di
Fulvio Papi
Stiamo vivendo in una situazione
che costa prezzi molto rilevanti: i decessi in primo luogo, l’impegno e il
sacrificio generoso di tutto il comparto sociale della salute, le difficoltà
più che rilevanti, nel mondo del lavoro e della produzione, i disagi dei più
giovani che, nel più che necessario ritiro nelle abitazioni, mettono in gioco
persino alcuni elementi fondamentali della loro stessa identità, comunque si
sia formata nel mondo in cui si sono trovati ad essere. Quanto al sistema
politico, nel precipitare dell’emergenza, ha dato buona prova di sé, ma è
sicuro che, passata la bufera, lo attenderà un impegno più complicato a tutti i
livelli della vita sociale.
Oggi la centralità politica cui spettano le decisioni è stata
supportata da scienziati che hanno un sapere specialistico proporzionato alla
situazione. Domani quando le scelte avranno a che vedere con prospettive di
valore (l’assestamento economico, comunque fatto, è una prospettiva di valore),
le circostanze mi sembrano più incerte. Vedremo. Per ora, qua e là nel luogo
dei commenti, si è ripetuto molto stancamente una volta di più la domanda,
ormai del tutto oziosa, intorno a “che cosa fanno gli intellettuali”. Come se
ogni momento storico fosse uguale a quello in cui con l’affare Dreyfus nacquero
gli intellettuali. Questa è solo storia più antica. Noi siamo passati
attraverso numerose identità contrapposte a livello simbolico, sociale,
politico: interventisti e pacifisti, fascisti e antifasciti, collaborazionisti
e resistenti, cattolici e laici, liberisti e keynesiani, nihilisti e
razionalisti, apocalittici e integrati. Restano certamente sensibili eredità
culturali e morali di queste vicende che hanno un loro senso anche attuale, ma
la figura, la pratica e l’identità della persona che opera in un quadro
intellettuale non ha niente a che vedere con le glorie passate. Si può, senza
timore di sbagliare di molto, dare un quadro di quello che un tempo si sarebbe
chiamata l’intelligenza sociale.
Ci sono gli specialisti di qualche settore del sapere, in
genere universitari, e vittime di una istituzione troppo povera e molto
sbagliata, che costituiscono un corpo coeso e autosufficiente il cui sapere ha
un circuito per lo più autoreferenziale che non ha peso, quale che siano le
opinioni, a livello dei poteri che possono agire sul e nel mondo sociale. Se
così non fosse probabilmente ci troveremmo in una situazione differente. Vi è
per la conversione a una delle numerose forme dello “spettacolo”, intellettuali
che riconoscono come loro destinatari, nella potenza della comunicazione
contemporanea, un pubblico molto ampio dominato da elaborazioni fortemente
emotive. In questo caso è saliente la temporalità propria del consumo che
necessariamente provoca effetti necessari anche nella forma del linguaggio. Dal
punto di vista degli strumenti di comunicazione si può richiamare l’opposizione
tra libro e Internet che Serres attribuiva a due età, tesi senz’altro vera che
invita anche ad approfondire di questo fatto le condizioni teoriche e le
conseguenze sociali e formative. Il paragone con la ben nota coesistenza
storica di manoscritti e stampa è sbagliato. Esistono commentatori che derivano
il loro pensiero da un retroterra culturale di prim’ordine e, giù giù, sino ai
ripetitori più banali o ai ricercatori di effetti sensazionali con un antico
costume che, specie in situazioni difficili, suona certamente male. Quale sia
il peso degli uni e degli altri, in un tempo di decadenza della stampa, sarebbe
tutto da misurare. Da ultimo e da filosofo desidero dire, dopo
l’attraversamento delle forme di pensiero dominanti nel secolo scorso e nelle
sue appendici, che la pratica filosofica o conduce a un sapere che tende a
riconoscere in se stesso un valore educativo, oppure, nella sua elevata e
preziosa retorica, funziona come una “consolatio vitae”, come in Boezio.
Questa elementare geografia degli “intellettuali” oggi, vuole
solo mostrare che a qualsiasi evento, comune o tragico, ciascuno reagisce
secondo il ruolo che ha assunto con tutti i suoi limiti. Il resto sono solo
fantasie che nascono male, o da luoghi comuni tradizionali, o infine, da
eccessi di presunzione. La pubblica opinione (il cui significato non è oggi
quello del primo liberalismo inglese) ha spesso manifestato un disordine
cognitivo che si è accompagnato con desideri egoisti, con propositi di
sconsiderata identità (non c’è muro che possa immunizzare la nostra
imperfezione), con un individualismo ineducato a valori simbolici: il che non
ha niente a che vedere con l’obbligo della sicurezza. È quel mondo, ripeto, che
suppone di difendere la propria immaginaria immunità dal “male”, falsa credenza
di una cultura diffusa che, detto un po’ filosoficamente, ha trasfigurato la
“volontà di potenza” nella sfrenata libertà di consumo, un nihilismo al suo
livello più basso. Siamo al “presente eterno”, tante volte evocato dai
sociologi. Di fronte al limite della nostra natura è nato il fantasma - il male
- che sottintende il contrario. Quella che è stata compresa come la “società
del rischio”, nella convinzione immaginaria è apparsa, libera dai traumi della
storia, come un mondo che vede in se stesso una perfezione sempre in ascesa: il
modello tecnologico pare il modello universale. Le crisi finanziarie hanno
mostrato gli elementi fragili di questa immagine superba, e lo Stato, prima
ridimensionato nella falsa teoria, è tornato in primo piano come “salvatore”.
La partita può continuare. E quando il male, come una
pandemia, colpisce la nostra debolezza naturale (dimenticata o rimossa) e
sconvolge del tutto il normale assetto sociale (come Tucidide e Lucrezio
avevano già veduto), allora la scena cambia radicalmente non solo perché ogni
energia viene impiegata per la difesa, ma perché, accanto al necessario
intervento dello Stato, nasce collettivamente un senso dell’esperienza che era
oscurato nella sua stessa possibilità. Mutano le aspettative e quindi mutano le
condizioni di essere al mondo: nascono le elaborazioni dell’imprevisto che
diventa un fatto tale da implicare, in un modo o nell’altro, la nostra
partecipazione. Come esempio ovvio: le regole pubbliche di difesa svelano nel
profondo la nostra relazione con l’alterità. In questa prospettiva la crisi,
mettendo in gioco pietrificati equilibri etici (cioè il modo di abitare il
mondo) apre una possibile scoperta di sé che, collettivamente, può divenire una
nuova risorsa morale. Nessuno può dire se e come sarà il nostro futuro. E
tuttavia si può pensare a un’apertura che può condurre a un giudizio secondo
cui il “bene” è un destino molto complesso, come pensiero o come fede, che non
deve sfuggire per nulla a chi oggi è colpito dalla sua terribile “banalità del
male”. Dovrebbe nascere il fondato sospetto che della “riproduzione allargata”
dell’orizzonte economico può nascere solo un mezzo possibile per il bene, ma
non il bene stesso. Altrimenti, come nel neo-liberismo, saremmo oggetti di una
provvidenza di un dio immanente.
Qualcuno, e non qualcuno da poco, ha scritto o detto: “nulla
sarà come prima”. Non credo a queste certezze: sono generosamente ingenue
almeno quanto sono solidi i vincoli, gli interessi, le forze, i poteri, le
suggestioni, i ricatti che tessono la trama della contemporaneità. Tuttavia
l’apertura di cui ho fatto cenno non bisognerebbe dimenticarla e lasciarla
sfiorire in una dolorosa primavera. Potrebbe formarsi una considerazione
diffusa che dalla partecipazione presente riconosca i gravi errori del passato
nei quali è bene che ciascuno riconosca le proprie responsabilità con franchezza,
dato che il nostro è tempo di concordia intelligente non di sentenze. E non
dimenticherei che il sapere storico arricchisce molto una qualsiasi buona
posizione progettuale e qualifica una classe politica. Da questa condizione può
nascere un felice pragmatismo che però, nella sua facile intolleranza, altro
non diventa che l’esecuzione di regole già scritte. Nulla però nel “poi” sarà
facile. Tanto più che una parte del paese ha purtroppo mostrato antichi vizi
nell’incapacità di leggere se stessi in una dimensione collettiva. I treni
pieni di gente che fuggiva “in vacanza” dalle zone colpite dal male, l’assalto
ai supermercati con il pensiero funesto della propria salvezza, l’illusione
delle norme necessarie per i propri soddisfacimenti o per le abitudini del
costume. Detto senza indulgenza è il paese vittima di un fragile tessuto etico,
un “particulare” egoistico o passivo. Un’autobiografia che va riscritta ma che,
va detto, si ripete nella vicina Parigi, dimentica di se stessa e delle sue
glorie.
Questo è il motivo unito a una sfiducia nei confronti della
pratica politica a farci comprendere il filosofo pessimista che dice: “Tutto
tornerà come prima”. Il contrario della mia, pur fragile, speranza sulla
possibile apertura, che è sostenuta, opposta ad ogni volgarità, del vedere
positivamente all’opera la direzione del paese; potrebbe essere il segno,
proprio nella prossima congiuntura, di una rinnovata educazione politica.
Ora cerco di riassumere la situazione:
1.- Stiamo facendo l’esperienza del
potere positivo dello stato sulla società che non può essere surrogato da
alcuna altra centralità. Anche se ovviamente deve cercare la collaborazione
consapevole delle forze sociali salienti, come del resto ha fatto. Ora questo
compito centrale dello stato può avere la stessa funzione nella direzione del
“bene collettivo” che, dal punto di vista teorico, non è affatto difficile
“individuare”, e non è nemmeno il caso di ripetere ovvi ma decisivi elenchi.
Invece non è affatto facile realizzarlo tramite una vigorosa scelta delle
priorità sociali, al di là dell’inerzia del sistema che salvaguarda troppi
privilegi consolidati in armonia con un parassitismo politico.
2.-La popolazione ha sperimentato e
approvato l’intervento sul “male” da parte della direzione politica del paese.
Potrebbe mostrare, se continua un’azione degna, una nuova partecipazione
politica che nasca dalle “cose stesse”, al di là della chiacchiera vana e
incompetente. Dovrebbe venire in chiaro che il ceto dirigente non deve sedurre,
ma meritare, al contrario, una propria mimesi etica. Il paese ha bisogno di una
sua ricostruzione economica, sociale e culturale, si tratta di interpretarla e
di rendere chiara l’interpretazione ai cittadini per mantenere un consapevole
consenso anche nelle difficoltà. Non è un fatto ignoto nella nostra storia, e,
personalmente, ricordo quale fu lo spirito collettivo nella ricostruzione del
dopoguerra.
3.- L’Europa ha reagito
all’imperversare del male in un primo tempo attraverso le diverse strutture
stabili bloccando le frontiere. Mostrava in questo modo tutta la sua fragilità
politica. Solo in un secondo tempo vi è stata l’importante risoluzione
economica di sospendere la stabilità monetaria. A livello dell’attuale assetto
europeo è quanto di meglio si poteva fare, accettando così tutti insieme le
conseguenze rilevanti che ne deriveranno. Questa esperienza economica potrebbe
anche essere la prova di quanto sia fondamentale l’unità politica dell’Europa
per essere presenti nelle prove che si possono vedere chiaramente sulla scena mondiale
(nel “grande paese”) e che, se non hanno l’effetto devastante di una pandemia,
bisogna però affrontare nell’unità se non si vuole perdere definitivamente il
livello civile e culturale della nostra storia.
Le europee unità statali, per quello che realmente sono,
appartengono al punto d’arrivo di una storia che ne mette ora in rilievo il
definitivo limite. Lo sguardo, la comprensione, l’azione devono andare oltre. I
nazionalismi quando si identificarono come potenza condussero alle stragi con
milioni di morti. Oggi i nazionalismi, se si identificano come identità
sovrane, condannano i propri paesi alla decadenza. Non c’è “orto chiuso” che
tenga.
Il “poi”, a livello della nostra scena politica, al di là di formalismi
o di sterili astuzie demagogiche, richiederà un chiaro confronto sulle
inevitabili conseguenze economiche che graveranno su tutto il paese. Se è
possibile, e sarà bene, nel mezzo della tempesta, cominciare a preparare
qualche abbozzo di previsione. Così come sarà necessario promuovere nuove e
decisive prospettive europee. È su questi temi, tutt’altro che astratti, si
attenderà la maturità intellettuale e operativa di una classe politica, dopo
molti errori di cui oggi, almeno in buona parte, scontiamo gli effetti.