di
Franco Astengo
Quando
ci sarà la ripresa non sarà sufficiente lo studio basato sulle statistiche. Le
statistiche funzionano quando i mutamenti hanno un ritmo lento, ma perdono
efficacia dinanzi a svolte improvvise e radicali come quelle in corso. Bisognerà
anche rompere la gabbia della subalternità del pensiero alla tecnica e della
rinuncia, avvenuta nel corso di questi anni almeno dalla caduta del muro in
poi, all’articolazione che la storia ha sempre offerto al pensiero umano. Sul
piano della soggettività è entrato in crisi l’individualismo esasperato mentre
sarà del tutto insufficiente occuparci di alcuni temi politici che pure sono
emersi all’interno di questa crisi come punti nevralgici: la fiscalità, il
decentramento dello Stato, il valore complessivo del “pubblico” rispetto al
“privato”.
Ci sarà da
riflettere sull’acquisizione di una nuova nozione di “senso del limite” che ci
arriva dall’aver vissuto una tragedia epocale ma non basterà neppure quella
riflessione per giungere a un livello di elaborazione sulla quale poggiare una
prospettiva di “pensiero lungo”.
Servirà
una ripresa di costruzione dell’ideale. Un ideale che rompa l’idea
dell’ineluttabile soggezione all’esistente proponendo anche di riappropriarci
del senso del limite, senza che ciò significhi ritorno all’indietro.
Non
basterà richiamarci ai canoni novecenteschi.
Sarà
necessario lavorare, usando tutti gli strumenti disponibili, intorno al
rapporto tra cultura e politica.
Il
rapporto tra cultura e politica accusa ormai da molti anni un ritardo
particolarmente vistoso rispetto alle necessità dei tempi.
Un
rapporto quello tra cultura e politica che è stato infatti ormai ridotto
all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi.
Ciò
è avvenuto in diversi campi da quello accademico, per arrivare a quello
istituzionale, economico e soprattutto della comunicazione laddove la politica
appare ormai confusa con l’economicismo e il giurisdizionalismo astratto.
Si
tratta invece di ripartire per una ricognizione di fondo, prescindendo dal
proposito di sviluppare una “ricerca di parte”.
L’ambizione
di questa ripresa di ricerca dovrebbe essere quella - prima di tutto - di
intrecciare i diversi insegnamenti che ci vengono dalla storia della “filosofia
politica”.
Il
risultato dovrebbe essere quello di provocare una riflessione complessiva con
il superamento delle settorializzazioni e degli
schematismi oggi imperanti. Schematismi
imposti appunto dall’egemonia della “sociologia dei numeri”.
Schematismi che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la
qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire
politico”.
Nel
compiere questa operazione intellettuale il primo traguardo dovrà essere quello
di ricostruire una sorta di percorso nella storia del pensiero politico,
cercando di riassumerne le fasi più importanti, individuare i passaggi al fine
di orientare l’idea di una dialettica possibile.
L’esigenza di ricercare questo equilibrio tra “storia del pensiero
politico” e realtà “dell’agire politico”, nasce dalla convinzione che il
pensiero politico sia un “pensiero concreto”, coinvolto attivamente nel mondo,
sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come
costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine migliore, ovvero
rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente.
Servirà
legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che il pensiero politico non
si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie. Insomma, è necessario mettere in rilievo che
la concretezza del pensiero politico consiste proprio nel fatto che esso
aderisce alle drammatiche discontinuità dell’esperienza storica, e anzi le
riconosce, le interpreta, le mette in forma. Sarà importante anche sottolineare
la coesistenza della storia del pensiero con la geografia del pensiero,
rivolgendosi quindi all’illustrazione tanto dell’evolversi delle tradizioni
intellettuali che innervano la riflessione politica quanto alle specificità,
rilevanti e riconoscibili, con cui ciascuna delle grandi aree geografiche le ha
sviluppate e interpretate.
Occorre
mostrare, come, di volta, in volta nel corso della storia si sia strutturato
quello spazio nel quale si sono attuate le relazioni tra i sistemi politici; la
globalità nelle scelte, il rapporto tra la politica e la guerra (o la pace), la
relazione fra l’ordine interno e l’ordine (o disordine) esterno.
Si
deve avere fiducia, ed è questa l’unica nota di ottimismo permessa,
nell’importanza e nell’efficacia formativa della storia del pensiero politico,
nel suo senso più vasto, lavorando per costruire strumenti che ci mettano in
grado di decifrare i momenti di crescita e di crisi, di dramma e di trionfo, di
chiusura localistica e di apertura universale della nostra civiltà
intellettuale e politica. Sarà necessario accingersi ad affrontare la
complessità assolvendo a un compito rispetto al quale, dal mio modestissimo
punto di vista, ben pochi altri possono essere giudicati più importanti e
affascinanti.
Un
lavoro da cui deve sortire la riattualizzazione nella capacità di
individuazione della qualità delle contraddizioni sociali favorendo così
l’elaborazione di una teoria del cambiamento all’altezza del presente e del
futuro. Una teoria del cambiamento appare indispensabile per affrontare ancora
il senso dei nostri inalterabili richiami storici alla relazione tra democrazia
e uguaglianza e dell’evocazione di un adeguato concetto di progresso morale,
sociale, economico evitando le trappole di cui appare disseminato il futuro. Ricostruire
l’idea di progresso: questa la sola sintesi possibile per indicare la necessità e l’urgenza di aprire
un discorso molto difficile in questo momento di apparente invisibilità
dell’orizzonte.