di Petronilla Pacetti
Tempo
fa ho scritto su questo giornale, un racconto su una passeggiata a Roma intriso
della gioia del suo sole, della sua bellezza, della sua eternità; oggi è come
se fossero passati secoli da quel momento: viviamo qui un attimo sì eterno, ma
di angoscia, per un presente drammatico e un futuro ignoto e probabilmente
oscuro. Dalla mia finestra vedo ogni giorno le stesse immagini di serenità, gli
stessi scorci di tranquilla (e privilegiata) esistenza, ma raramente (ed è un
bene, naturalmente) qualcuno si inserisce in questi fondali bellissimi e
inanimati: una persona porta a spasso il cane, un'altra ritorna con la spesa,
nessuno si ferma a parlare con un altro, una modalità che, invece, ha sempre
caratterizzato la vita e i rapporti in questa città rendendola speciale nella
quotidianità oltre che nella storia. Qui se si chiede un'indicazione stradale è
probabile che ti rispondano: sali, ti porto io. O che, anche a piedi, ti
accompagnino a destinazione per evitare che si possa sbagliare strada; con quel
“tu” che con è mancanza di rispetto, ma solidarietà e senso di comune umanità
e, se non fosse troppo azzardato, oserei direi di fratellanza. Tanti anni fa
alcuni compagni d'università che venivano da altre parti d'Italia mi dicevano
con stupore: qui il giornalaio chiacchiera con te quando vai da lui.
Sì, vivere qui era piacevole e forse non sempre siamo stati consapevoli dei
vantaggi e delle opportunità su cui abbiamo finora potuto contare; esistono
infatti altre parti di Roma (oltre che del mondo) dove la vita è sempre stata
meno facile e gradevole, quartieri dove la difficoltà divorano le energie e i
desideri e dove si sente di più il disagio e la fatica di vivere. E di cui
forse non ci siamo particolarmente preoccupati, perché impegnati a godere dei
nostri privilegi di cui probabilmente solo ora alcuni diventano consapevoli,
ora che li abbiamo persi e non sappiamo quando li ritroveremo.
La nostra vita
oggi, nel viziato ed egoista Occidente (dove pure si insediano sacche di
povertà e disperazione che molti fingono di non vedere), un territorio non solo
geografico, ma anche sociale, è profondamente cambiata; e, nonostante le
resistenze di alcuni, tutto è diverso da ieri: sappiamo (o almeno dovremmo
saperlo), che qualche nostro errore potrebbe aiutare il virus a trovare nuovi
spazi di diffusione mettendo in grave difficoltà altre persone, più fragili e
vulnerabili. E sottoponendo a prove troppo difficili un sistema sanitario
intaccato da anni di tagli, di indifferenza e di interessi non rivolti alla
salute delle persone. Una tragedia per una parte della popolazione che ha
dovuto addirittura smettere di curarsi, perché il Servizio Sanitario Nazionale
non è più quello che, nel 1978, portò a compimento uno straordinario percorso per il diritto alla salute di tutti (compreso l'ambito
psichiatrico) e dunque per l'uguaglianza e la giustizia sociale; e di
rispetto delle persone e dei loro bisogni, di umanizzazione dell'assistenza e
di realizzazione non solo dell'art. 32, ma anche dell'art. 3 della
Costituzione, senza il quale ogni conquista, per quanto importante, diventa
vana. Quello fu, infatti, il periodo storico della
grande presa di coscienza nei confronti della salute come bene sociale anche se
l'impegno e la consapevolezza erano cominciati per alcuni molto tempo prima. Cambiò allora radicalmente il
modo di vedere e di sentire l'uguaglianza nella salute che si esprime proprio
attraverso la possibilità di accesso ai servizi e all'assistenza per tutti.
Arrivarono
poi i terribili anni Ottanta in cui verrà erosa, e nemmeno troppo lentamente,
la coscienza collettiva del diritto di tutti alla salute fino a giungere, negli
anni Novanta ad approcci organizzativi che, al di là dei presunti vantaggi sul
piano dell'efficienza, hanno causato la perdita sociale di quella spinta ideale che aveva portato l'Italia ad
avere il Servizio Sanitario migliore del mondo; con le sue straordinarie
trasformazioni concettuali ed operative anche nella cultura della società e che
oggi ritroviamo in qualche modo intatta nell'impegno degli operatori sanitari e
di altri lavoratori che mettono quotidianamente a rischio la loro salute per
tutti noi. Dunque non chiamiamo più sacrificio la necessità di stare a casa (se
non per i bambini) e riserviamo questa parola per qualcosa che davvero meriti
una simile definizione e la percezione di rispetto e ammirazione che comporta.
Non parliamo di angoscia quando ogni giorno sentiamo scandire il numero delle
vittime, persone dietro le quali c'è una famiglia, un dolore, una devastazione.
E forse un giorno sapremo apprezzare di più quella vita
privilegiata che la sorte ci ha offerto al posto di altri, senza che avessimo
alcun merito o titolo speciale per ottenerla se non il fatto di essere nati in
un certo contesto e in questa parte del mondo.