di Velio Abati
“Odissea” da
tempo sta pubblicando su queste pagine riflessioni che hanno per tema il
coronavirus e le sue implicazioni. Ora abbiamo deciso un passo in più, porsi la
domanda: “Cosa ci ha insegnato la tragica esperienza del coronavirus?”
La pandemia in
corso certifica in modo sbrigativo che oggi il genere umano è uno. L’allarme
ecologico ne è solo l’altra faccia, quella che esplicitamente collega la storia
del genere umano al complesso naturale. Entrambi sono, prima di tutto,
interdipendenti: il numero di uomini e la loro relazione produttiva (al
singolare, “relazione”, perché, fatte salve le ovvie differenze storiche e
regionali, unico è il segno) sono all’origine di questa e di altre possibili
future pandemie. Il tema del venire a termine di un certo modello di sviluppo,
quello capitalistico attuale, è oramai sul tavolo; che l’uscita sia regressiva
o progressiva è la questione.
Che il genere umano sia unificato e che
gli effetti del suo modo di riprodursi abbiano immediata ripercussione (attualmente
distruttiva) sull’ecosistema terra non necessariamente spingono per una
regressione al locale, al nazionalismo, alla separazione; né, dal mio punto di
vista, sono esecrabili. Mettono anzi in evidenza la curvatura oscurantista e
autoritaria di certe parole d’ordine che sono state della sinistra anni
Settanta, come l’equiparazione immediata tra autonomia e democrazia.
L’autonomia scolastica inaugurata da Luigi Berlinguer è l’incubazione
dell’attuale concorrenza liberista tra istituti e della distruzione educativa,
così come la regionalizzazione dei sistemi sanitari è stata la chiave di volta
dell’impoverimento delle strutture pubbliche a vantaggio della sanità privata.
Detto in breve, il nazionalismo autoritario e fascistoide di Salvini non è in
contraddizione con il separatismo bossiano, ne è l’inveramento.
Si può affrontare lo stesso grumo da un
approccio volgarmente pragmatico: problemi globali richiedono risposte globali.
Che la questione di chi sia il soggetto di tale risposta globale sia da discutere
è questione del tutto diversa dal sostenere che essa debba essere rifiutata in
radice ricorrendo alla parola d’ordine d’altri tempi “piccolo è bello e
democratico”.
Non so se ha ragione chi sostiene che
l’esperienza in cui siamo costretti avrà esiti negativi sull’educazione
sentimentale degli individui. Intendo il fatto che l’unica risposta contro
l’attuale emergenza, positiva sul piano fattuale e moralmente augurabile, sia
la separazione fisica sociale. Credo, come sempre, che rispetto a un dato di fatto,
non ci sia mai una sola risposta deterministica, ma dipenda dalla capacità di
risposta, ossia dai conflitti sociali intorno ad essa: l’uno, diceva Mao, si
divide sempre in due. So comunque che l’appello alla responsabilità individuale
- mai come in questa occasione, in mancanza di delega alla cura medica, unica
risposta sensata e possibile - è o può essere una potente occasione di
educazione di massa alla consapevolezza che nessuno, sottolineo nessuno, vive e
muore solo per se stesso. Un’educazione tanto più importante nella forma di
vita da almeno trent’anni dominante in Italia e nel capitalismo occidentale,
nella quale la libertà individuale sperata, propagandata e praticata è quella
del profitto privato, che ha reso e rende giusta e buona la morte dell’altro,
della concorrenza levatrice della democrazia, come se il suo mezzo non fosse la
soppressione del perdente e la sua meta non fosse il monopolio.
Persone come me capiscono benissimo che
il pericolo di questa regolamentazione e limitazione dei comportamenti
personali possa essere esercizio al panopticon orwelliano. Ma, ripeto, sia si
deve sempre partire dai fatti che, diceva un pensatore dimenticato “hanno la
testa dura”, sia la risposta possibile non è mai univoca. D’altra parte, e
simmetricamente, leggo con vero fastidio gli esibizionismi pseudo-radicali di
certi opinionisti che, giudicando “manipolatorio” l’appello dei responsabili di
governo all’autocontrollo, di fatto auspicano e in alcuni casi reclamano
l’intervento della polizia e dell’esercito.
Forse,
l’attuale crisi sanitaria e climatica segna davvero il salto di paradigma tra
il Novecento e il nuovo millennio. Che la formazione politica oggi necessaria
non possa essere quella terzointernazionalita e che la teoria non possa essere
quella bolscevica non cancella la necessità di forme politiche capaci di una
visione complessiva alternativa e di una corrispondente capacità di agire in
modo coordinato all’altezza del disordine mondiale organizzato del capitale.