/Tempio - ad
assumere una posizione cruciale nell’ambito del sacro. La ciclicità degli
eventi genera la speranza di un ritorno, necessaria ad affrontare l’esistenza
con un senso di serenità che il tempo lineare imposto dalla tecnologia ignora. Quest’ultimo,
nel frantumare l’Io individuale e l’intera compagine sociale ha posto l’essere
umano in una drammatica condizione di precarietà e di dolore - “la ferita
dell’esistere”.
Rinchiuso
entro l’unica dimensione di un eterno presente privo di memoria e di
progettualità, esso condanna l’umanità alla solitudine e alla “demenza
digitale” (riferimento dell’Autrice a Manfred Spitzer, Demenza digitale). Sarà dunque il ritorno a una concezione ciclica
temporale - il Tempo della Natura - a ricomporre l’unità dell’Io e il nostro
essere nel mondo.
È
l’Amore, che è sia poesia che
relazione con l’Altro, cui la Galzio dedica una sezione importante della
raccolta, ad ispirarne il tono generale. L’attesa e la grazia esplosiva
dell’unione nell’amore passionale (unica concessione alla presenza maschile) sono
mimeticamente raffigurate dalle rose, in particolare dalla “rosa vellutata
nera”, allegoria della vittoria di Eros su Thanatos:” mi sono rimaste le rose
/nel luogo spoglio dell’amore”, nell’attesa “che il luogo torni/ritorni a
germogliare “.
I “brevi” testi (una delle ragioni del
titolo) sono quasi fotografie istantanee di immagini naturali, in uno spazio sospeso
sono apparentemente simili agli Haiku giapponesi senza esserlo, come afferma
l’Autrice, se non nell’essenzialità dei versi dedicati alla contemplazione
della Natura e nella concezione temporale. Vi prevale la presenza mitico-archetipa
di divinità femminili che simboleggiano le stagioni (Vesta, Afrodite, Flora,
Pomona…) collegate alla cura, alla Casa, “una
poetica, in nulla diversa dal mio cuore” che connota la raccolta, ad affermare “un
asse erotico e mistico tutto femminile” - un’architettura di pensiero, che lungi
dall’essere pura rarefazione, consente persino la critica al male della società
attuale.
Si
percepisce l’eco di María Zambrano, il cui immaginifico discorso filosofico
rifiuta la rigidità razionalistica (v. Chiari
del bosco, 1977), indicando il corpo come principale medium della conoscenza e dell’ispirazione artistica - il corpo che
è carne, sangue, sensi e respiro - con riferimento alla concezione sensuale
dell’amore dei mistici spagnoli nella fusione con il Divino.
Il
linguaggio è alato, illuminato dalla delicatezza delle immagini, dalla
ricorrenza di termini riferiti al candore e alla leggerezza, cadenzato da una
musicalità discreta che ben si addice a quelle che si possono leggere sia come poesia
pura che come metapoesia e note di vita vissuta. Nella sua grazia pittorica esso
riesce ad affrontare con lievità anche la bruttura del mondo presente, senza
nulla togliere alla chiarezza del discorso. Una semplicità “che finalmente
possa parlare a un comune lettore” (v. Postfazione)
senza negare alla poesia l’enigma che ne è sostanza.