di
Fulvio Papi
Un importante articolo (come
sempre) di Luigino Bruni sull’“Avvenire”
pone il problema nel monachesimo di una sua ripresa del tutto rivolta nella
prassi produttiva e aziendale del mondo contemporaneo. Come la regola monastica
assume il lavoro materiale in un tempo spirituale uguale a quello della preghiera,
così il lavoro oggi viene assimilato come prassi operativa e produttiva, alla
realtà materiale dell’azienda come identità temporale. Un esito che ha
paradossalmente la sua origine proprio nella valorizzazione del lavoro come
condizione di una economia di mercato. Credo di avere qualche interrogativo sul
fatto che il monachesimo vada considerato come una radice simbolica
dell’economia di mercato, contrariamente alla tradizionale tesi di Weber
sull’etica protestante come condizione spirituale e quindi comportamentale,
della oggettività propria del capitalismo. Certo il fatto che il monachesimo
nella sua visione di un tempo globale della vita religiosa, abbia
implicitamente valorizzato il lavoro, è una considerazione storica da tenere
conto. Tuttavia gli schiavi esistono per lungo tempo anche nella modernità, e
il loro lavoro non viene considerato spiritualmente pari alla dignità del
lavoro di locali lavoratori che operano, quale che sia, in un’altra condizione
sociale. Credo poi, oltre alle radici etiche e religiose, abbia contribuito a
contrastare una visione schiavista del lavoro, il fatto che il calcolo
economico mostrava come la produttività degli schiavi era inferiore a quella
dei “liberi lavoratori” salariati, ovviamente per il fatto che essi potevano,
almeno pensare, di avere una temporalità propria extralavorativa.
Poi un’altra considerazione: qual è l’esito della produzione
frutto del lavoro dei monaci? Bisognerebbe avere un sapere proporzionato alla
domanda, ma limitiamoci a prendere in esame due estremi. La produzione è il sostentamento
(tutt’altro che spirituale poiché viene sempre dalla “terra”) dei monaci
stessi, o è un prodotto che viene portato sul mercato e quindi, col tempo,
genera in questa prassi un capitale commerciale, o, peggio - come dice la
storia - un consumo della comunità che viola la stessa regola monacale. Ora, a
parte queste osservazioni, mi pare fondamentale la considerazione che il
monachesimo unendo tutti nella “regola”, fa sì che la comunità crei un tempo
uniforme - preghiera e lavoro - assimilabile a una idea di spirituale
uguaglianza. La divisione del lavoro, sulla scia della formazione originaria
del capitalismo, è una forma di razionalizzazione che costituisce un rapporto
con il capitale, la merce, il progetto, sino all’attuale processo di informatizzazione.
E qui si può fare un’ulteriore considerazione: la “mobilitazione” generale per
il lavoro produttivo provoca un tempo uniforme ma rovesciato rispetto a quello
dei monaci. È il progetto produttivo e il suo valore sociale che comandano
questa temporalità: essa diviene la “regola” materiale. Con l’effetto di
provocare un individualismo “proprietario” che nega di fatto ogni forma di
comunità.
Sarà solo una rottura morale a rendere possibile un
de-condizionamento. L’uniformità del “capitale fisso” (la regola identica degli
uomini e della produzione) non avrà come elemento critico la forma del capitale
variabile, ma la forma della moralità. Che, va aggiunto, non potrà essere mai
un gioco dei concetti, ma una modalità della vita.